Ritratto di Fortunat Strowski (1866-1952) di Maurice Levaillant
Davide Monda, Ritratto di Fortunat Strowski (1866-1952) di Maurice Levaillant, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 34, no. 18, settembre/dicembre2013
Fortunat Strowski1. Ora ho il compito di ripercorrerne, dinanzi a voi, la carriera e di farne rivivere lo spirito: era uomo illustre e affascinante. È compito certo gradito: ripercorrendo venticinque o trent’anni, ho avuto l’illusione di ritrovare un po’ della mia giovinezza nella familiarità di maestri e amici – come lui, ahimè, o prima di lui, scomparsi.
Compito tuttavia delicato: per quanto eminenti e solide fossero le qualità del vostro collega, erano il fascino e la grazia a distinguerlo. Una sorta di grazia intellettuale, un po’ simile alla grazia femminile, che La Fontaine dice «più bella ancora della bellezza»; una sorta di fascino, di cui subiva la magia rinunciando a definirlo. Strowski aveva qualcosa del poeta, discepolo com’era non solo di La Fontaine, ma di Montaigne; spesso, all’apparenza, «mutevole e vario» come l’autore degli Essais, volando spesso, giusto come l’autore delle Fables, «di fiore in fiore e da una cosa all’altra». Si possono fermare i riflessi del ruscello, la screziatura di un’ala?
Ma, quanto a Michel de Montaigne, Fortunat Strowski era legato a Blaise Pascal: nei tre volumi in cui seppe restituirci mirabilmente l’autore delle Pensées, si consolidava la sua fede – ma con fascino e grazia, sempre associata a un pudore discreto. Il pudore, d’altronde, è uno dei tratti essenziali di questo spirito gentile. Non si faceva affatto notare: si lasciava intravedere, preferendo insinuarsi anziché imporsi; pensava, del resto, che le vere conquiste non dipendano dalla violenza. Quel pudore, istintivo e insieme ponderato, completava così il suo fascino e la sua grazia.
Quante sfaccettature, dunque, e che complessità! Davanti a un tal modello, non stupisce che il pittore conti sulla vostra indulgenza. Tutti qui, o quasi tutti, avete conosciuto Strowski: l’avete apprezzato e l’avete amato. I vostri ricordi collaboreranno con i miei. E se, ascoltandomi, proverete per qualche minuto l’illusione di rivedere, davanti a voi, la figura alta e curva del vostro antico collega, avrò – ritrattista senz’arte qual sono – l’illusione lusinghiera di non aver tradito del tutto l’arduo mio ritratto.
Per un intreccio di casi fortuiti, il 16 maggio 1866, fra i bastioni di Carcassonne, nacque, da un sangue polacco e insieme bretone, Fortunat Joseph Strowski de Robkowa. Suo padre, professore d’inglese e tedesco nel liceo cittadino, aveva immaginato ben altro destino. Allievo ufficiale nel collegio militare di Neustadt, presso Vienna, nel 1848 si era gettato nell’insurrezione, presto repressa, della piccola repubblica di Cracovia contro l’Austria. Prigioniero dei Russi chiamati alla riscossa, deportato in Siberia, ebbe la fortuna e il coraggio di fuggire. Ma dove rifugiarsi? La Francia era la seconda patria dei patrioti polacchi.
E, a maggior ragione, per lui. Era figlio del colonnello di cavalleria François Strowski de Lenka, che s’era arruolato nella Legione polacca, costituita in Francia nel 1797. Siamo nell’anno di Rivoli… Il volontario si precipitò in Italia e, fino al 1814, i suoi stati di servizio furono quelli della Francia militare: era stato decorato dall’Imperatore.
E il figlio alla deriva poteva mai esitare?
D’altro canto, subito dopo la grande insurrezione nazionale del ’30, era proprio alla Francia che la maggior parte dei liberali polacchi aveva chiesto asilo. Rappresentavano anche a Parigi (e non lontano da Parigi, a Montmorency), una colonia fervida: non erano esiliati – affermava il loro poeta Adam Mickiewicz [1798-1855] – ma «pellegrini» di continuo in cammino, grazie alla speranza di una patria finalmente restaurata, dell’ideale suo splendore. Il suo Livre des pélerins polonais [1832], animosamente introdotto e tradotto da Montalembert [1810-1870], era diventato una delle raccolte più popolari del giovane romanticismo liberale. I «pellegrini» non esitavano, tuttavia, a integrarsi nell’ordine francese. Mickiewicz era collega di Michelet al Collège de France.
Ispirandosi a tale alto esempio, il redivivo della Siberia pretese le giuste lettere di naturalizzazione e, durante il Secondo Impero, allorquando il ministro Victor Duruy [1811-1894] introduceva l’insegnamento delle lingue vive, ottenne una “licence” alla Sorbona. In questi duri anni di studio, aveva sposato – scelto romanzescamente da lei – la figlia del rettore di un collegio, nata in Bretagna e trapiantata nel Meridione. Si chiamava Julie Laurance – dolci nomi lamartiniani. E Lamartine fu caro a suo figlio.
Così, nel 1866 si concludeva, nell’antica Carcassonne, un percorso che, vent’anni prima, era partito dalla nobile Cracovia.
Dal liceo della città natale, l’adolescente seguì il padre al liceo di Mont-de-Marsan, sempre manifestando una vocazione letteraria che sembrava predestinarlo. Una volta baccelliere, lo si fece dunque “ascendere” a Parigi, nel liceo Louis-le-Grand, affinché vi preparasse il concorso per la Scuola Normale.
E vi entrò subito, a diciannove anni, nello stesso gruppo di Pierre André Lalande [1867-1963].Entrambi erano un anno avanti rispetto a Romain Rolland [1866-1944]. Il nostro insigne collega ha mantenuto vivo il ricordo della nobiltà di spirito e di modi che già distingueva Fortunat Strowski, donde nacque una lunga amicizia. Sei anni più tardi, Stéphane [1870-1954], fratello minore di Fortunat, diventava a sua volta normalista, e il nostro collega, Maurice Pradines [1874-1958], suo compagno ed amico, testimonia commosso le rare qualità di questo filosofo che, fedele al retaggio materno, rifiutò ostinato di lasciare il collegio della piccola città bretone in cui aveva frequentato la prima classe, alla fine del secolo; si è spento fra i Bretoni lo scorso luglio, proprio due anni dopo la morte del suo insigne fratello maggiore.
La Scuola Normale, trasferita nel 1847 nei nuovi edifici della rue d’Ulm, dopo quarant’anni non era quasi cambiata. Negli anni Ottanta – sotto la direzione austera e un po’ altera del grande storico Fustel de Coulanges [1830-1889], poi sotto l’autorità paterna, un po’ lontana dello storico dell’arte Georges Perrot [1832-1914] –, conservava l’aspetto di un monastero laico o, come diceva un umorista, di un “convento buddista” universitario. Tanto ai grandi quanto ai piccoli “lama”, agli allievi del primo o del terzo anno la lettera del regolamento consentiva solo rare uscite, oltre la domenica. Per superare questi limiti senza guai bisognava arrabattarsi con dei pretesti. Pertanto i corridoi della Scuola non erano davvero attraversati e percorsi, come oggi, dalle poderose correnti d’idee provenienti da Parigi e dal mondo: è soprattutto attraverso i suoi maîtres de conférences ch’essa poté respirare – almeno ufficialmente – lo spirito del tempo.
Ora, nel 1886, si stabiliva presso rue d’Ulm un maestro ardente, ancor giovane, che aveva insegnato solo con la penna, un critico letterario già celebre, Ferdinand Brunetière [1849-1906]. In quegli anni, in cui il dilettantismo dello spirito e della sensibilità fiorivano nelle pagine variamente sorridenti di Anatole France [1844-1924] e di Jules Lemaître [1853-1914], egli si presentava come il discepolo e il successore di Hippolyte Taine [1828-1893], di cui rafforzava il determinismo attraverso una trasposizione delle teorie evoluzionistiche di Herbert Spencer [1820-1903]; pretendeva, inoltre, di reintegrare nella critica i principi dell’estetica e della morale: in loro nome, valutava il presente e il passato, inesorabilmente. Era tutto logica, ma anche tutto passione e rigore; era un uomo peraltro sincero, che non temeva le apparenti contraddizioni. Questo spregiatore accanito di Baudelaire fu, così, uno dei pochi critici ufficiali a parlare con simpatia dei poeti simbolisti.
Il suo volto tormentato, la sua eloquenza amara, i suoi periodi classici, scanditi e svolti con un ritmo che richiamava Bossuet, il suo idolo, le cascate di qui, di que, di que si, con i quali la sua voce sembrava scherzare, perfino i suoi pregiudizi e i suoi entusiasmi esercitarono sulla Scuola, fin dai primi corsi, un fascino imprevisto; si discusse la sua eloquenza, lo si imitò; e si imitò pure, pare, l’eleganza un po’ ricercata dei suoi gilè variopinti e delle sue cravatte mordoré.
Mai si mise in discussione, però, perché lo si avvertì subito, l’interesse affettuoso che manifestava verso tutti i suoi allievi. Alla Scuola, un buon maître de conférences, ancor oggi, deve essere accompagnato da un “direttore spirituale” letterario. Brunetière eccelleva in questo ruolo: nelle conversazioni che seguivano i suoi corsi, lungi dal cercare di imporre le proprie idee, comprendeva quelle dei suoi interlocutori. Sapeva risvegliare e orientare le anime: traeva da ciascuna la scintilla o la fiamma «Gli devo tutto», scriveva Fortunat Strowski dieci anni dopo, all’inizio della sua tesi. E, nel 1907, appena morto Brunetière, esclamava: «Ah! Che magnifico maestro! Studente scoraggiato e incerto per l’avvenire, senza un orientamento decisivo, non avrei mai avuto il coraggio di far qualcosa. Due parole orientano, alle volte, tutta la vita…». Confessione diretta e preziosa. Agrégé en lettres, Fortunat Strowski concluse la Scuola Normale nel 1888; d’altro canto, non poté mai uscire dal cerchio magico tracciato intorno a lui da Ferdinand Brunetière.
La sua carriera fu rapida. Dal liceo di Albi, ove strinse amicizia col collega di filosofia, Jean Jaurès [1859-1914], passò ai due licei di Montauban e di Nîmes; poi, per un caso che lo stupì, nel contesto parigino, al liceo Lakanal. Fu sempre convinto di dovere questa insperata ascesa all’onesta inquietudine di un uomo politico del Gard, che vedeva in lui, probabilmente ingannandosi, un possibile rivale per le successive elezioni legislative. Al fine di eliminarlo, Gaston Doumergue [1863-1937] – seguendo l’antico motto promoveatur ut amoveatur – aveva trovato un’elegante soluzione per promuoverlo.
L’inconsapevole ambizioso sorrideva, anni dopo, raccontando la questione, fiero di aver oscurato, con talenti politici insospettati, un futuro presidente della Repubblica.
A Nîmes egli dovette ben più di questa fierezza: l’idea ultima della grande opera che – credeva – avrebbe occupato gli anni migliori della sua giovinezza. Nella città e in tutta la regione, i protestanti sono numerosi e ferventi: accolto dai loro rappresentanti più autorevoli, dialogò, discusse amabilmente, studiò sul posto, su documenti e coscienze viventi quel che era stata la Riforma in Francia. Ma la Riforma, col suo ardore e la sua forza d’espansione, non solo nelle regioni meridionali, ma in tutto il Paese, aveva provocato una Controriforma.
Come si era imposta quella reazione delle idee cattoliche sin dalla fine del XVI secolo? Come si era confermata fra l’editto di Nantes e la sua revoca? Come si era, più o meno, conservata dagli esordi di Enrico IV alla fine di Luigi XIV? O, più precisamente, da François de Sales a Fénelon, dal vescovo di Ginevra all’arcivescovo di Cambrai?
In questa vicenda, occorreva considerare non tanto i politici e i sovrani quanto i direttori spirituali, le guide della vita interiore: in poche parole, i formatori dell’uomo, dei diversi tipi umani incontrati od ostili in quel periodo così ricco di sostanza e di linfa spirituale. Vi si può infatti distinguere il libertino e l’ honnête homme, duplice varietà del mondano, l’uomo di corte e l’uomo di città, il cristiano di cuore semplice e il cristiano con ragione ragionante; in sintesi, l’uomo secondo la grazia e l’uomo secondo il mondo.
Ora – ed è merito del giovane professore averlo capito subito – tutti quegli uomini, con tutta la varietà delle loro sfumature, si incontrano, insieme o di volta in volta, in Blaise Pascal: «Egli ha – scrive – amalgamato e combinato, col dono della sintesi e incomparabile vitalità, quanto gli veniva dai quattro angoli del cielo».
Pascal, una sorta di magico riflettore, s’innalzerà al centro di questa storia, così come si è innalzato al centro del XVII secolo. Tre testimoni, dunque, del sentimento religioso: con François de Sales si forma e si afferma; con Pascal si forma di nuovo e si concentra; si deforma o si espande con Fénelon. Tale progetto abbracciava, in potenza, non solo gli studi di Henri Brémond [1865-1933], ma la grande opera, anch’essa incompiuta, di Paul Hazard [1878-1944], la cui Crise de la conscience européenne [1935] costituisce solo la prima parte – come peraltro egli stesso mi aveva segnalato – e che, una volta terminata, sarebbe probabilmente apparsa quale legittima prosecuzione del progetto originario di Fortunat Strowski.
Tutto sommato, un disegno tanto vasto – e tanto diverso dalle tesi allora à la page – sembra avere, all’inizio, preoccupato non poco il nostro autore. Fu allora, non per caso, che sollecitò il parere decisivo di Brunetière. Perciò, coraggiosamente, mise a punto il suo Saint François de Sales. Introduction à l’étude du sentiment religieux en France au XVIIe siècle, ove il sottotitolo aveva il valore di un impegno.
Rinnovando l’immagine scialba e facile del santo dottore allora prevalente, Strowski dimostrava che, nel magistero del grande savoiardo, l’amore della vita che vi è raccomandato non corrisponde affatto a rilassamento o a debolezza, ma che anzi è ricerca di forza – e metodo di rafforzamento. Il Santo non intende affatto condurre a Dio un modello di uomo troppo astratto, sminuito, scevro di tutti i propri istinti: fra questi spicca, infatti, l’amore. Invero, illustra l’esegeta, tutto è necessario all’unica cosa realmente necessaria: tutto è necessario per amare. Una lezione di cui «l’essenza morale di una generazione ha subito l’impronta». Il libro si chiudeva con questa dimostrazione.
Nel 1898, Fortunat Strowski lo presentava come tesi di lettere alla Sorbona: appena ottenuto il dottorato, veniva nominato professore alla Facoltà di Bordeaux.
L’Università di Bordeaux estendeva allora un invidiato influsso su tutta la regione del Sud-Ovest, cara a coloro che vi arrivano. Vi trovò colleghi di qualità, presto divenuti amici fedeli, come il filosofo e matematico Pierre Duhem [1861-1916], o il filologo Henri Barckhausen [1834-1914], il celebre editore e biografo di Montesquieu. Vi trovò altresì studenti di alto livello, come i poeti André Lafon [1883-1915] e Jean de la Ville de Mirmont [1886-1914], entrambi – purtroppo – vittime tragiche della prima guerra mondiale.
Studente parimenti d’eccellenza era altresì François Mauriac [1885-1970), in quegli anni ancora ingarbugliato nelle pieghe della «toga pretesta», «adolescente carico di catene» che accarezzava, peraltro, con tedio voluttuoso, e anch’egli poeta in certi primi versi un po’ esitanti e incantevoli come, del resto, i primi suoi turbamenti: era già poeta dell’umana inquietudine, sordamente ossessionato dai conflitti della natura e della grazia, di cui sarebbe poi divenuto pittore indiscutibile e cupo. E forse, senza che i due vi badassero troppo, forse il maestro che allora, anche davanti a lui, si concentrava sulla giovinezza di Pascal, l’aiutò a presentire più nitidamente, nelle ore inquiete della sua giovinezza, quelle che Chateaubriand avrebbe chiamato le sue «straordinarie proiezioni nel futuro».
A Bordeaux, infine, Fortunat Strowski incontrò un illustre personaggio, antico sindaco della città, Michel Eyquem, signore di Montaigne. Un incontro capitale.
Non che non avesse, da tempo, dialogato con l’autore degli Essais, ma, come d’altronde tutti i suoi contemporanei, ne conosceva soltanto un’immagine non fedele. Nell’edizione completa e postuma in cui l’aveva letto, aveva riscontrato del «disordine», della «pedanteria», un «mucchio di storie strampalate», ed anche «contraddizioni continue». Diffidava. Sapendo che quell’edizione si basava su un prezioso esemplare conservato a Bordeaux, corse alla Biblioteca Municipale. Là avvenne l’incontro fra Montaigne e l’uomo avveduto che, liberatolo da travestimenti e maschere, per primo riuscì a dipingerlo nella sua semplice e duttile verità. «Questo è un ritratto degno di fiducia, lettore».
Che cos’era, di fatto, l’esemplare di Bordeaux? Una «serie» completa di «buone copie» dell’edizione del 1588, l’ultima pubblicata dall’autore; sui margini, per quattro anni, Montaigne aveva registrato «riflessioni, correzioni e note di letture» raccordandole al testo stampato con «molteplici e ingegnosi segni di richiamo». Ma i suoi eredi letterari confusero tutto e, nel 1595, pubblicarono degli Essais a modo loro. Fortunat Strowski scoprì dunque che quegli Essais «non erano un libro, ma almeno tre libri mescolati e ingarbugliati gli uni negli altri»; tre libri che riflettevano tre personaggi più o meno successivi, uno scettico provvisorio ben presto rimosso da uno stoico, poi, verso la fine, un epicureo che, «malato e melanconico, si diletta in pensieri giovani e folli». Gli Essais, srotolati filo per filo ed estratti dal fuso in cui Marie de Gournay [1565-1645] li aveva attorcigliati, contiene la storia intellettuale del loro autore, durante venticinque anni decisivi. Portata alla luce tale storia, il giovane studioso si affrettò a rivelarla nel suo Montaigne del 1906.
Essa, nel contempo, gli permetteva di aprire, per la sua grande opera, nuove prospettive sul ruolo di Pascal. Le Pensées non erano rivolte soltanto ai libertini. Pascal trovava i più pericolosi e insidiosi nemici della religione alla sua ala destra, nei battaglioni, apparentemente sottomessi alla Chiesa, dei «neo-stoici», dei «generosi» secondo il cuore di Corneille, uomini di forte ragione ed elevati sentimenti che avevano rimpiazzato la fede con il più puro orgoglio umano. Quelli avevano letto Montaigne nelle edizioni del 1580 e del 1588; la sola edizione disordinata del 1595 poteva passare per un breviario del libertinaggio. Con queste precisazioni veniva mutato il punto di vista di un mezzo secolo, e l’apologia preparata da Pascal acquisiva tutto il suo significato.
Tra il 1907 e il 1908, Fortunat Strowski pubblicava i tre volumi intitolati Pascal et son temps, che l’Académie Française coronò subitamente col gran premio Gobert. Nei medesimi anni, e come un’immensa pezza giustificativa, avendo suscitato nella città dove insegnava la fierezza di essere il reliquiario di un simile tesoro, cominciava a edificare un monumento della critica: «Les Essais di Michel de Montaigne, pubblicati sull’Esemplare di Bordeaux; edizione della città di Bordeaux». Due volumi in-quarto apparivano uno dopo l’altro. L’opera sarebbe stata composta da quattro.
Erano esattamente dieci anni che il giovane professore occupava la sua cattedra. E, in quei dieci anni, quanto aveva lavorato! Restavano da concludere le due grandi imprese già realizzate più che a metà: l’edizione di Montaigne e la storia del sentimento religioso. Per Fortunat Strowski si preannunciava una maturità studiosa sulle placide rive della Gironda… Ma, nel 1910, fu chiamato alla Sorbona.
Vi entrava tuttavia da una porta secondaria, in qualità di supplente di émile Faguet [1847-1916]. Solo nel 1930 diventava titolare di una cattedra magistrale, ad insegnare «storia della letteratura francese contemporanea», e non, come ci si sarebbe aspettato, quella del sentimento religioso. Che cos’era dunque accaduto nella sua carriera e nella sua vita, durante quei vent’anni in cui la sua duplice fama universitaria e letteraria aveva raggiunto una sorta di apogeo?
Niente, a dire il vero, se non che aveva scoperto non solo la Sorbona, ma anche Parigi e il mondo, e che, fra gli oggetti diversi di tali scoperte, aveva dovuto compiere un evidente sforzo onde tentare di dividersi equamente. Egli stesso, forse, non avrebbe osato dire di esserci riuscito del tutto.
Come resistette, all’inizio, alle prime seduzioni della capitale che una sorte propizia gli offriva? Si era guadagnato, senza cercarla, la fervida simpatia di uno scrittore di origine polacca, Téodor de Wyzewa [1862-1917], traduttore di Tolstoj, sempre pronto a farsi impresario d’idee nuove, a lanciarle sui diversi teatri delle mode intellettuali. Quell’uomo gentile era allora un legame vivente fra lo spirito slavo e Parigi. Fu lui a introdurre Fortunat Strowski nei salotti dove aveva libero accesso, in quelli, fra gli altri, particolarmente rinomati, di Maurice Barrès [1862-1923] e della contessa Anna-élisabeth de Noailles [1876-1933].
Ammiratore dei due poeti, l’ospite, già conquistato, non fece fatica a conquistare. Alto, biondo, gli occhi azzurro chiaro, di volta in volta carezzevoli o insistenti, il viso roseo incorniciato da una barba sottile, la voce dolce e modulata, era intorno alla cinquantina e nel pieno del suo fascino. Quante volte, nelle ore inquiete della guerra, verso il tardo pomeriggio, i suoi lo videro improvvisamente posare il libro o la penna: «Vado dalla Contessa», diceva, oppure: «Vado a Neuilly». Qui o là, andava a curarsi il morale, a ricaricare i suoi entusiasmi o, secondo una vecchia espressione, a farsi tornare le idee.
Altri ambienti, allora pressoché assopiti, quali sale di redazioni o sale da spettacoli, lo videro passare come osservatore curioso. Sentiva in sé agitarsi diverse possibilità. Come tutta la Parigi letteraria, aspettava. D’altronde, gli bastava scoprire la Sorbona e stabilirvi la sua personalità? Che differenza, per lui, rispetto all’atmosfera di fiducia e familiarità che aveva assaporato a Bordeaux!
Effettivamente, in quegli anni, sulla Sorbona regnava – così dicevano – il duplice imperialismo della scheda e del documento d’archivio, un regime a cui l’opinione corrente legava soprattutto il nome di un incontestabile e incontestato maestro: Gustave Lanson [1857-1934].
Quell’ometto dalla barba aguzza – attributo, credevano i Greci, degli spiriti raffinati e dei saggi, che chiamavano «Sfenopògoni», ossia, letteralmente, «dalla barba aguzza» –, quel ricercatore infaticabile di «genesi» e di «fonti», dallo sguardo penetrante e nero che occhiali e occhialetti affilavano ulteriormente, dalla parola lenta e morbida, che si animava di rado ma che, talora, per troncar bruscamente illusioni, diventava tagliente come una lama, quell’innovatore ardito ha veduto, come del resto molti innovatori, le sue migliori idee deformate da discepoli intransigenti e da ammiratori intemperanti. Ho beneficiato del suo magistero, senza peraltro aver mai goduto della sua confidenza, e ne conservo fedelmente la memoria con gratitudine.
Amante del rigore e innamorato della precisione, pretendeva tali qualità nella storia letteraria, così come nella storia tout court. E ne discendevano taluni corollari. S’era accorto, fra i primi, che i testi dei nostri più valenti scrittori dal Cinquecento sino ad oggi, per le negligenze tanto degli autori quanto degli stampatori, ci sono giunti troppo spesso pieni, quasi stracolmi di errori. Era importante, dunque, offrire al pubblico degli “aristocratici dello spirito”, degli studenti e dei professori, un complesso di testi insieme puri e sicuri e, in tal modo, applicare agli autori francesi gli stessi metodi che, sempre in crescita dal Rinascimento, avevano permesso ai filologi di emendare e ricostruire con qualche rigore le opere trasmesse, fra tante venture, dall’antichità greca e latina.
A questa «filologia francese» che Gustave Lanson caldeggiava, quanto il gioco doveva apparire facile e bello! Sainte-Beuve aveva scritto con grazia: «Un gran fiume , peraltro di solito non guadabile, ci separa dai grandi dell’Antichità. Salutiamoli, allora, da una riva all’altra. Con i moderni cambia tutto…». In effetti, via via che le date delle opere si avvicinano a noi, parecchi manoscritti originali, e persino degli scartafacci o degli abbozzi, diventano accessibili. «Cartacce immortali!» esclamava un giorno Chateaubriand, dopo avere indagato, in un museo, degli sbozzi di Raffaello… Non abbiamo le varianti di Sofocle o di Virgilio; dovremmo, per lo meno, approfittare della fortuna che abbiamo avuto con i nostri autori. Il culto dei manoscritti autografi e delle edizioni originali s’iscrive, dunque, come un articolo di fede nel dogma lansoniano. E ancor oggi, chi mai oserebbe opporsi?
Ma, una volta ricostruiti a dovere i testi, bisognava, in un’edizione critica ideale, annotarli, commentarli e perfino interpretarli. Intervento altrettanto capitale, e mille volte più delicato. Commentare un testo corrispondeva essenzialmente, trenta o quarant’anni fa, a ripristinarne le origini, ricostruirne la genesi, ritrovare ciò che si suole chiamare le “fonti”. Tutto questo – si asseriva – era conforme alla dottrina di Sainte-Beuve. Ma in Sainte-Beuve si trova tutto e il contrario di tutto… Commentare un testo era anche – e sempre per Sainte-Beuve – ricollegarlo all’autore, spiegare il senso autentico dell’opera con la biografia dell’uomo, da cui una sorta di necessità profonda l’aveva fatto «uscire».
Ora, in quest’ambito era inevitabile intervenissero degli errori. Magari il Cielo avesse voluto che le dottrine di Lanson fossero state applicate solo da Lanson stesso, o dai suoi discepoli più autorevoli, ingegni innovatori anche loro, che, su parecchie questioni, le avrebbero distese o allargate: un Daniel Mornet [1878-1954], un Georges Ascoli [1882-1944] o ancora, ai tempi nostri, un Jean Pommier [1893-1973]! O culto appassionato del metodo, quanti errori furono troppo spesso compiuti in tuo nome! Contro tutto quel che somigliava alla spiegazione necessariamente intuitiva dei sommi arcani della poesia e dell’arte, pareva che una sorta di fanatismo avesse stabilito, senza peraltro osare promulgarla, una legge del sospetto.
Una legge del genere, certo, non poteva minacciare Fortunat Strowski. Ai fautori del metodo cosiddetto scientifico, egli aveva dato ben più che garanzie: modelli. Nessuno lo negava, anche se… E i credenti di stretta osservanza formulavano in segreto più di una riserva su certe inclinazioni di questo ex-allievo (e discepolo) di Brunetière; ma poi, trapiantato a Parigi, nella più pura luce della Sorbona, si sarebbe disciplinato senza troppi sforzi. D’altronde, si sarebbe visto a dovere!
Quanto si vide fu – senza tante dichiarazioni di princìpi e senza scalpore alcuno – l’applicazione di un metodo fondato sulla elasticità e sulla semplicità, il quale, ben lungi dall’attaccare le giuste esigenze della critica puramente scientifica, le utilizzava per una ricerca della vita e dell’arte.
Le conferenze di Fortunat Strowski sembravano, di primo acchito, una serie di liberi pensieri, nei quali il professore aveva preso per modello la disinvoltura di un capitolo degli Essais. Più ancora che nel corso pubblico o nella lezione “magistrale”, trionfava nella «spiegazione francese», un esercizio cruciale del nostro insegnamento superiore ove, giovandosi di un grande autore, il professore instaura più agevolmente un contatto efficace fra sé e il proprio uditorio.
Ma seguiamolo, un mattino, nel suo anfiteatro. Giunto alla cattedra con un’indifferenza dissimulata e provvisoria, solleva tra le proprie mani d’officiante il testo prescelto e, per una specie di consacrazione preliminare, lo descrive in poche parole. Ne analizza la struttura, la composizione, il ritmo o il movimento, e lo stile. Quindi, a lungo e senza alcuna fretta, ne coglieva il senso, ansioso di legare le idee alla vita, d’illuminare le allusioni attraverso la storia, attento soprattutto a penetrare nelle pieghe e nei recessi dei sentimenti. Ogni pagina ha un’anima, emanazione e riflesso dell’anima che muove tutta quanta l’opera. Ed è quest’anima che bisogna carpire. L’interpretazione di una scena di Racine portava così a una lezione sintetica sul poeta. Ricerche minute e confronti venivano dopo. Li faceva senza perder tempo, considerando solo gli elementi sicuri e quelli essenziali. «Fastidiosa erudizione che schiaccia i testi» sospirava talora, e addirittura, più volte, lo scrisse. Fantasia perniciosa, che oltrepassa i limiti dei testi fino ad alterarli.
All’inizio del suo Pascal, giustificando il proprio metodo, aveva rimproverato agli storici di scambiare troppo spesso le circostanze per le cause. Le circostanze, naturalmente, bisogna sbrogliarle prima di tutto il resto, ma per «cercare oltre»: «invero», affermava con una sorta di solennità, «nel cuore sta la fonte della vita: qui risiede la spiegazione ultima della storia. Le cose che facciamo si elaborano nel fondo dell’anima…». Trasportare tale dichiarazione nel dominio della letteratura e dell’arte: questo fu il suo principio ispiratore.
In che modo, tuttavia, afferrare le anime attraverso le opere? E in che modo definire e fissare tali entità viventi, sfuggenti? Fortunat Strowski, in quest’ambito, non ha enunciato regole. Ma chi lo conobbe davvero, chi l’ascoltò, chi ancora lo legge, ricostruisce senza fatica i suoi procedimenti. Il più importante, forse, è un invito discreto, mediante la sensibilità, all’intuizione psicologica. Sorvegliata, beninteso, dalla ragione e guidata da ricerche preliminari, essa consente, passando per le incertezze dei testi e l’aridità degli archivi, di ricostruire lo sviluppo dei sentimenti, il nesso delle idee, nonché di restituire il tracciato fremente delle vite interiori.
«Pericoloso ricorso alla congettura», hanno affermato gli avversari.
«Attenzione Signori – sembra rispondere Sainte-Beuve, scrivendo in merito a una discussione analoga –; attenzione: questo è Montaigne». In effetti, se «ogni uomo porta in sé la forma della condizione umana», non deve forse essere, o diventare, attraverso la cultura, capace di riconoscerla pure negli spiriti più alti? Fortunat Strowski, così, per ricostruire la conversione di Pascal, l’ha rischiarata abilmente attraverso la conversione di Durtal2, sotto il cui volto Huysmans si era ritratto con sincerità.
Chi non vede, d’altronde, che conferire un ruolo del genere all’intuizione psicologica richiede l’ausilio di un gusto esigente e sempre all’erta? Tale ricorso necessario a una facoltà da troppo tempo proscritta è delicato, certo, e arduo da orchestrare. Prova ne siano le innumerevoli definizioni di gusto. Ma pare che, per lui, l’autentico gusto si manifestasse, come una consonanza d’anime, mediante un’armonia, presentita o suscitata fra il lettore e l’autore. «Bisogna avere anima per aver gusto», dichiarava volentieri con Vauvenargues.
L’opposizione fra il suo metodo e quello che pretendeva valersi esclusivamente della scienza portava, press’a poco, all’antitesi sottolineata da Pascal tra due formae mentis: l’“esprit de finesse” e quello “de géometrie”. Ma l’esempio dello stesso Pascal non ha forse dimostrato che tali due forme sono conciliabili?
Se qualche scontro vi fu tra i sostenitori fasulli dell’uno o dell’altro maestro, mai ve ne furono – a dispetto della leggenda – fra Lanson e Strowski. Si stimavano profondamente. Gli uomini superiori si raggiungono con i loro vertici.
Dimostrate così, per quasi dieci anni, le sue potenzialità e i suoi doni, Strowski desiderava ardentemente esercitarle su nuovi teatri. Sulle ali a malapena spiegate della Vittoria, sembrava bramoso di conquistare il mondo. Per la raccolta delle «Notices» della nostra Accademia, egli ha redatto questo laconico bilancio dei suoi “itinerari”: «Incaricato di missioni internazionali: 1919, in Italia; 1920, in Polonia; 1921, in Canada».
Come seguire questa mobile levità?
Nel 1923, infine, s’imbarcò per New York, ove la celebre Columbia University l’invitava ad occupare per un anno, come visiting professor, una delle sue cattedre magistrali per insegnare la nostra letteratura più o meno a suo modo.
Da tale missione ritornò, secondo la testimonianza dei suoi, davvero trasformato, rinnovato, inebriato e quasi elettrizzato dal contatto diretto col paese che, allora, era noto come «la patria della vita intensa».. Non che l’avesse, intendiamoci, ammirato con fanatismo; e lo mostrò presto in un delizioso librino, La Bruyère en Amérique3, nel quale, trasferendo lo schema degli illustri Caractères capitolo per capitolo, con ingegno malizioso, affilava punte, punticine e contropunte: insomma, una panoplia di epigrammi a doppio taglio, ora graffiando Chicago o New York, ora lanciando frecciate a Parigi. La seguente annotazione ne riassume discretamente il senso e il tono: «Ogni saggia condotta gira su due cardini: il passato e l’avvenire. L’americano non ha passato. Il francese non conta sull’avvenire. Sono nati per capirsi».
Nella nostra Parigi, così ricca di tradizioni, Fortunat Strowski si mise dunque a ricercare gli elementi ancora malnoti, i moti ancor vaghi che sembravano preparare l’avvenire. Il teatro, da gran tempo, gli sembrava rappresentare, ben più del libro, un’arte completa, d’espansione immediata e indefinita. Gli piaceva, a tal proposito, citare Montaigne: «Si vede chiaro chiaro, nei teatri, che l’ispirazione sacra delle Muse, dopo aver mosso prima il poeta alla collera, al dolore o all’odio, colpisce ancora, attraverso il poeta, l’attore, e attraverso l’attore, di conseguenza, un popolo intero».
Il nostro professore accettò dunque di prendere alla Sorbona – come allora si diceva in bello stile – uno scettro di critica drammatica, ch’era stato opportunamente teso alla sua mano. Non si trattava davvero per lui, tuttavia, di celebrare ogni settimana, in maniera più o meno pomposa, l’ufficio teatrale sull’altar maggiore di un gran giornale di rinomanza europea, Les Débats o Le Temps, bensì di seguire il divenire delle scene parigine su un organo «d’informazione», periodico di buona compagnia, certamente, ma di fama recente e, come avrebbe detto Villon, «di scarso rilievo»: il Paris-Midi del periodo fra le due guerre. Non credeva di degradarsi e lo ha narrato, anni dopo, in una pagina poco nota: «Non era il più parigino dei giornali, ma quello più adatto ai parigini. I parigini lo leggevano dappertutto…». Era giornale, insomma, della curiosità parigina, spesso parente prossima della frivolezza. I suoi lettori chiedevano che si parlasse di «attualità» e d’«imprevisto». Tali aspetti interessanti si potevano scoprire solo fuori dai «grandi teatri consacrati – prosegue – nei cenacoli e nelle compagnie di dilettanti». Doveva dunque rivolgersi ai più singolari crogioli, ove si andava forse elaborando un metallo che, un giorno, sarebbe stato prezioso.
Fortunat Strowski, pertanto, era assiduo frequentatore di tutte le serate e rappresentazioni «d’avaguardia». Vi partecipava, dichiarava, «da spettatore attento e rispettoso», interessato agli sforzi degli «arditi innovatori». Frequentatore abituale del Vieux Colombier, ammiratore di Jacques Copeau [1879-1949], egli si mosse allo stesso modo con i grandi attori e coi migliori registi: allora li chiamavano i Quattro: Baty [1885-1952], Jouvet [1887-1951], Dullin [1885-1949], Pitoëff [1884-1939]… Presentiva che i personaggi beffati e discussi d’oggi sarebbero stati i più imitati, i classici di domani. E affermava in vecchiaia: «Lo sono diventati: S’impongono persino alla Comédie française. Insegnano al Conservatorio». E aggiungeva: «Allora non mi ero ingannato».
Ma perché si sentì obbligato a dare la stessa attenzione ai vaudeville effimeri, alle cosiddette pièces de boulevard? Eccesso di scrupolo – senza alcun dubbio. D’altro canto, in un’arte così mobile, si può mai sapere attraverso quale organo oscuro può esprimersi d’improvviso l’oracolo del dio sconosciuto? Inoltre, egli era «di facile contentatura». Adorava il teatro. La sua giovinezza provinciale ne era stata privata: si prendeva una rivincita! Non risparmiava dunque né tempo né fatiche, assoggettandosi alle servitù materiali di una funzione che rimane, peraltro, un mestiere piuttosto duro.
In uno di quegli anni, nel 1926, fu eletto membro della nostra rispettabile Compagnia. Occorre forse dire, in questa sede, che mai cessò d’essere un «buon accademico»? Tale espressione squisita e un po’ desueta, che tutto riassume, l’ho presa a prestito, in tutta semplicità, dagli elogi accademici di Corneille e di La Fontaine.
Più o meno in quest’epoca lo incontrai per la prima volta; prima avevo potuto solo intravederlo, sempre affabile, sempre di fretta. Il nostro incontro non ebbe per scenario un luogo superbo dello spirito, ma il piccolo appartamento stracolmo di giornali e di libri per il quale, sulla rive droite, aveva dovuto abbandonare la cara rue Jacob. Mi aveva invitato ufficialmente per un tardo pomeriggio, ora che si presupporrebbe relativamente tranquilla.
Ebbene, quella sera lo trovai nel fuoco imprevisto dell’azione. Tornava, con l’abito di rito, da una seduta accademica solenne: si trattava, forse, della vostra seduta annuale, Signori, perché eravamo alla fine d’autunno. Aprendo la porta, cozzò contro una sorta di gnomo verde, giunto prima di me: era l’inviato di un giornale che veniva a prendere un articolo urgente – ovviamente in ritardo. Entrando nel suo salotto, accennò dinanzi ai miei occhi quasi un gesto di disperazione e mi pregò cortesemente di aspettare – come si suol dire – cinque minuti, rannicchiato, come Alceste, nel mio angolino nero.
In una stanza attigua, ticchettava una macchina da scrivere; si fermò un istante; attraverso la porta socchiusa, una mano femminile allungò la posta del pomeriggio. Una larga busta beige serviva alle altre da vassoio. La riconobbi subito: conteneva, col timbro della Sorbona, un pacco di compiti – da correggere urgentemente, purtroppo… – sui quali, la notte, diversi candidati al diploma universitario avevano penato. Come riprendersi sotto una tale valanga? Fortunat Strowski non batté proprio ciglio. Prendendo le buste: «Per questa sera», disse, sistemandole sotto un pressacarte, nell’angolo di un tavolo. Rapido e senza aiuti, si toglie l’abito accademico, lo pone presso la spada, su una poltrona, indossa una giacca da casa, prende da una tasca dei fogli manoscritti: «Allora – chiede alla segretaria frattanto accorsa – a che punto eravamo stamane?» Gli bastò un quarto d’ora per finir di dettare, cancellare e spedire la recensione in giacenza.
Al che mi fece segno. E, per una lunga mezzora, s’intrattenne con me su un lavoro destinato a una delle due collane di classici che dirigeva, parallelamente, del resto, dal 1912, alla Revue des Cours et Conférences: di volta in volta persuasivo, fantasioso, ardente, seduttivo con naturalezza.
Ma quella sera un sospiro gli sfuggì: «Vede com’è la mia vita. Bah…è la vita!».
Il colpo d’occhio che, accompagnandomi alla porta, lanciò al corriere addormentato, mi fece pensare che i compiti avrebbero atteso fino a domani. Non compiansi i loro autori: ci avrebbero guadagnato il rinforzo di una benevolenza già leggendaria.
Fortunat Strowski condusse una vita così intensa, per parecchi anni, senza alcun cedimento. La sua bibliografia, da lui stesa per i vostri archivi, attesta che, dal 1920 al 1931, pubblicò otto opere, o edizioni di testi, quasi tutte rilevanti. Moltiplicando in tal modo i doveri, gli scritti e gli incarichi – una vicepresidenza, per esempio, presso la Société des Gens de Lettres – poteva mai consacrare a ciascuno di essi il tempo e la cura che avrebbero presumibilmente ottenuto da un altro? Come spiegare questa specie di dismisura nel lavoro di un saggio? Ma si stimava allora un saggio? E, in fondo, che cos’è mai un saggio?
Fu nel 1931, al ritorno da un altro anno d’insegnamento in America, ancora martoriata dalle conseguenze dell’improvvisa catastrofe finanziaria, ch’egli si pose – sembra – il problema. Avvertiva una certa stanchezza? Un personaggio nuovo si andava via via abbozzando in lui: un moraliste, che si volgeva alla tradizione per chiederle di calmare le inquietudini dell’«uomo moderno» e di guidarlo. Prevedeva, dopo «una vasta indagine sull’uomo», l’avvento di un «umanesimo universale», erede di tutti gli altri, che «circonderà la vita d’oggi e la condurrà come una luce alla vera via dell’universale affrancamento».
Parlava al futuro – ma per quale avvenire? – con una sicurezza da profeta, confidando in tutte le saggezze del passato.
L’implacabile pensionamento universitario lo colpì nella primavera del 1937: aveva solo settantun anni; il destino, però, gli preparava una rivincita. Poco prima della guerra minacciosa, ebbe un incarico di “ambasciatore intellettuale” in Brasile, paese che gli avrebbe conferito il titolo di professore nella propria «Facoltà nazionale di Filosofia»: si trattava, peraltro, d’insegnare letteratura e, per giunta, la nostra… Diplomatico nato, Fortunat Strowski, per ben sei anni, fece amare una Francia in preda alle sventure; la fece ammirare nelle sue speranze, applaudire e venerare nella loro realizzazione. Per dipingerlo in tal ruolo, basterà un tratto.
Il 28 agosto 1940 – meditiamo la data, la nera sua densità – fu chiamato a pronunciare una conferenza in gran pompa, dinanzi all’élite di Rio, per inaugurare la casa, tracimante di libri e opere d’arte, lasciata dal senatore Ruy Barbosa de Oliveira [1849-1923], amico dichiarato del nostro paese. In una perorazione commovente, portando tutti i cuori col suo verso «la grande Francia, a malapena visibile da così lontano, nel suo lutto!», affermava che la sua disfatta materiale era provvisoria, un duro riscatto pagato per la sua fedeltà alla parola data, e dunque alle leggi della coscienza umana. E chiudeva così: «Voi continuerete ad onorare la Francia. E voi crederete, perché io ve lo dichiaro e perché ne sentirete in voi stessi la verità, voi crederete – dico – che un grande paese richiama siffatte sventure, e che ne uscirà più forte e più terribile…».
Queste parole di fiducia e giusto orgoglio, ch’egli ampliò in numerose conferenze pronunciate nelle grandi città, ispirarono articoli apparsi in francese sui principali giornali, e quindi raccolti in patria dall’Imprimerie Nationale in due volumi: France endormie (1941) e Les Libérateurs (1943); simili espressioni s’iscrivevano infine, come in filigrana, nel testo dei corsi e delle lezioni sui nostri classici e sul rinnovamento del teatro moderno, che riunivano intorno alla sua cattedra un uditorio fedele di studenti e di persone colte.
Ritornato a Parigi dopo la vittoria, ebbe la fortuna di sistemarsi in pieno centro, con tutte le sue carte e i suoi libri.
Non l’avevo più rivisto da tempo quando, nell’inverno del 1951, mi arrivò un prezioso librino: una semplice edizione delle Fables di La Fontaine destinata, più che agli adolescenti, ai loro padri. Sul foglio di guardia, dopo una dedica che attestava «tutta l’amicizia» dell’autore, ecco questi due versi, stesi con una grafia ferma e agile che gli anni non avevano affatto intaccato: «Un ottuagenario scriveva: / passi ancora progettare, ma scrivere a questa età…».
Riapriamo quest’ultima opera, che sembra così modesta: vi troveremo invece il valore di un testamento spirituale. L’introduzione aspira solo a segnalare, in una quarantina di pagine, tutto quanto è necessario conoscere per dialogare utilmente col favolista. Ma in realtà c’è molto di più: lo schema di tutto un libro che, a quell’età, solo Fortunat Strowski poteva scrivere, con gioia un poco ironica. Fra lui e il poeta, nessun intermediario: nessuna erudizione vana, nessuna deludente ricerca di fonti. In apertura, la sintesi di una «Vita di La Fontaine», pensata secondo quella «Vita di Esopo» che, nella prima edizione, fungeva da introduzione alle Fables. Tale biografia non sarà certamente completa e «critica»: invero, «per conoscere il carattere di un uomo, e anche per diventarne amico, è forse necessario conoscere per filo e per segno la sua vita?». Similmente, per ammirare una rosa, è forse necessario conoscerne il genere e la specie, e il suo posto e la sua denominazione latina nelle classificazioni? Ogni favola di La Fontaine è un fiore: bisogna coglierlo con cura, odorarlo a lungo, contemplare la finezza della sua struttura e del suo colore. Solo così si comprenderà, forse, la poetica del suo creatore. Al diavolo, dunque, gli esegeti patentati!E al diavolo pure – soggiunge – questa mia introduzione! Ne potrà fare a meno chi leggerà, o si farà leggere ad alta voce, la favola di cui intende «compenetrarsi». Difatti, La Fontaine ha sempre ragione. Sentite un po’ Fortunat Strowski: « Diversi commentatori non hanno forse rimproverato a La Fontaine d’avere esibito un corvo ghiotto di formaggio, laddove i corvi non mangiano formaggio? Ma, Signori filologi, il corvo di La Fontaine non è di quelli che avete ucciso in autunno: questo parla! E a un corvo parlante potrà pur piacere il formaggio!».
È un paradosso, all’apparenza. Ma questa libera arringa non è altro, di fatto, che un’apologia della poesia, sempre capace di creare una verità superiore: i suoi elementi sono presi senza sforzo dalla natura e dall’uomo. Poesia realista, in tutti i modi, da cui si ricava una morale che, indulgente con i piccoli e impietosa con i grandi, si accontenta d’insegnare a vivere senza porre troppo in alto un ideale inaccessibile: «I più concilianti sono i più abili…».
Montaigne, Pascal, La Fontaine… Tre anelli d’oro nella catena di saggezza ove si era legato saldamente l’intero destino di un pensatore e di un umanista. Al centro di tutto, una certezza essenziale e una fede, le stesse di Pascal. Per raggiungerle e mantenervisi fedele, le lezioni di Montaigne, attento, come gli stoici antichi, a trarre dalla natura umana tutto quanto essa può racchiudere di grande e generoso, ma altresì preoccupato di eliminare da questa via ascendente la finzione delle apparenze, sempre abile, come gli altri suoi maestri, gli scettici, a non farsi intimidire né dall’universo, né dagli uomini, né da se stessi: può infatti succedere che si diventi vittime del timore di esser vittime. Vauvenargues, del resto, asserisce che non bisogna temere eccessivamente di diventarlo: e come un’anima sensibile potrebbe non approvarlo?
All’altra estremità infine – e non solo per finir bene e negli anni della vecchiaia, ma sin dalla più piena maturità, proprio come accadde a La Fontaine – l’accettazione non sempre entusiasta e, talvolta, rassegnata della vita, con la sua deludente miscellanea di beni e mali, con le sue gioie effimere e i profondi suoi dolori: è in effetti lei, alla fin fine, a comandare in ogni momento; l’uomo può vincerla solo con una sorta di astuzia quotidiana, e dominarla soltanto adattandovisi.
La Fontaine, Pascal, Montaigne… Tre maestri e tre modelli, tre intercessori – e di che levatura! – presso la posterità.
Tale mi sembra essere stato, essenzialmente, questo gentiluomo dello spirito e delle lettere, il vostro collega Fortunat Strowski.
Consentitemi adesso, Signori, che con voi e con i suoi cari – le figlie e il genero, Philippe Simon, diventato, l’anno scorso, nostro socio corrispondente – io l’accompagni, qualche istante ancora, nell’estrema sua tappa terrena.
Era appena entrato, senza disagi apparenti, nell’ottantasettesimo anno allorquando un’imprevista crisi di salute, nel luglio del 1952, gli aprì in poche ore le porte eterne.
Durante una passeggiata, quand’era ancora professore a Bordeaux, aveva scoperto casualmente, in Alvernia, fra i monti del Forez, su uno sperone roccioso che dominava una vasta distesa, il vecchio borgo di Cervières, che, smantellato da Richelieu, conservava di lontano un aspetto feudale. Dal 1912, vi aveva acquistato una casa addossata e come mischiata ai bastioni. «Una casa? Niente affatto», correggeva subito, bensì «una venerabile scalinata di pietre, fra quattro mura». Quella casa era stato lui, un pezzo dopo l’altro, con pazienza, ad averla costruita, ampliata e adornata. Era la sua opera di pietra, nota soltanto agli iniziati. Egli ci andava a godere il riposo delle vacanze.
Proprio a Cervières, all’ombra in pendenza della sua chiesa, poco tempo dopo la compagna premurosa dei lunghi suoi anni, egli ha voluto ricevere l’estremo riposo. Questo figlio autentico del nostro paese, che il padre e il nonno ci avevano preparato così lontano, dorme ora proprio nel cuore del più antico suolo francese, sotto i cieli che videro combattere Vercingetorige e meditare Blaise Pascal.
Note
- Il titolo del testo originale è il seguente: Notice sur la vie et les travaux de Fortunat Strowski (1866-1952) par M. Maurice Levaillant, Membre de l’Académie, lue dans la séance du 29 novembre 1954. Nella presente traduzione, abbiamo fornito al lettore italiano, fra parentesi quadre, gli estremi biografici minimi (data di nascita e di morte) di tutti i personaggi menzionati da Levaillant che oggi ci sembrano – per più motivi, a parlar schietto, sovente incomprensibili e ingiustificabili – meno noti o familiari. Elementi ulteriori per la conoscenza e l’approfondimento si potranno agevolmente ritrovare in altra sede. Del resto, come amava ricordare agli studenti e agli amici Giorgio Pasquali (1885 – 1952), anni e anni prima, va da sé, che le rivoluzioni telematiche ancora in atto ci offrissero i loro frutti (forse) migliori, «le enciclopedie ci son per tutti!».
Giovano forse, per cominciare, due parole didascaliche su Fortunat Strowski. Maurice Levaillant (1884-1961) – infaticabile autore di studi storico-filologici tutt’oggi validi e preziosi su B. Constant, Chateaubriand (l’homme de lettres certamente da lui prediletto), Lamartine, Hugo e diversi altri “fari” del Romanticismo d’Oltralpe, docente alla Sorbona per anni, nonché originale, finissimo poeta – ne ha peraltro tracciato, in queste pagine offerte per la prima volta al lettore italiano, una memoria di altissimo profilo scientifico, morale, spirituale: si tratta, in verità, di un portrait a tutto tondo insieme dottissimo, panoramico, sottile, seducente.
Fortunat-Joseph Strowski de Robkowa, nato a Carcassonne il 16 maggio del 1866 e morto à Cervières l’11 luglio del 1952, è stato filologo, storico della letteratura, critico letterario e teatrale e saggista di fama, respiro, intelligenza internazionali. Apprezzato, carismatico docente nelle Università di Bordeaux e quindi, per decenni, di Parigi (Sorbona), resta tuttora celebre per gli studi imprescindibili su Blaise Pascal e, più in generale, su protagonisti assoluti della civiltà letteraria francese del Seicento (François de Sales, La Rochefoucauld, La Fontaine, Bossuet, La Bruyère); notevolissima, inoltre, la monumentale, pionieristica edizione degli Essais di Montaigne: si basò, difatti, sulla versione del 1588, oculatamente annotata – come si sa – dalla mano del pensatore bordolese. Fu eletto membro dell’Académie des Sciences morales et politiques nel 1926. Liberale de race, combatté animosamente, nonostante il peso degli anni, ogni forma di totalitarismo: prova ne sono, fra il resto, parecchie sue prose “brasiliane”, meditate e vissute da un’infinità di “esprits libres”, all’alba degli anni quaranta, nella sua Francia. Infine, ogni cittadino europeo di cultura non potrà non osservare, inter alia, che – a prescindere dalla straordinaria, quasi sconcertante coincidenza delle date di nascita e di morte – Strowski condivise molte idee e, presumibilmente, molti ideali etico-civili e nobilmente politici con Benedetto Croce (25 febbraio 1866 – 20 novembre 1952). - Protagonista degli ultimi quattro romanzi rilevanti, tutti d’ispirazione fortemente autobiografica, di Joris-Karl Huysmans (1848-1907).
- Ecco gli elementi bibliografici essenziali dell’opera in discorso: La Bruyère en Amérique. Les Caractères ou les moeurs de ce siècle, Paris, Tallandier, 1929.
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