Il quinto di Scarlino
Luigi Preziosi, Il quinto di Scarlino, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 34, no. 15, settembre/dicembre2013
Maggio, 8. Primi simulacri di esercizi militari sulla piazza di Talamone… Concorso di maremmani intorno al Generale; si arruolano parecchi volontari, altri se ne annunciano da Piombino.
(dal “Diario della spedizione dei Mille”, di Ippolito Nievo)
2 settembre 18491.
Un fischio lungo, poi uno più breve. Matteo scrutò a destra e sinistra, fin dove l’occhio poteva penetrare il buio della notte sul lungo rettilineo che, flebilmente imbiancato dal chiarore lunare, tagliava netta la pineta in due. Poi, saltò fuori dai cespugli in cui si era seppellito. Stirò le membra aggranchiate per troppa immobilità, e attraversò la strada con la sua corsa dinoccolata da quindicenne.
– O Matteo, son qui ! –
Si indirizzò veloce verso il cespuglio da cui veniva la voce di Tommaso. Nel buio riuscì a malapena ad indovinarne la curva lenta della guancia allargata ancor più del solito da un sogghigno da cospiratore consumato.
– Allora ? Hai visto qualcuno? –
– Cinque minuti fa è passata una pattuglia di cavalleggeri. –
– Quanti erano ? –
– Due. –
– Da che parte sono andati ? –
– Di là. Verso Castiglione. –
Si affacciarono entrambi sulla strada. La notte era ancora tiepida, l’estate declinava molto lentamente. La giornata era stata calda: i vapori delle gore morte e dei paduli stretti tra la pineta lungo il mare e le colline boscose solo al tramonto si erano posati sulle acque stagnanti.
– E loro, quando arrivano ? – bisbigliò Matteo.
– Sono già arrivati. Guarda. –
Nel folto della pineta, dove accennava Tommaso, non si vedeva nulla. Poi, ad un suo verso stridulo, sei ombre, correndo cautelosamente curve, attraversarono la strada allo scoperto e si affiancarono ai due ragazzi. Tre erano loro paesani di Scarlino, in odore di contrabbandieri: ogni tanto sparivano dalla circolazione anche per lunghi periodi. Ceffi torvi ed inquieti, sguardi acuminati, portavano ad armacollo due vecchi tromboni da caccia.
– Questi sono i ragazzi che vi dicevo, generale. Nessuno meglio di loro conosce i sentieri della pineta, che da qui vanno al mare. –
Riconobbe alla voce il dottor L., medico condotto di Follonica. L’altro uomo annuì e li salutò uno ad uno, con gesto largo della mano. Matteo ne intuì nell’oscurità lo sguardo azzurro, i capelli biondi alla nazarena raccolti sotto un vecchio cappello alla calabrese, in singolare contrasto con il resto del vestiario, che pareva indicare piuttosto un uomo di mare. Il sesto uomo, che il generale presentò come capitano Leggero, era un po’ più giovane, alto e scuro di barba e di capelli, anche lui vestito alla cacciatora, ma apparentemente disarmato.
Per questo, dunque, il dottore, due sere prima, aveva avvicinato Tommaso, su all’osteria nella piazzetta di Scarlino. Davanti ad un Morellino color di pece, trattandolo da uomo fatto, senza por tempo in mezzo gli aveva chiesto di fare da guida ad un gruppo di fuggiaschi. Solo pochi tra i giovanotti del paese sarebbero stati capaci di attraversare la pineta, nel buio della notte, evitando i sentieri segnati, dove potevano arrivare anche i cavalleggeri del granduca. Occorreva il loro sapere di ragazzi, coltivato con solerzia nelle scorribande estive, quando, scendendo dalle colline, tagliavano diritto per i boschi, per arrivare più in fretta al mare, giù fino alle acque trasparenti di Cala Violina o di Cala Martina. Si sussurrava in paese che il dottore fosse affiliato a qualche misteriosa società segreta. Di certo non metteva piede in chiesa, una volta all’osteria lo sentirono parlare di repubblica e di unità: Tommaso non ci aveva messo un attimo ad accettare. Altrettanto poco ci aveva messo il giorno dopo, al torrente, a convincere Matteo ad essere della partita.
Poche altre parole, e s’incamminarono.
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Marciavano in silenzio. Matteo sogguardava di tanto in tanto il generale. Una volta, al trapelare più intenso del chiarore lunare tra le fronde, ne incrociò lo sguardo: distolse subito gli occhi, imbarazzato per il fugace mezzo ammiccamento che gli parve di intravedere.
Nel buio del bosco filtrava incerto tra i rami il brillio emanato da una sottile falce di luna crescente. I raggi tremolanti bastavano a Matteo e Tommaso per orientarsi nella pineta, trovare varchi tra rovi, districarsi tra tronchi e ramaglie, indicando ai compagni di marcia dove posare il passo.
A mano a mano che s’inoltravano nel fitto della notte, a Matteo, nell’ingigantirsi delle ombre, nel loro variato accavallarsi e compattarsi, pareva di compiere un viaggio verso il cuore stesso dell’oscurità. Chissà quale segreto nascondeva il respiro largo della notte d’estate. Nel buio, gli parve di avvertire l’indefinito futuro dei suoi quindici anni pulsargli alle tempie, di intravedere la fuga senza limiti dei giorni a venire: tutto divenne in un lampo possibile, dall’indomani in poi. Si sentiva crescere dentro un’eccitazione fredda: questa era l’avventura? L’avventura vera? Non il loro estivo andar per allodole, non il tuffo dallo scoglio più alto, là vicino a Rocchette, non la vogata contro corrente su dall’Ombrone. Nemmeno le scorrerie nelle bandite con i bracconieri di Tirli e Vetulonia erano più avventura, ormai. Ci doveva essere dell’altro, oltre al battito in petto, per fare vera un’avventura. Qualcosa di nascosto, avvolto nel mistero di quella notte, nei motivi sconosciuti di quella fuga (scoprirli, magari, sarebbe stato di nuovo avventura), che solo intuiva potesse dare un senso alle cose da fare, valesse un sacrificio e si facesse ricordare.
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D’improvviso, un fruscio alla loro destra si mutò in trepestio convulso. Il dottore cacciò fuori una pistola che fino ad allora aveva tenuto nascosta nella cintola, i due muniti di fucili si gettarono in ginocchio, brandendo alla cieca i loro catenacci a destra e sinistra. Tommaso si addossò ad un tronco, e Matteo così si trovò solo al centro di una minuscola radura a pochi passi dal generale. Sbirciandolo, ne sorprese lo sguardo calmo, come confitto nel buio del bosco. Si stupì notandone l’immobilità assoluta, vigile ma non rigida. Il rumore si tramutò in un grugnito. Dal nero di un cespuglio saettarono alcune ombre. Solcarono rapidissime il sottobosco per poi sparire. Un’ombra molto più grossa attraversò di sbieco la loro traccia e subito disparve dietro le altre. Il dottore imprecò.
– Una famiglia di cinghiali –
Tutti si ricomposero in un attimo, tirando silenziosi sospiri di sollievo. Al generale sfuggì un breve sorriso. Si rimisero in marcia.
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Scollinarono in silenzio, rimontando su una lieve increspatura del terreno. Di lì in poi, la duna boscosa digradava verso il mare: tra lo stormire dei rami se ne intuiva lo sciacquio in lontananza. Non più pensieri, ora, sormontati tutti dal rumore crescente delle onde che faceva presagire una conclusione, qualunque fosse, della notte d’avventura. Un odore di salmastro nel vento si mescolava al profumo aspro di terra e di pino che pervadeva il bosco.
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La spiaggia di Cala Martina era un arco sottile, un riflesso rilucente di algida luce lunare. Si fermarono sul limite della pineta, in attesa. Il dottore dispose gli uomini in vedetta, rivolti verso il folto del bosco.
Il generale sedeva in faccia al mare, fissando la massa liquida, misteriosa nella penombra. D’improvviso, scalzatosi di furia, attraversò di corsa la sabbia umida della notte e, sollevando larghi spruzzi, si perse in una lunga corsa sul bagnasciuga. Poi, tornò indietro, ridendo silenziosamente. Gli altri uomini lo guardarono divertiti, godendo anche loro della sua gioia infantile e feroce.
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Non aspettarono a lungo, sospesi in una semioscurità piena di silenzi e dello sciabordio del mare. A tratti, qualche bisbiglio, mozziconi di dialoghi tra il generale e il dottore.
Matteo, seduto appoggiato di schiena ad un tronco, puntava lo sguardo nel folto della pineta, ma con la coda dell’occhio sbirciava il mare. D’un tratto, tra le increspature lentamente cominciò ad emergere dal buio la luce di una torcia. Una piccola lancia accostava rapida, spinta dal remigare ingobbito di due marinai. Un uomo in piedi a bordo lanciò un grido di saluto. I due ai remi manovravano alacremente per mantenere la barca sul filo della rottura dell’onda.
Il gruppo di scorta si radunò intorno ai due che stavano partendo. Il generale si passò una mano sulla guancia, guardò verso la barca che beccheggiava in attesa e poi si voltò verso i compagni di quella notte. Li abbracciò ad uno ad uno, dicendo:
– Non vi è nulla che possa ricompensare quello che ho ricevuto da voi, ma spero di ritrovarvi a tempi migliori -.
Poi, il generale e il suo accompagnatore si addentrarono tra le onde, l’acqua alle ginocchia, e saltarono a bordo.
Matteo si perse in quella voce, in quell’abbraccio, in quell’occhiata azzurra che penetrava ma non feriva. Seguì con gli occhi la lancia fin dove poteva, la vide allontanarsi rapida, fendendo i flutti diretta verso la nave in attesa. Il mare rinforzava, le onde si sbriciolavano sferzate dal vento. Il generale parlava con i due rematori, poi lo vide girarsi verso terra ed alzare il braccio per salutare. Ne intuì lo sguardo fermo, che pareva abbracciare tutto, per poi ogni volta, fosse anche solo per un attimo, concentrarsi solamente su chi aveva di fronte, e farlo sentire unico.
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Ritornarono che già albeggiava. Prima di separarsi, al bivio per Scarlino, il dottore li fece giurare che non avrebbero raccontato a nessuno che cos’era successo quella notte.
Ma Matteo non rinunciò a rimuginare.
Tante volte, negli anni a venire, era tornato a quella notte. Cercava di capire. Una volta, compitò a fatica una gazzetta vecchia di qualche mese, in cui si parlava della fuga del bandito Garibaldi da un punto imprecisato della costa maremmana.
Poi, un giorno, si trovò a sfalciare il prato davanti alla casa del dottore. Quando andò per la paga della giornata, tanto insisté che riuscì a farsi raccontare di quel generale accorso a Roma, insieme a tanti da tutta Italia, a difendere la repubblica, dove tutti si era uguali, e quasi si perse nell’immensità di quell’idea.
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8 maggio 1860.
Da due giorni, la gente di Talamone era in subbuglio: centinaia di camice rosse gremivano le strette strade del borgo e davanti al porto dondolavano lente alla fonda il Piemonte e il Lombardo. Nell’aria frizzava un senso di festa. Quelli non erano soldati come gli altri: ridevano, schiamazzavano da un cortile all’altro, da un’osteria all’altra. Intorno a una chitarra si improvvisavano canti d’amore, e s’alzavano in piazza cori ed inni guerreschi. Difficile il compito delle trombe d’ordinanza per riportarli al campo o a bordo.
Quando Matteo giunse in paese, si ritrovò dentro il brulichio dei volontari che stavano lentamente defluendo verso il porticciolo. Non caracollava più come undici anni prima, semmai ondeggiava leggermente sul suo passo arcuato da buttero. Portava con sé una sacca con un cambio di abiti, e un vecchio fucile da caccia: una compagnia buona per certe notti illuni passate a trasportar merci oltre il confine del Papa, per sentieri che pochi conoscevano.
Arrivò in fondo alla discesa che dava direttamente sulla banchina, fendendo una calca di soldati e di paesani incuriositi dalle manovre delle lance che riportavano i volontari a bordo dei vapori.
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Giusto in tempo. Il generale era là, sul bordo estremo della banchina, al centro di un crocchio di ufficiali. Vestiva una divisa blu dell’armata sarda. Ciocche di capelli biondo bianchi gli uscivano da sotto il berretto. Nel calarsi nella scialuppa dette uno sguardo indietro, incontrando per un attimo in lontananza gli occhi di Matteo. Chinandosi per saltare a bordo, agitò il braccio in un vago semicerchio. A Matteo parve un cenno indirizzato a lui, e lo ricambiò.
Guardò la barca allontanarsi rapida dal molo, fendendo i flutti diretta verso la due navi alla fonda. Il mare rinforzava, le onde si sbriciolavano sferzate dal vento. Il generale parlava con gli uomini che aveva accanto, poi lo vide girarsi verso il molo ed alzare il braccio per salutare. Nitido come mai gli era parso prima, custodendolo nella memoria, gli riapparve quello sguardo fermo, che pareva comprendere tutto, per poi ogni volta, fosse anche solo per un attimo, concentrarsi solamente su chi aveva di fronte, e farlo sentire unico.
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Matteo sapeva da più di dieci anni che cosa fare.
Presa una breve rincorsa, saltò sull’ultima lancia che si staccava dalla banchina e atterrò con un tonfo sordo sul pagliolo di legno. La squadra di uomini in camicia rossa a bordo lo sogguardò sorpresa. Accennò un saluto, troncato a metà dal ghigno ironico del graduato che stava al timone:
– Un altro da immatricolare a bordo. Via, alla voga ! –
Matteo fu investito da uno spruzzo d’acqua, ne respirò a fondo l’odore salmastro, il vento di mare gli inondò i polmoni, gli occhi gli si persero liquefacendosi nella linea infinita tra l’azzurro del cielo e il cobalto del mare. Si sentì felice.
Note
- Parzialmente e liberamente ispirato a “Dal molino di Cerbaia a Cala Martina” (Firenze, 1889) di Guelfo Guelfi.
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