L’elemento acquatico e le alcove di Paolo Conte
Matteo Totaro, L’elemento acquatico e le alcove di Paolo Conte, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 34, no. 5, settembre/dicembre2013
Io e te,
scaraventati dall’amore in una stanza,
mentre tutto intorno è pioggia, pioggia, pioggia,
e Francia.
Paolo Conte, Parigi
Mise en abîme
«L’alcova è un cronotopo della letteratura, luogo e tempo del racconto che sarebbe superficiale limitare al teatro di un’occasione erotica e di un incontro galante. Vi è ben altro. Il letto è uno dei tanti modi di narrare la vicenda umana che si dipana fra gli ambienti concreti e quelli mentali della vita. A letto uomini e donne si amano e si raccontano, si riconoscono e si perdono per sempre. […] Passando da una camera da letto a un’altra, dai talami nuziali ai nascosti e furtivi ritrovi amorosi, ci si può chiedere se questi luoghi possono essere in qualche modo storicizzati, se mutino i contorni della loro rappresentazione»1.
Bruno Capaci, in un ricco excursus storico-letterario presente nel saggio Alcova, traccia un quadro significativo sulle preferenze degli scrittori riguardo alla scelta dei posti deputati alla soddisfazione delle pulsioni erotiche: «le novelle del Decameron sono ricche di camere da letto in cui trionfa un amore giovane e felicemente incontinente, o piuttosto quello che ha il sapore della beffa ardita del piacere rubato, della lascivia trionfante. Altre volte è il pathos tragico a fare dell’alcova un luogo segreto e riposto, in cui gli amanti vivono furtivamente un amore negato che dovrebbe trionfare alla luce del giorno e si preparano inconsapevolmente alla morte»2, come accadrà a Ghismonda.
Nel Rinascimento gli istinti sessuali si tingono di dramma e «il teatro shakespeariano fa dell’alcova il palcoscenico dell’amor tragico»3, come quello di Giulietta e Romeo, vissuto in un «terribile mélange di candore e terrore»4, o quello di Otello e Desdemona, consumato nel dramma della gelosia che trasformerà il talamo coniugale in un letto di morte.
Più avanti, «dall’artificioso selvaggio della poesia barocca con i suoi intrichi e vegetali labirinti l’alcova riceve una connotazione favolistica e quindi di irrealtà, che fa dell’amore carnale un delicato arabesco di metafore, similitudini e personificazioni […], di passioni eccentriche e ammalate, di sogni e presagi inquieti»5. Con il Secolo dei Lumi, l’interpretazione favolistica sembra interrompersi e l’amore torna nei palazzi di città.
Dopo “il romanzo senza alcova”, come sono stati definiti da Capaci I promessi sposi, e i fasti di Andrea Sperelli nel Piacere di D’Annunzio, l’alcova torna a configurarsi come un luogo dimesso, in cui si celebra una trasgressione senza splendore. «I personaggi del romanzo borghese sono antieroi in tutto e le loro camere da letto, se non sono coniugali, appaiono discrete garçonnières in cui il sesso viene consumato in modo appartato. Nella penombra dei sensi di colpa sembra ravvivarsi un desiderio senza slanci romantici ma in qualche modo bestiale»6.
Altre volte l’alcova si trasforma nella rappresentazione del desiderio e dell’impossibilità di soddisfarlo con una passione reciproca e condivisa, come ne Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani. Anche qui, allo stesso modo che nell’Orlando furioso, «in una sorta di intertestualità ferrarese»7, la camera da letto si configura come luogo d’infelicità e di vita perduta: Orlando impazzirà; il protagonista del romanzo di Bassani, invece, «troverà un’amara ragione di vita e la persuasione di essere improvvisamente invecchiato»8.
Come è possibile riscontrare dai pochi esempi significativi testé citati, il cronotopo in esame si presta a essere messo in scena con più di una sfumatura. Tranne casi limite, come per esempio quello del Barone rampante di Calvino, in cui il protagonista vive sugli alberi anche i suoi incontri galanti, il luogo “canonico” preposto alla soddisfazione degli istinti sessuali è, quasi sempre, la camera da letto: quella di casa, oramai priva di qualsiasi sorpresa, o quella più trasgressiva ed eccitante degli alberghi o delle case di appuntamento, come accade ad Antonio Dorigo, l’architetto protagonista della storia raccontata da Buzzati in Un amore.
Nel solco della tradizione letteraria italiana è possibile inserire anche l’esperienza ampia e variegata di Paolo Conte, caratterizzata dalla presenza di alcove tradizionali affiancate ad altre insolite e originali. Per comprendere e inscrivere nel contesto giusto l’argomento in questione bisogna accennare al modo in cui i personaggi messi in scena dall’autore vivono le loro passioni amorose.
A riguardo risulta paradigmatico il commento di Mario Bonanno al brano Lo scapolo che: «viene a porsi come il simbolo della perenne dicotomia sentimentale in cui si dibatte l’eroe delle canzoni di Paolo Conte. Da un lato la vita coniugale, il “caldo del letto”, la “minestra sicura” – ma anche una certa consuetudine senza più sorprese –, dall’altro la trasgressione fine a se stessa: quella consumata con le “mogli degli altri”, solo per farle “godere”, senza impegni morali e senza amore. Perché “nessuna è disposta a dividere con me / una notte come questa, una tristezza come questa”»9. Su un sottofondo languido di pianoforte si stempera «il lamento di un gigolò di provincia, malinconico ma quasi quasi compiaciuto del suo ruolo di libero professionista dell’amore»10. Perché l’amore è provvisorio, “è sempre stato un breve sogno e niente più” (Wanda, stai seria con la faccia ma però) e “questi son sentimenti di contrabbando” (Messico e nuvole).
Perciò non sarà la casa, luogo della sistemazione e della sicurezza, dove ad aspettare ci sono moglie e figli, a venire eletto come il posto privilegiato dell’eros; l’unico tempo che interessa Conte è quello dell’avventura che precede il matrimonio, contro l’immobilità del “tinello marron”, paradigma della routine e della mancanza di comunicazione. Negli ambienti domestici, infatti, la donna si trasforma in «un blocco di silenzio, incomprensibile, impenetrabile, irraggiungibile, una sfinge»11, alla maniera della Ragazza fisarmonica, il cui silenzio è “più volgare di uno sputo”.
L’altra peculiarità degli episodi amorosi presenti nel canzoniere contiano riguarda il modo in cui questi vengono raccontati. È come se l’imbarazzo provato nel descrivere le passioni illecite vissute in squallide camere d’albergo o in luoghi inusuali come il cinema o il teatro si riverberasse inconsciamente sulla scrittura e portasse l’autore a optare per una narrazione ellittica e vaga. È raro, infatti, l’amplesso direttamente evocato. Ci sono solo due occorrenze e in entrambi i casi l’unione è avvolta nel buio: “io e te / scaraventati dall’amore in una stanza” (Parigi); “con noi due dentro al buio abbracciati” (Come mi vuoi).
«Quella reticenza a evocare una sessualità completamente vissuta verrebbe confermata dalla quasi totale assenza del fuoco nella […] rete di immagini [di Conte]»12. Registriamo un solo utilizzo della parola nel brano Dancing, peraltro in un contesto diverso (“ero vicino a una città lontana / tutta di madreperla, argento / vento, ferro e fuoco”), e un’altro di quella polvere di fuoco che è la cenere in L’ultima donna (“quel volo tra stelle e cenere andrà”). «Manca dunque quella combinazione di elementi – fuoco e acqua – che nella simbologia poetica significa l’unione dell’uomo e della donna»13.
Se l’attenzione al motivo del fuoco risulta scarsa, tutt’altra importanza viene riservata all’elemento acquatico che è qui «l’immagine più diretta della sensualità, […] per natura una materia femminile, una “essenza liquida di donna”, come disse Novalis, o essenza liquida degli amanti uniti che si sciolgono nella notte calda, come suggerisce Gelato al limon»14. La novità principale però consiste nel concentrarsi sul simbolo della doccia, «visione tutta nuova, moderna e urbana dell’acqua canalizzata dall’uomo; invece, l’acqua naturale del mare è per lo più un elemento inquietante, che si può guardare dalla riva»15 (al ristorante di Wanda, stai seria con la faccia ma però, sulla spiaggia di Una giornata al mare, nel locale di Boogie), ma su cui è rischioso avventurarsi.
Il viaggio sul mare viene a configurarsi anche come metafora della ricerca amorosa, secondo il vecchio binomio mare-passione; l’atteggiamento verso l’amore è quindi fatto di fascinazione e fuga, ricerca e rifiuto, partecipazione e isolamento.
Sembrerebbe un mondo fatto di un erotismo «un po’ inibito, timido, limitato all’espressione di un desiderio quasi mai realizzato, o realizzato “di nascosto”, nel buio, quasi che la cosa più importante fosse la permanenza del desiderio piuttosto che la sua soddisfazione nel possesso dell’oggetto, il progressivo denudare il corpo desiderato piuttosto che l’abbraccio del corpo nudo»16. Per questo la donna diventa più appetibile d’inverno, quando costringe l’uomo a “trafficare sotto un fruscio di taffetà”, prima di mostrarsi stesa sul sofà in tutto il suo splendore.
Tuttavia l’efficacia di Paolo Conte sta proprio nella fusione perfetta di testo e musica; quest’ultima dirà quello che non possono confessare le parole, non soltanto per ipocrisia sociale, ma perché «l’amore si fa e non si dice, […] la fusione erotica è perdita dell’identità propria degli individui»17. Così il testo non trova il suo pieno significato che nella voce dell’interprete che flirta col suo pianoforte o con l’orchestra.
Dunque la musica si trasforma in un sostituto concreto dell’unione dei corpi e le parole rappresentano un preludio all’erotismo musicale: il commento che fornisce la chiave per capire pienamente la canzone e trarne il massimo godimento sensuale.
Analisi dei testi
Passando in rassegna i numerosi casi in cui nel canzoniere di Paolo Conte viene espressamente evocato un luogo configurabile come alcova, salta subito all’occhio, ed era prevedibile, l’assenza quasi totale di un talamo ubicato entro le mura domestiche; altrettanto evidente risulta l’utilizzo copioso di camere d’albergo e quello, meno frequente ma significativo, di un cinema e di un teatro, oltre che di un ristorante. I gusti dei personaggi contiani non stupiscono affatto: l’amore coniugale è bandito quasi del tutto, motivo per cui la camera da letto di casa perde ogni connotazione erotica alla stregua della donna/moglie, ormai priva di ogni attributo riconducibile alla sfera sessuale.
Le donne del quotidiano sono «le vestali dell’abitudine, le schiave della tradizione, polene della vita di tutti i giorni, gli sguardi assorti, lunghi, rivolti ad altri orizzonti anche quando sembrano tenacemente, vischiosamente impegnate a dialogare con i loro uomini»18. Sono quelle scorbutiche e assillanti di Bartali (“a volte sì sono scontrose / o forse han voglia di far la pipì”; “e tu mi fai – dobbiamo andare al cine – / – e vai al cine, vacci tu -”), o quelle rimaste a casa e “sempre arrabbiate” dei Pittori della domenica.
Donne «che insomma sembrano destinate a restare impigliate nella trappola del matrimonio, della convivenza, dei figli. Ma che non per questo […] possono essere possedute davvero, interamente e con certezza, perché esiste – anche in loro, anche in loro – una frangia di incomprensibilità, un abisso nascosto (forse orrendo, o forse no) difficile da individuare e sul quale è impossibile affacciarsi […]»19.
Il primo luogo di incontro tra gli amanti nel canzoniere, da un punto di vista strettamente cronologico, è il ristorante “in riva al mare” di Wanda, stai seria con la faccia ma però, «cornice ideale di una splendida scena di abbracci, baci e carezze e di un momento di intensa felicità. Più limitato e ambiguo il “paradiso” di Tango, ma sempre al ristorante, come il sogno di Nord: “può darsi a un ristorante si starà”»20.
Ma il posto che più di tutti si presta alla soddisfazione dell’eros è la stanza d’albergo, inaugurato dalla coppia di amanti ormai attempati, che hanno “casa e figli tutti e due”, protagonista del brano Luna di marmellata. In questa camera, che la donna si prepara ad abitare “come fosse una casa”, si consuma un amore fuori dalla routine, illuminato da una luna un po’ flaccida come i corpi dei due a cui è negata la poesia di una luna leopardiana. «Come sempre, Paolo Conte non trasmette qui un messaggio ideologico sulla famiglia, racconta, esprime, con un’arte stupenda, dei sentimenti, delle sensazioni che ci lascia vivere, capire, interpretare, ognuno a modo suo, con l’aiuto della musica»21.
Altro esempio significativo e originale è quello contenuto in Hesitation; originale perché la scena descritta non è visibile direttamente dato che si svolge nella stanza d’albergo attigua a quella del narratore. «Uno spettacolo non visto ma intuito, di pomeriggio, […] al di là di una porta chiusa che dà in un’altra camera. Ci sono dei segnali elettrici, magnetici, che lasciano intuire che dall’altra parte c’è uno stato di esitazione tra un uomo e una donna. Chi ascolta, senza malizia, da dietro la porta, fa delle supposizioni, immagina perfino l’arredamento, la presenza viva, quasi teatrale, di un mazzo di rose. Tanti piccoli segnali che arrivano al di là di una porta chiusa, e di pomeriggio, insisto, perché il pomeriggio è il momento di massimo pathos della giornata, il momento dei demoni meridiani. È una canzone di supposizione, intuizione, e perfino solitudine»22.
È importante sottolineare quanto quella porta chiusa, ispiratrice della storia narrata nel brano, sia nella vita reale motivo di fastidio più che di curiosità per Paolo Conte: «in certe camere d’albergo c’è sempre quella porta che comunica con un’altra camera. Mi disturba molto. Controllo sempre che sia ben chiusa. Oltre quella porta può esserci qualcuno con cui non vuoi necessariamente comunicare. Oltre quella porta, puoi immaginarti un sacco di cose. Poco importa quali. Ciò che importa è sapere che può esserci qualcuno là dietro… Molto più di una parete, quella porta mi dà noia perché non è una porta d’uscita bensì una porta di comunicazione, mentre tu non hai nessuna voglia di comunicare. È la solita paura della comunicazione… Una specie di esitazione…»23.
In un albergo di Parigi, invece, è ambientato un altro particolare incontro amoroso. Ad abbracciare gli amanti, questa volta, non c’è una triste e molle luna di marmellata, metafora di un amore surrogato per chi non può più concedersi una luna di miele, ma una più sensuale ed eccitante pioggia. L’hotel è galeotto (“lasciamo fare a questo albergo / ormai così vicino”) e l’isola parigina degli innamorati, circondata dall’acqua di un temporale, si configura ancora una volta come luogo simbolo dell’abbraccio sensuale.
Qui, però, non assume i contorni dell’isola-paradiso a cui Conte ha fatto spesso riferimento in canzoni come Onda su onda; è un isola in cui, insolitamente, l’amore è associato al concetto di morte; infatti nella camera la gente “va a morire d’amore”. Se facciamo un passo indietro ci accorgiamo che l’autore ha già fatto uso nel brano Gelato al limon del binomio amore/morte, ancora una volta realizzato all’interno di una stanza d’albergo (“la nostra stanza negli alberghi tristi”) nella quale “la notte calda ci scioglierà / come un gelato al limon”.
In altre canzoni in cui la storia non ha come soggetto una tematica squisitamente amorosa è ugualmente possibile riscontrare la presenza di questa tipologia di alcova, magari sottoforma di un rapido accenno. Accade, ad esempio, in Diavolo rosso, in cui nel verso “voci e bisbigli d’albergo” si allude quasi sicuramente a incontri consumati dentro le mura di un hotel, oppure in Ratafià, in cui “gli amanti stanchi lasciano gli appartamenti, de amor”, con possibile allusione alle case di tolleranza, avvalorata dal verso successivo: “dal sesto piano discendon piano piano, pudor”. Il tutto si svolge, in questi come in altri casi, su uno sfondo di traffico, di macchine: “e nel traffico e nel trambusto / ritorna il gusto di questo amor, tenor” (Ratafià); “e abbiamo usato un taxi…” (Parigi). «La macchina è per gli amanti il passaggio quasi rituale che li porta nel luogo stesso dell’amore, l’albergo o il ristorante»24.
All’alcova rappresentata dalla stanza d’albergo, quindi, corrispondono quasi sempre amori extraconiugali, da consumare inevitabilmente lontano dal proprio appartamento. È logico riscontrare come le donne di queste avventure siano diametralmente opposte alle mogli lasciate a casa con i figli. Ma la cosa più sorprendente consiste nel fatto che questa tipologia di figura femminile, «benché sia collocata in universi che sanno di fuga, di cipria, di varietà e di cartone, […] si rivela simile a quella quotidiana: anche lei incomprensibile, anche lei inafferrabile, anche lei, come La donna d’inverno, “tutta più segreta e sola / tutta più morbida e pelosa / bianca, afgana, algebrica e pensosa”. Un’algebra femminile le cui equazioni si confondono – almeno apparentemente – nella mente di Paolo Conte, che sembra trovare il modo di “comunicare” con le donne solo osservandole in silenzio, solo non-agendo, solo aspettando paziente un loro momento di indifeso abbandono […]. Solo da lontano, solo in silenzio, forse, è possibile ritrovarsi e riconoscersi (magari unilateralmente) senza il timore incombente, amaro, paralizzante della delusione[…]»25.
Di sicuro altrettanto inusuali e originali appaiono gli episodi raccontati nei brani Dal loggione e Un fachiro al cinema, in cui l’alcova si identifica rispettivamente in un teatro e in una sala di proiezione. I due ambienti si trasformano in contenitori nei quali va in scena uno spettacolo nello spettacolo: quello teatrale o cinematografico e quello, molto più intrigante, che ha come soggetto l’idillio di un uomo e una donna seduti a poca distanza l’uno dall’altra.
Paolo Conte ha descritto con dovizia di particolari, in un’intervista a Vincenzo Mollica, la storia illustrata nella prima delle due canzoni: «un uomo va nel loggione, e da lontano cerca di intravedere una bella donna di cui è invaghito, ma che è in compagnia del marito. Eccoci di nuovo davanti alla visione di uno spettatore che si gode, in questo caso, due spettacoli: quello che deve andare in scena e quello del gioco di sguardi tra due persone innamorate, o forse una soltanto lo è, non lo so. […] L’individuo, che probabilmente è andato a teatro solo per incontrare lo sguardo di quella donna, non è assolutamente un frequentatore di teatri, ed è costretto a subire lo spettacolo vero, che tuttavia forse gli piacerà, perché si tratta di musica, e la musica è capace di cullare, di consolare, di attenuare passioni o esaltarne altre»26.
Anche qui, come altre volte, l’erotismo non è descritto totalmente dalle parole, è espresso, invece, dalla dialettica tra testo e musica, essenza stessa della canzone. In Conte «questa dialettica è quasi sempre perfetta, senza che si possa mai privilegiare l’uno o l’altro elemento: esistono insieme, e il significato della canzone non sorge che dall’unione dei due movimenti contrari»27. Così l’autore è capace di esprime le più minime sfumature dei sentimenti e delle sensazioni, riuscendo ormai con disinvoltura a cantare anche le virgolette o i puntini di sospensione. La musica è stata dunque il pretesto dell’incontro, ha reso possibile per l’uomo la visione della donna sognata, ed è la musica stessa a sostituire l’erotismo concreto tra i corpi.
Jean Guichard, nel libro di Enrico De Angelis, scrive: «l’amplesso fisico c’è, nella gioia intensa del ritornello, al tempo stesso parodia e parossismo di opera verdiana, che sembra dire: “allora… l’unica cosa che ci resta è la musica…” e tutto finisce in canzone; ma ci dice anche, nel movimento saliente da scrittura lirica e nel riso finale del tenore, che ci sarà “il lampo di follia”; l’amplesso fisico c’è, nell’interconnessione tra struttura testuale e struttura musicale, tra interno ed esterno del teatro, nell’universalità del lampo, nel gioco delle tonalità […]»28.
L’altro brano, Un fachiro al cinema, è speculare a quello appena analizzato: con le stesse dinamiche si realizza uno spettacolo nello spettacolo, anche se stavolta non si tratta di musica bensì di un film che il protagonista della storia è costretto inevitabilmente a ignorare poiché concentrato a osservare la donna che ama (“mi sono perso un film / proprio in un cinema… / han dato un altro film per me…”).
Sempre a Vincenzo Mollica in un’intervista finita nel libro Si sbagliava da professionisti Conte ha raccontato la storia messa in scena nel brano: «[è una] canzone dal testo cortissimo, dedicata a un tipo costretto a contorcersi sulla poltrona di una sala cinematografica perché anche qui c’è una donna che lo turba, una donna reale, seduta qualche fila davanti a lui. Mi è venuto bene il titolo, un po’ alla Flaiano. Mi fa venire in mente Un marziano a Roma, ma soprattutto le parole “fachiro” e “cinema” messe insieme mi sembra che funzionino, che facciano un po’ di show. Chissà che film si è perso il fachiro: non lo saprei dire, però chissà quanti film brutti mi sono perso io»29.
Siamo di fronte all’unico caso, all’interno del canzoniere contiano, in cui l’alcova si sovrappone alla sala cinematografica. In altre occasioni il cinema verrà utilizzato come metafora della vita che scorre, soprattutto nelle storie scritte nell’ultimo periodo, come in Sandwich man, in cui il protagonista afferma: “sento la mia vita che sta diventando un film / sì, ma l’ho già visto e non mi piace questo film”. Nel recente brano Il regno del tango, invece, il cinema diventa semplicemente il luogo dentro il quale è ambientata la storia di un vecchio suonatore di bandoneon, cacciato proprio sulla porta d’ingresso dalle pedate della proprietaria infastidita dalla musica triste del suo strumento.
Tornando per un attimo all’interno dell’albergo, è opportuno rilevare la presenza di un altro posto inatteso legato all’immaginario erotico di Paolo Conte: lo stanzino da bagno. Dai “bagni diurni” di Gelato al limon “che sono degli abissi di tiepidità” a quelli “turchi” di Blue Tangos, dal bagno “caldo” di Via con me all’acqua “fresca di un bagno” in Bella di giorno, dalle “tiepide docce” di Uomo camion al “pediluvio” di Colleghi trascurati, fino alle docce umanizzate in Nessuno mi ama (“cantavano le docce”). Insomma, non si tratta di episodi sporadici, piuttosto è evidenziabile un’attenzione particolare all’elemento acquatico, declinato in modi inusuali e del tutto originali.
Abbiamo già accennato alla connotazione sensuale dell’acqua e a quanto essa sia presente nella tradizione poetica italiana e straniera. È raro, però, che la sensualità venga espressa attraverso l’acqua di una doccia, immagine squisitamente contiana che «tende a collegare il piacere amoroso dell’acqua interna, umanizzata, del bagno, in opposizione alla fredda ostilità dell’acqua esterna e naturale della pioggia. […] Così, Paolo Conte dà un valore poetico alla quotidianità triviale della doccia. Di solito, oggi, l’acqua della doccia non ha più niente di mitologico, né di religioso, non è più l’acqua della purificazione magica, non ci fa più sognare, ci lava; è soltanto l’acqua razionalizzata dei chimici, degli igienisti e degli idraulici, materia condizionata, resa potabile, con un forte odore di varechina»30.
Ora l’autore «riesce a dare all’acqua della doccia una dimensione poetica, simbolica, quasi onirica; trasferisce il mito dell’acqua naturale, pura e purificatrice della fonte, della fontana, del fiume o del mare, all’acqua umanizzata della doccia e del bagno (a cui il qualificativo di “turco” ridà anche una connotazione da mito orientale). In questo, Paolo Conte si rivela un grande poeta moderno, perché è capace di far rivivere nell’ambiente moderno della doccia l’antica mitologia, ormai libresca e morta, delle ninfe nelle fontane, di dare al bagno il valore inconscio che si collegava già alle acque virgiliane abitate dalle dee o alle “chiare, fresche e dolci acque” del Petrarca: non più ripetizione di immagini superate, ma ricreazione di un mito. La doccia non è igienica, è simbolica»31.
Guichard insiste sulla contrapposizione tra l’acqua “tiepida” e familiare della doccia e quella “scura” e “fredda” del mare e della pioggia. A voler essere precisi, l’antitesi dovrebbe essere rivista e riorganizzata. Se l’acqua del mare, infatti, si pone indiscutibilmente in posizione opposta rispetto a quella della doccia, lo stesso non si può dire per la pioggia, elemento caratterizzato in Conte da una gamma di sfumature notevoli.
Accanto alle piogge “ostili” di Via con me e Architetture lontane, peraltro metaforiche (“fuori piove un mondo freddo”; “piovono languidi giorni”), abbiamo numerosi esempi in cui la pioggia possiede attributi familiari. L’esempio più chiaro è quello offerto da Genova per noi in cui l’acqua del temporale ha una connotazione estremamente positiva perché caratterizza “l’immobile campagna” alla quale il protagonista spera di fare ritorno. È possibile, inoltre, riscontrare una citazione del brano nella più recente Nessuno mi ama, in cui al temporale che “fa dei grandi gesti grigi” è associato il verso successivo, “è il clima mio”, che chiarifica e commenta il significato della strofa.
Anche in Blue Haways l’accezione è positiva: tra l’autore e la pioggia si crea un legame intimo (“io non sapevo risponderti / perché ascoltavo la pioggia”), mentre in Colleghi trascurati la metafora dell’acqua che bagna è utilizzata ancora per esprimere uno stato d’animo positivo (“mi sento fradicio di magia”).
Le altre occorrenze presenti nel repertorio possono essere definite “neutre” dato che le connotazioni della pioggia non risultano negative né positive: a Parigi, dove tutto intorno è “pioggia, pioggia, pioggia, e Francia” (Parigi), come a Berlino, dove piove “una pioggia spagnola” (Berlino). La stessa neutralità si riscontra nel brano Gli impermeabili, in cui la pioggia cade “sulle insegne delle notti andate”, in Architetture lontane, in cui c’è una “stradina moderna sotto la pioggia”, o in Cosa sai di me, dove a piovere sono gli applausi e una pioggia che “scroscia strana laggiù”.
Pare plausibile, dunque, riconsiderare la contrapposizione tra gli elementi “mare”, “pioggia”, “doccia”, e concludere che in Paolo Conte l’unica acqua veramente ostile e che incute timore è quella orizzontale del “mare scuro / che si muove anche di notte e non sta fermo mai”, in antitesi rispetto a quella verticale e familiare della doccia e della pioggia.
Solo in pochissimi casi, come in Boogie, il mare si carica di una valenza positiva, ma qui «è già un mare addomesticato e pacifico da dépliant turistico»32: “l’orchestra si dondolava come un palmizio / davanti a un mare venerato”; «all’opposto il mare può significare oscurità, immensità oscura, fonte e luogo di tutte le paure dell’uomo, perché è fonte e luogo di tutti i desideri […]»33. La carrellata è davvero nutrita: le immagini marine, reali e metaforiche, abbondano. Oltre agli esempi già citati vale la pena sottolineare qualche episodio particolarmente felice dal punto di vista linguistico e della suggestione: il mare che “lussureggiava” in Macaco, quello “sconsolatamente fresco” di Spassiunatamente, quello “antico” che parla “parole greche sconosciute” in Chissà, fino alle metafore di Uomo camion (“oceano di attimi”) e di Big Bill (“gli unghioni del mare sull’eternità”).
Dunque il mare è, nella maggior parte dei casi, un elemento pericoloso su cui è sconsigliato avventurarsi, come quello di Aguaplano che esplicita nuovamente, diversi anni dopo Genova per noi, una paura ormai radicata e insuperabile. L’autore racconta così la canzone: «Aguaplano […] contiene un’indagine. Un’indagine fatta a bordo di un piccolo aeroplano sulla baia di quella che io ho chiamato in italiano “il fiume di gennaio”, che è poi la traduzione di Rio de Janeiro. Quando Rio è stata scoperta, in gennaio, si pensava che fosse sulla foce di un fiume. L’indagine è condotta da un personaggio – che non sono certo io, anche se la canzone è trattata in prima persona – che si accorge che sull’acqua sta oscillando un grande pianoforte a coda, e chiede al pilota di abbassarsi per osservare meglio. Si domanda perché, e comincia a fare delle supposizioni, di tipo sentimentale. Immagina che, con una forza erculea data dalla disperazione, qualcuno abbia scagliato da una nave un pianoforte, intorno al quale gambe di belle donne e sguardi di bella vita avevano prima fatto festa»34.
L’azzardo seduttivo appena accennato è quello degli “occhi che si cercano” e delle “labbra che si guardano”, “delle gambe che si sfiorano” e delle “tentazioni che si parlano”, con un gioco incrociato di verbi che fa venire in mente Rimbaud o Verlaine, oppure, come ha fatto notare Fernando Romagnoli35, il Francesco De Gregori di Rumore di niente: “gli occhi oggi gridano agli occhi / e le bocche stanno a guardare / e le orecchie non vedono niente / tra Babele e il Villaggio globale”.
Altrettanto rilevanti sono le conclusioni a cui sono giunti gli studenti del Liceo “Lakanal” di Sceaux (Parigi) guidati dalla professoressa Doriana Fournier: «vista come metafora, Aguaplano è una specie di Otto e ½ in canzone, dal tema del volo […] a quello della crisi momentanea di un artista scontento di se stesso e degli altri. Il pianista butta via il piano, il cineasta vuol smontare la costosissima astronave del suo film. L’uno e l’altro decidono di compiere gesti definitivi per non avere la tentazione di ricominciare da capo. Ma il film si farà e sarà un capolavoro; e il piano non sprofonderà perché sa planare sull’acqua e, in un modo o nell’altro, continuerà a farci sentire il suo suono misterioso. L’autore del misfatto, al suo prossimo volo, potrà magari riprenderselo e, questa volta ancora, gli ci vorrà “una bella forza” da ogni punto di vista. Per il momento lasciamolo galleggiare, il bell’aguaplano nero, barca dei rimpianti e dei desideri, strana “nave che va” sulle onde eterne della Musica e della Poesia…»36.
Le immagini messe in scena nel brano, il cui titolo (originale coniazione di Paolo Conte) è di per sé arcano e misterioso, evocano le atmosfere e i personaggi di un celebre romanzo italiano: Novecento di Alessandro Baricco, uscito sei anni dopo la pubblicazione dell’album in cui è contenuta Aguaplano. Anche qui, come nella canzone e nel programma radiofonico “Mocambo Bar”, al centro della storia c’è un misterioso pianista. Se l’esistenza del musicista di Aguaplano è solamente ipotizzata, e quello solitario del locale di provincia resta quasi sempre nell’ombra, il pianista di Novecento è il protagonista principale del romanzo e possiede alcuni tratti in comune con più di un personaggio contiano.
Lemon (questo il nome) vive sospeso tra il suo pianoforte e il mare. Dallo strumento, però, non troverà mai la forza di staccarsi, non supererà mai la paura di amare e di crearsi radici, sopraffatto dal timore di non riuscire a vedere nessuna vita al di là di quella nel transatlantico. Piuttosto che scendere e confrontarsi col mondo, preferirà abbandonare i suoi sogni e lasciarsi esplodere con la nave che per anni ha custodito tutti i suoi desideri e le sue paure. Viene da pensare inevitabilmente ai personaggi della “prima maniera” contiana, chiusi nel loro guscio e incapaci di uscire dall’angusto e deprimente perimetro della provincia.
Tornando al tema dell’elemento acquatico è opportuno rilevare almeno un altro utilizzo del mare per esprimere due concetti opposti e paradossalmente complementari come “amore” e “morte”. Il viaggio sulle distese azzurre, infatti, è da sempre «metafora della ricerca amorosa, che non può sottrarsi, se si entra nel “gioco”, se lo si accetta […], alla “terribilità” delle passioni, alla “mobilità” incerta, fantasmatica, sfibrante, dolorosa dei sentimenti»37, come testimoniano i versi borgesiani di Rebus: “cercando di te in un vecchio caffè” / ho visto uno specchio e dentro / ho visto il mare e dentro al mare / una piccola barca per me / per farmi andare a un altro caffè / con dentro uno specchio e dentro / si vede il mare e dentro al mare / una piccola barca pronta per me”.
Una barca quindi, per navigare sulle acque “cupe” di un “mare scuro”, un po’ come la barca di Caronte, che traghetta verso la morte; ed ecco l’altra faccia della metafora marina, perché mettersi in mare è anche «avventurarsi in un’odissea senza fine, in un eterno errare senza mai approdare all’altra riva»38.
Il mare come metafora della morte è molto presente nelle canzoni di Paolo Conte, soprattutto in quelle degli ultimi album. Nell’enigmatico Il quadrato e il cerchio l’autore canta: “fatemi nuotare / fatemi svanire”, associando l’atto del nuotare a quello del dileguarsi. L’interpretazione potrebbe apparire a prima vista forzata, ma se si compie un passo indietro di soli quattro anni e si ascolta Sonno elefante ci si rende conto che l’ipotesi è alquanto plausibile e coerente.
Il “sonno” di cui parla la canzone, infatti, può essere letto come il riposo ultimo e pesante, “elefante” appunto, che porta a varcare la soglia della vita, e a “volare / tra le montagne / sopra le dune / senza guardare / senza pensare più / senza capire”, ormai ridotti a “cipria sull’aria che / vibra di magico”. Ma il verso chiarificatore è quello in cui questo “gigante” sonno mortale viene descritto come “arcaico nuoto nell’acqua cupa”. A questo punto risulta più trasparente anche l’immagine evocativa quanto enigmatica dei “laghi bianchi del silenzio”, presente nella canzone Alle prese con una verde milonga e leggibile senza ombra di dubbio come un simbolo tanatologico.
Il tema della morte viene ripreso qualche anno dopo nel brano I giardini pensili hanno fatto il loro tempo, in cui è dipinto un paesaggio irreale che ha sede soltanto nella fervida immaginazione dell’autore. Come ha scritto acutamente Paolo Zublena: «il soggetto enunciante si autodefinisce attorno alla sua origo: postazione […] nella quale è assiso in una naturale condizione di inadeguatezza conoscitiva nei confronti dello spazio esteriore (“non so dir da qui”). Quello spazio lontano, che ha il colore dell’indistinzione (“un nero già blu”) è […] indicato dal topodeittico distale laggiù, rispetto a cui il soggetto denuncia la propria estraneità. Sciogliendo la metafora, siamo in presenza di una rappresentazione del fuori: se si vuole, dello spazio della morte»39. In questo caso l’elemento acquatico non viene utilizzato per la costruzione della metafora tanatologica; tuttavia è presente in filigrana nella connotazione del paesaggio ultraterreno che ha il colore “scuro di un nero già blu” e che richiama chiaramente l’acqua “cupa” di Sonno elefante.
C’è poi un esempio molto più banale ma degno di essere citato in cui al protagonista di Ma si t’a vo’ scurdà si consiglia di gettarsi in mare per dimenticare la donna che gli ha tolto ormai anche l’appetito (“oggi non ho voglia di patate / ogni sfizio non c’è più”).
Ma l’acqua del mare può anche condurre al naufragio, come quello metaforico “senza una barca e pure senza mare” di una coppia di meridionali emigrata nel capoluogo lombardo, o quello paradossalmente salvifico che vede protagonista un uomo caduto da una nave in Onda su onda.
Il primo esempio è relativo al brano Naufragio a Milano, in cui l’autore si cimenta, cosa mai fatta prima, con un testo in dialetto napoletano (in seguito ci riproverà in Spassiunatamente, nella già citata Ma si t’a vo’ scurdà, nella recentissima Suonno e’ tutt’o’ suonno). Ed è curioso notare come Paolo Conte, nel suo imperturbabile isolamento astigiano, consideri l’uso del dialetto nella canzone addirittura “una disgrazia”: «ho scritto qualche canzone in dialetto per mio divertimento. Non ho il culto del dialetto, io […]. Il dialetto ci riporta indietro, ci porta a non capire il resto del mondo. Il che non vuol dire privarsi del piacere di far rivivere, qualche sera fra amici, le vecchie parole dimenticate… Allora sì che il dialetto diventa bellissimo. Altrimenti è un errore. E in canzone, una disgrazia!»40.
Nel testo «c’è tutta la disillusione e l’amarezza (che non si fanno mai tuttavia in Conte dramma, tragedia; ormai lo sappiamo bene) di una difficile “integrazione miezz’ò ciemento”, nello sbadiglio immenso di “Melano, o’ paese è rraggiuniere”»41, in cui però, al meridionale, è sconsigliato ragionare (anche se “unommene, fiemmene, creature / tutti raggiunano a tutte quante l’ore”), perché se ragiona “l’uocchie chiagne fore / millecento lagreme”. L’emigrante deve scordarsi il sole, il mare “e l’acque chiare”, “l’erba e à voce antica d’ò silenzio / miezz’ò vico e a’ caccavella e ò putipù”, perché adesso è e sarà sempre “orario fisso e frastuono dint’a capa”.
Alla fine, derubati di ogni speranza, di fantasia e di allegria, ai malcapitati “nun resta che l’ammore, nu disperato, antico eterno ammore”, dentro al quale di notte si sciolgono come per magia tutte le preoccupazioni. Fernando Romagnoli ha scritto: «l’accumulo degli stereotipi, dei luoghi comuni da cartolina, rende il brano amaro-ironico, agrodolce, e scongiura il reportage sociologico o la canzone “impegnata”, di denuncia […]»42. Altrettanto brillante è il commento di Mario Bonanno: «in un napoletano enfatico, grasso, da mitologia geografica, le scombinate osservazioni di un uomo fuori luogo e fuori tutto. Un naufrago di città come tanti, un provinciale estraneo alle coordinate della metropoli, un pellegrino spaesato in una tentacolare “terra promessa” che spaventa. Quanto al benessere, non era così a portata di mano, come nei sogni. Emigranti si è per sempre, coloriti nel linguaggio, negli atteggiamenti esteriori. La nebbia che ci si porta dentro non si vede. E non va via»43.
Non sempre, però, il naufragio è descritto con toni tragici e funesti; quello che viene raccontato nella celebre Onda su onda è un leopardiano “dolce naufragar” che termina con l’approdo su un’isola lussureggiante e paradisiaca, con “palme e bambù, donne di sogno, banane e lamponi”, alla quale è facile abituarsi in fretta (“mi sono ambientato ormai”).
Paolo Conte, in un’intervista a Vincenzo Mollica, ha detto: «anche questa, come Aguaplano, è una canzone quasi da enigma, da indagine: un uomo è caduto in mare da una nave da crociera; è scivolato, è stato spinto da qualcuno, o si è buttato lui? L’uomo si allontana sempre più alla deriva e approda in un luogo meraviglioso: probabilmente il paradiso, o chissà cosa. C’è un antefatto che io ho costruito nel mettere insieme la canzone, con una tecnica da flash-back: la donna di quest’uomo lo tradisce con il comandante della nave, e tutto ciò potrebbe costituire il movente. Ma forse il movente è un altro, è più nascosto, più segreto, è una solitudine che non si può comprendere se non dopo un vero e proprio naufragio che fa approdare a una riva segreta»44.
Un naufragio dunque salvifico, sempre che non sia soltanto un sogno vissuto durante l’annegamento, o addirittura l’aldilà, secondo la corrispondenza convenzionale naufragio/Eden. L’isola è la salvezza dai pericoli del mare mosso che può portare anche alla morte (“che acqua gelida qua / nessuno più mi salverà”); allo stesso tempo rappresenta un luogo ideale dell’amore per i personaggi contiani e, essendo cinta dal mare, un corrispettivo naturale della camera d’albergo circondata e protetta dalla pioggia.
Eppure il primo incontro tra un giovanissimo Paolo Conte e l’acqua marina non era stato poi così negativo; tutt’altro: un’esperienza grandiosa e piena di avventura, come lui stesso racconta nel libro di De Angelis: «un giorno mia madre ci preparò, mio fratello e io, per una grande avventura: un viaggio da Asti a Rapallo. Oggi bastano due ore di autostrada ma allora… Andammo in camion, uno di quelli funzionanti a gassogeno. Era di Ferruccio, un amico di famiglia morto poi in Argentina… Nella cabina c’erano lui che guidava, sua moglie Wanda e mia madre con mio fratello piccolo in braccio. Quanto a me, feci il viaggio di dietro, allo scoperto, con altre donne che venivano con noi. […] Finalmente arriviamo al mare. Era la prima volta che lo vedevo. Quella sera stessa, credo, a Paraggi, che è un posto paradisiaco, un signore romano assai distinto invitò mia madre a fare un giro in barca. Era una barca a fondo piatto, un sandolino elegantissimo, rivestito all’interno di alpaca e costruito con un legno liscio, dolce al tatto. Scivolammo su quell’acqua violetta, meravigliosa. Era un sogno. Quel primo incontro con il mare fu anche il primo incontro con l’acqua, con un altro paesaggio»45.
Anche un brano all’apparenza completamente differente come L’ultima donna, sorretto da un ritmo di tango appena accennato, riprende e rielabora i temi del naufragio e della morte: “aeronautico è il cielo / vuoto, abissale sarà / senza orologi quel viaggio / tra stelle e cenere andrà”. Questa volta si tratta di un naufragio all’incontrario, non tra i flutti ma nel cosmo, «lontano da “questa vita bagascia / questa vita che va”. Per viatico un ultimo incontro d’amore. Ma diverso: ché se la prima donna fu “lampo di luna sul giorno, / un universo, un enigma, un lungo aspettami e torno / in un miagolare di dischi e di lady be good / l’ultima donna è un problema diverso […] l’ultima donna che avremo un giardino ci sembrerà / sì proprio l’ultimo approdo di terra”»46.
Come abbiamo avuto modo di constatare, i luoghi dell’immaginario contiano sono spesso luoghi d’aria e d’acqua, «come se cielo e mare, declinati in ogni variazione e accessorio possibile, in qualità di involucri del mondo fossero gli unici contenitori accettabili per raccogliere i brandelli d’azione messi in scena […], riverberandoli fino a farli diventare storie vere e proprie, mentre le emozioni si specchiano negli eventi naturali»47.
Ed è la donna, infine, eterna complice e destinataria delle canzoni, «sconfinato mistero da esplorare»48, a presentarsi come compartecipe di entrambi gli elementi che abbracciano gli estremi della poetica di Paolo Conte, dal momento che “c’è in lei una specie di cielo / un’acqua di naufragio, un volo” (Blue tangos).
Note
- Bruno Capaci, Alcova, in Luoghi della letteratura italiana, Bruno Mondadori, Milano, 2003, pp. 1-2.
- Ivi, p. 4.
- Ivi, p. 7.
- Ibidem
- Ivi, p. 9.
- Ivi, p. 11.
- Ivi, p. 14.
- Ivi, p. 15.
- Mario Bonanno, Paolo Conte – Sotto le stelle del jazz – Naufragi, voli, canzoni, Bastogi, Foggia, 2003, p. 33.
- Ibidem.
- Jean Guichard, Elisabeth Renault, Jean-Christophe Rosaz, L’amore in Sol minore, in Enrico De Angelis, Conte – 60 anni da poeta, Franco Muzzio, Padova, 1989, p. 131.
- Ivi, p. 124.
- Ivi, p. 125.
- Ivi, p. 123.
- Ibidem.
- Ivi, p. 125.
- Ibidem.
- Patrizia Carrano, Lampi sul Messico (e nuvole), in Enrico De Angelis, op. cit., pp. 135-136.
- Ivi, p. 136.
- Jean Guichard, Elisabeth Renault, Jean-Christophe Rosaz, L’amore in Sol minore, in Enrico De Angelis, op. cit., p. 119.
- Ibidem.
- Paolo Conte, cit. in Vincenzo Mollica e Valentina Pattavina (a cura di), Paolo Conte – Si sbagliava da professionisti, Torino, Einaudi, 2003, p. 61.
- Paolo Conte, cit. in Monique Malfatto, Conversazione con Paolo Conte, in Enrico De Angelis, op. cit., p. 57.
- Jean Guichard, Elisabeth Renault, Jean-Christophe Rosaz, L’amore in Sol minore, in Enrico De Angelis, op. cit., p. 119.
- Patrizia Carrano, Lampi sul Messico (e nuvole), in Enrico De Angelis, op. cit., p. 137.
- Paolo Conte, cit. in Vincenzo Mollica e Valentina Pattavina (a cura di), op. cit., p. 55.
- Jean Guichard, Elisabeth Renault, Jean-Christophe Rosaz, L’amore in Sol minore, in Enrico De Angelis, op. cit., p. 129.
- Ivi, p. 128.
- Paolo Conte, cit. in Vincenzo Mollica e Valentina Pattavina (a cura di), op. cit., p. 56.
- Jean Guichard, Elisabeth Renault, Jean-Christophe Rosaz, L’amore in Sol minore, in Enrico De Angelis, op. cit., p. 120.
- Ibidem.
- Ivi, p. 121.
- Ibidem.
- Paolo Conte, cit. in Vincenzo Mollica e Valentina Pattavina (a cura di), op. cit., p. 10.
- Fernando Romagnoli, Una luna in fondo al blu – Poesia e ironia nelle canzoni di Paolo Conte, Bastogi, Foggia, 2008, p. 62.
- Lavoro collettivo di una classe del Liceo Lakanal di Sceaux (Parigi) guidato dall’insegnante Doriana Fournier, in Enrico De Angelis, op. cit., p. 78.
- Fernando Romagnoli, op. cit., p. 31.
- Ibidem.
- Paolo Zublena, «Max, non si spiega» – Figure dell’opacità semantica in Paolo Conte, Il suono e l’inchiostro, Centro studi Fabrizio De Andrè (a cura del), Chiarelettere, Milano, 2009, p. 144.
- Paolo Conte, cit. in Fernando Romagnoli, op. cit., p. 77.
- Fernando Romagnoli, op. cit., p. 76.
- Ibidem.
- Mario Bonanno, op. cit., p. 37.
- Paolo Conte, cit. in Vincenzo Mollica e Valentina Pattavina (a cura di), op. cit., p. 51.
- Paolo Conte, cit. in Monique Malfatto, Conversazione con Paolo Conte, in Enrico De Angelis, op. cit., pp. 37-38.
- Cesare G. Romana, Quanta strada nei miei sandali – In viaggio con Paolo Conte, Fazi, Roma, 2006, p. 47.
- Isabella Maria Zoppi, Paolo Conte – Elegia di una canzone, Editrice ZONA, Arezzo, 2006, p. 55.
- Ivi, p. 56.
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