Bibliomanie

L’insegnamento come processo di ricerca morale. Intorno e attraverso Reasons for Learning di J. G. Nicholls e T.A. Thorkildsen
di , numero 34, settembre/dicembre2013, Didactica,

Come citare questo articolo:
Alberto C. Saetta, L’insegnamento come processo di ricerca morale. Intorno e attraverso Reasons for Learning di J. G. Nicholls e T.A. Thorkildsen, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 34, no. 20, settembre/dicembre2013

Le persone, a differenza delle macchine, non possono essere assemblate da altri. Hanno certamente il diritto di ricevere stimoli e aiuti, ma in definitiva non possono esimersi dal partecipare al loro processo educativo, in accordo a una nuova visione di paideia, secondo cui la conoscenza si rigenera nella mente degli allievi.
In anni in cui è maggiormente vivo il rischio che la scuola assomigli sempre più ad un Mc Donald, gli insegnanti a operai di una catena di montaggio e gli alunni a panini pre-confezionati, può tornare di attualità il lavoro di John G. Nicholls e Theresa A. Thorkildsen, Reasons for Learning1, opera che, già nel lontano 1995, metteva in guardia dai pericoli del totalitarismo culturale.
Il testo dei due studiosi americani si inserisce nel lungo e fecondo dibattito intercorso tra pedagogia tradizionale e pedagogia progressista riguardante le tecniche d’insegnamento. La prima si concentra sulla chiarezza espositiva, sull’apprendimento a tappe e sulla ripetizione sistematica di prove e verifiche, reputando indispensabile il momento valutativo per attestare l’effettivo grado di preparazione; l’attenzione è centrata sul compito (task leadership), grazie al quale viene favorito il controllo del rendimento.
Al contrario, la teoria pedagogica progressista focalizza il proprio interesse sulla componente socio-emotiva dell’alunno (socioemotional leadership), stimolando toto corde la sua voglia di apprendere e la sua curiosità. Viene inoltre valorizzata la capacità di adoperare stili di insegnamento differenti, ed altresì affermata la centralità delle discussioni, delle uscite didattiche e dell’apprendimento attraverso il fare, ridimensionando il ruolo della valutazione e favorendo il lavoro di gruppo, l’ascolto e la creazione di un ambiente positivo.
Pur partendo dal presupposto che entrambe le scuole di pensiero abbiano qualcosa di importante da offrire e che il maestro esperto possa riuscire a combinare diversi stili di insegnamento per mettere a loro agio tutti i suoi studenti, gli autori di Reasons for learning sembrano a ogni modo propendere, claris verbis, per la pedagogia progressista.
L’opera è, infatti, costruita attorno a particolari esperienze di lavoro, in cui proprio l’innovazione e la capacità di adattarsi al contesto hanno permesso ai docenti di migliorare il rendimento dei loro allievi, spesso conseguente al nascere di un rapporto di fiducia reciproca.
I due studiosi auspicano una palingenesi della concezione di insegnamento, vissuto come un processo di ricerca morale (teaching as a process of moral inquiry); ben a proposito viene in tal senso citata dai nostri autori la nota posizione di John Holt in merito all’alienazione che vivono gli studenti, soprattutto in occasione di prove standardizzate: «Come robot procedono attraverso il tentativo di dare delle risposte per raggiungere un punteggio abbastanza soddisfacente» (p. 97, traduzione mia come nei casi che seguono). Nei suoi scritti Holt ha denunciato il lato oscuro del sistema scolastico, evidenziando come i docenti siano maggiormente interessati al rendimento degli alunni e alla loro disposizione a sottostare alle regole, piuttosto che alle loro caratteristiche personali. Nella scuola esiste, a suo modo di vedere, una piramide gerarchica in cui gli alunni stanno sul gradino più basso.
La visione dell’insegnamento come processo di ricerca morale proposto dagli autori risponde in toto al cosiddetto “lato oscuro” della scuola, avvalorando il ruolo attivo che dovrebbero avere gli studenti anche nello stabilire curricula basati su situazioni, motivazioni e interessi particolari della classe.
Non esiste per gli autori un programma, un metodo o uno stile d’insegnamento valido in assoluto; occorre invece adeguarsi alla specificità dei gruppi e degli studenti, andando oltre gli ostacoli che si possono presentare nel rapporto con i genitori e con l’autorità, e oltre i vincoli di tempo imposti dall’obiettivo di completare il programma: tutti elementi che impediscono di soffermarsi sulla relazione, imprescindibile, con i ragazzi. È proprio il rapporto maestro-studenti, quindi, il punto di partenza di un nuovo modo di approcciarsi all’insegnamento: gli alunni non sono oggetti e, tanto meno, meri contenitori di nozioni, ma soggetti attivi da conoscere individualmente e con i quali cooperare per una crescita reciproca, che finalmente coinvolga gli stessi docenti, in accordo al famoso motto senecano homines dum docent discunt.
Vanno letti in quest’ottica i due capitoli in cui vengono descritte le affascinanti figure di Sylvia Ashton-Warner (cap. 3) e Lee Colsant (cap. 4), illuminanti esempi di teaching as process of moral inquiry; la prima insegna in una serie di infant room (una pre-scuola di preparazione all’istruzione) in alcune località della Nuova Zelanda, il secondo è professore di francese in un istituto superiore di studenti afro-americani a Chicago.
L’originalità di Sylvia Ashton-Warner consiste, inter alia, nell’attribuire agli insegnanti facoltà artistiche e letterarie, considerando la sensibilità, la fantasia e l’intuito, elementi essenziali di una professione che richiede una mente vulcanica. Gli spunti di riflessione sono molteplici: centrale, ad esempio, è il problema dell’autorità, e della burocrazia attraverso la quale essa si esplica. Altro snodo cruciale, mai abbastanza posto in rilievo, è la condizione d’incertezza nella quale operano i docenti, impossibilitati a verificare il proprio lavoro a lungo termine, mancando l’opportunità di riscontrare, su alunni che ormai non saranno più presenti a scuola, gli effetti dell’azione didattica. Con raffinata suggestione, l’educazione è paragonata a un romanzo, di cui si conosce l’inizio solo dopo la fine; nella scuola non c’è conclusione, ogni anno comincia qualcosa di nuovo e qualcosa si ripete.
Quella di Sylvia è la storia di una maestra che, dopo un inizio difficile, stretta tra aspettative diverse, dubbi e vincoli, riesce a trovare nel senso del suo lavoro la forza per migliorare anche la propria vita, oltre a quella degli studenti. L’interazione fra la crescita del sé e il miglioramento della capacità di occuparsi degli altri è, di conseguenza, indispensabile per essere un buon insegnante. Il fatto che, nonostante i successi, i riconoscimenti e gli apprezzamenti di altri colleghi e ispettori, Sylvia decida di lasciare la scuola, a seguito della mancata approvazione di un progetto risultato utile per tante persone, ci riporta inevitabilmente a uno dei drammi attuali di questa professione, ovvero il disconoscimento del lavoro dei docenti. Quello che resta della sua esperienza è, comunque, profondamente innovativo e si sostanzia nella ricerca di un ideale metodo di lavoro su più livelli: professionale, individuale e sociale. Sylvia Ashton-Warner ci lascia un’immagine dell’insegnamento come forza di energia dinamica, come madre-terra: il magister non è un semplice giardiniere ma è colui che istruisce “abitando le menti” dei ragazzi.
Ma è possibile riformare la scuola senza che i docenti si confrontino in maniera più critica con gli studenti?
Questo uno degli interrogativi più rilevanti sollevati nel libro.
L’esperienza di Lee Colsant risulta essere, in questo senso, particolarmente chiarificatrice. Lee è un professore che per diciassette anni ha ripetuto e completato, con grandi successi, lo stesso tipo di curriculum. Il milieu educativo, però, cambia radicalmente, compromettendone equilibrio e rendimento, quando nella classe viene a trovarsi un gruppo di ragazzi ostili alla scuola, i quali manifestano il chiaro intento di rendere difficile l’attività scolastica del docente. È proprio quando anche la big gun of curriculum control, ovvero il colloquio con i genitori, risulta un fallimento, che egli capisce che deve adattare il suo curriculum alle necessità della classe; comprende così l’importanza di entrare a contatto con gli studenti, di conoscere le loro vite e di camminare nei loro mondi; le loro esperienze sono ormai più importanti delle sue lezioni e, nonostante, ogni tanto, il suo vecchio “Io” continui a parlare mentre sta cercando una nuova voce, il professor Colsant riesce ad abbandonare il ruolo di agente dell’amministrazione scolastica.
I risultati, non solo dal punto di vista umano, ma anche da quello più strettamente scolastico, non tardano a manifestarsi. Infatti, oltre all’instaurarsi in classe di un clima di collaborazione e di reciproca fiducia, si assiste a un innalzamento generale del rendimento degli alunni.
Nella scuola, dunque, non c’è niente di assoluto: anche un metodo che ha avuto successo per quasi due decenni dovrà essere modificato se muta il contesto in cui il docente viene a trovarsi. Così gli autori: «Le generalizzazioni astratte non devono essere viste come la più importante forma di conoscenza delle motivazioni degli studenti. Una buona scuola è sempre particolare».
Altro punto focale del viaggio di Nicholls e Thorkildsen è senz’altro il confronto fra la teoria (dei ricercatori) e la pratica quotidiana (degli insegnanti). Il questionario sulla motivazione somministrato (cap. 1) per verificare se e quanto i docenti applichino nel loro lavoro le soluzioni che i ricercatori consigliano, ha evidenziato in primis et ante omnia un’elevata (e in qualche misura inattesa) convergenza di giudizi tra i due gruppi. Gli insegnanti, difatti, sono perfettamente a conoscenza delle teorie sviluppate dalla ricerca e quindi riconoscono l’importanza di stimolare negli alunni l’interesse, la collaborazione, il lavoro in gruppi e la possibilità di compiere delle scelte; così come sono coscienti di quanto possa essere dannoso fornire premi estrinseci o esasperare la competizione.
Nonostante tale consapevolezza, spesso questi princìpi (in particolare la possibilità di concedere agli alunni maggiore autonomia) non vengono applicati nell’esperienza pratica e ciò, secondo gli autori, è dovuto a vari fattori, dalle pressioni di genitori e presidi, all’esigenza del professore di mantenere l’autorità (obiettivo più facilmente raggiungibile con una conduzione rigida della classe), sino alla paura dei ragazzi di confrontarsi con nuovi stili di insegnamento e di apprendimento. Ed è probabilmente quest’ultima motivazione a stupire di più e a scoraggiare maggiormente i docenti, a volte quasi costretti ad adagiarsi pigramente sulle consacrate architetture dei dogmata tradizionali.
Quale studente non ha sognato, almeno una volta, un professore come quello impersonato da Robin Williams nel film L’attimo fuggente? Eppure nelle esperienze riportate nel libro si riscontra da parte degli alunni, almeno in una fase iniziale, una certa diffidenza e una resistenza verso ogni tipo di cambiamento. In definitiva, ai ragazzi il sistema non piace, ma essi stessi hanno paura di cambiarlo (cap. 5).
Altro elemento di reale interesse, che emerge dalla constatata convergenza tra ricercatori e insegnanti, è la dimostrazione di come i ricercatori siano troppo vicini al senso comune e non entrino mai nello specifico, offrendo sovente generalizzazioni che risultano prive di portata pratica.
Il titolo di uno dei paragrafi del volume, Big science adrift (Grande scienza alla deriva), non è casuale, così come non lo è il fatto che la crisi si manifesti in questi anni caratterizzati da nuove e molteplici prospettive. Ha scritto Whitehead: «L’errore è il metodo della scienza, il panico dell’errore è la morte del progresso». Eppure, soprattutto tra i giovani, pare ancora diffusa l’idea della scienza come una disciplina esatta, capace quasi di “decifrare l’eternità”, come sottolineano anche gli autori: «Generalmente, gli studenti considerano la scienza come una collezione di fatti, regole e leggi da memorizzare piuttosto che da costruire in una ricerca personale e sociale» (p. 133).
Nel testo vengono altresì affrontati temi connessi allo sviluppo della motivazione all’apprendimento. A esempio, il secondo capitolo è incentrato sull’approfondimento della differenza fra elogio e incoraggiamento. Da una parte, l’elogio sviluppa l’ego-involving feedback, cioè l’attenzione sulla stima che ha di sé il bambino, spesso esasperata dalla competizione con gli altri, che può condurlo a intendere il fine della scuola come una dimostrazione di superiorità; dall’altra, l’incoraggiamento sviluppa invece il task-involving feedback, ovvero l’interesse alle consegne da svolgere e non allo status, aiutando il bambino a riconoscere il senso della sua attività nel portare a termine il compito. Nel settimo capitolo, d’altro canto, si evidenzia come il lavorare in gruppo possa essere utile solo se viene data allo studente la facoltà di scegliere i compagni con i quali collaborare, ma anche quando, come e in che misura farlo. Lavorare con altri può essere, infatti, soffocante per alcuni ragazzi che devono avere la possibilità di procedere in autonomia, anche in virtù di una consapevole decisione.

Fondamentali per la comprensione di quest’opera sono le conclusioni tratte da Nicholls (pp.165-166), in cui si sottolineano le conseguenze nefaste del totalitarismo culturale e in cui si evidenzia amaramente come esso sia ancora una realtà. Infatti: «Il totalitarismo culturale sterilizza il talento […]. Regna in molte scuole, dove gli obiettivi sono definiti da esperti distanti e da prove ideate in altri luoghi». Questa forma di totalitarismo culturale non è lontana, secondo Nicholls, dal ridurre la scuola ad una fabbrica che deve produrre un modello unico di automobili, valido per tutti; ma l’idea stessa della scuola-azienda e dell’alunno-prodotto, mortifica i valori su cui si basa l’insegnamento: «Le persone, a differenza delle macchine, non possono essere assemblate da altri. Possono essere aiutate e stimolate, ma alla fine devono essere loro a formarsi; ed è questo il motivo per il quale la negoziazione delle ragioni dell’apprendimento deve essere compito di ogni singolo studente».
In una situazione del genere, non risulta poi così utopistico immaginare un futuro in cui i nostri figli berranno a colazione nozioni di fisica in polvere, ingoieranno a pranzo pillole di laboratori di scrittura e un po’ di storia prima di andare a letto. Forse potrebbe non esserci neppure più bisogno di comunicare, perché tutti penseranno le stesse cose.
Ecco perché l’insegnamento come processo di ricerca morale diventa elemento imprescindibile per il futuro del sistema scolastico, un elemento che valorizza soprattutto la responsabilità e l’azione dei docenti: «Gli insegnanti devono venir fuori dalle loro classi per lavorare sulle condizioni che definiscono l’insegnamento come un costante processo di ricerca morale nel quale gli studenti sono inclusi».
L’educazione non è insomma una corsa verso una meta predefinita, ma un comune viaggio verso luoghi sconosciuti. Un viaggio che richiede flessibilità, tolleranza, passione, fantasia e – più che tutto – la giusta sensibilità, che sola permette di utilizzare al meglio tutte queste doti, tenendo di volta in volta presenti le situazioni reali nelle quali il docente si trova ad agire.

Note

  1. New York and London, Teachers College Press, 1995, pp. 192.

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