Bibliomanie

Il Sileno e il Titano. Salvemini contro Mussolini
di , numero 33, maggio/agosto 2013, Saggi e Studi,

Come citare questo articolo:
Pierpaolo Lauria, Il Sileno e il Titano. Salvemini contro Mussolini, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 33, no. 4, maggio/agosto 2013

Con l’avvento al potere del fascismo, sul finire del 1922, Gaetano Salvemini, spirito indomito e coraggioso, temprato dagli stenti nella tenerà età, la famiglia era numerosa e scarsi erano gli averi, e dalla tragedia nella maturità, a Messina perse sotto le macerie del terremoto del 1908 una sorella, la moglie e i cinque figli, ingaggia la sua battaglia più aspra e lunga, per la difesa della libertà e della democrazia; altre già ne aveva combattute contro il ministro della malavita, per il Mezzogiorno, per gli insegnanti, per il suffraggio ai poveri cristi, per l’intervento nella guerra mondiale, e ne portava adosso, tutt’interi, i segni e le fatiche.
In un primo momento la reazione di questo veterano coriaceo e dalla scorza dura all’ascesa fascista non fu ostile, perché giudicò l’esperienza mussoliniana, dopo un periodo di grandi e violente convulsioni, come utile al ripristino dell’ordine civile, ed anche in considerazione dell’indignazione profonda e di vecchia data per la classe dirigente liberale (per gente come Giolitti, Facta, Bonomi e Salandra) e della sfiducia maturata via via verso i socialisti, ritenuti settari e indolenti con il Mezzogiorno, e troppo inclini al compromesso con il governo: lasciò il partito in aperta polemica nel 1911.
Nel marasma generale la soluzione estrema del fascismo prendeva quota e faceva meno paura: era per Salvemini una carta che si poteva giocare, un rischio che si poteva correre, data la gravità della situazione.
Da Parigi apprese che “il dado era tratto”: Mussolini aveva rotto gli indugi e “trionfalmente” aveva marciato sulla città eterna e capitale del Regno, conquistata senza colpo ferire, mentre il re tentennava, assillato dai dubbi. Informato dell’ accaduto, Salvemini esclamò: “Meglio lui che un altro”.1
Commentando la vicenda con E. Rossi precisò che “Mussolini era preferibile a D’Annunzio”.2
Comunque la soluzione fascista della crisi politica gli apparve “come la meno scellerata che in quel momento fosse possibile in Italia. Quella prova non doveva essere avversata per partito preso, ma si doveva sperare che l’uomo, secondato al Governo da persone di buona volontà, arrivasse a ricondurre il Paese almeno a una forma di vita non ferocemente disordinata”.3
C’era in lui il timore di un suo prossimo passo falso, unito alla speranza in un buon esito del governo Mussolini, mitigato da affidabili “compagni di viaggio”,. Disse: “Il guaio è che il regime fascista minaccia di sfasciarsi con troppa rapidità”.4 Salvemini riteneve che ciò avrebbe riportato a galla una schiera di screditati uomini della peggiore Italia.
Per lui, infatti, “c’era da aspettarsi che accumulasse tanti spropositi da rendere in breve inevitabile il ritorno del vecchio uscio sui vecchi gangheri”.5
Il tentativo mussoliniano ai suoi albori gli sembrò assai precario, debole, inconsistente e fu bollato come un’effimera “luna di miele” destinata a interrompersi, con un brusco risveglio, non appena la promessa del miracolo si fosse sciolta, come neve al sole, sotto il peso dei problemi irrisolti.
Ben presto, però, dovette ricredersi e le sue speranze vennero tradite: il fascismo si dimostrò, da subito, un cattivo affare per il paese.
Infatti lontano dall’essere una reazione “spontanea” del sistema politico verso gli eccessi rivoluzionari di sinistra, il fascismo si caratterizzò come fenomeno “asistemico”, come una forza sovversiva, in grado di rovesciare l’assetto liberal-democratico dalle fondamenta, di annientare la dialettica partitica e svuotare il parlamento di funzioni, “parole e decisioni”, di imporre un regime totalitario, che non ammette dissensi, repressivo e intollerante verso la diversità, che fonda il suo dominio sulla forza e sulla violenza.
La speranza in un regime rispettoso delle regole democratiche fu subito disattesa e con essa vennero liquidati gli ingombranti “compagni di viaggio”, ma soprattutto si rivelò del tutto errata la previsione di una fine precoce dell’esperimento fascista.
Salvemini sottovalutava il fascismo considerandolo un fenomeno senza futuro, transitorio e dal respiro corto, una sorta di scossa d’assestamento seguita al terremoto del “Biennio rosso”: “Mi par chiaro che il mondo, dopo esser ‘andato a sinistra’ nel 1919-1920, ‘va a destra’ dal 1921 in qua”.6 In una pagina di memorie, Nina Ferrero Raditza riporta l’accesa discussione tra il padre Guglielmo Ferrero, uno dei maggiori esponenti in Italia della “scuola positivista” – a quella data, battuta in breccia dall’impetuoso e imperante idealismo – e marito di secondo letto di Ernestina Bittanti, e l’amico Salvemini, che non condivideva le sue preoccupazioni e i foschi presagi per il “colpo di mano” fascista: “Papà era disperato, diceva che la marcia su Roma avrebbe portato la dittatura in Italia per decenni, e anche avrebbe potuto portare il paese a un’altra guerra; Salvemini invece prendeva la cosa alla leggera e diceva che Ferrero era il solito pessimista, che le cose sarebbero tornate come prima in tre mesi… La discussione durò a lungo, tutt’e due picchiavano i pugni sulla tavola e le tazze ballavano, mi ci appassionai anch’io e quella volta rimasi a sentire”.7
Se Salvemini azzeccava il pronostico che il fascismo sarebbe caduto per sua stessa mano, si sbagliava e sui tempi della caduta. Azzardava, nel 1926, una stima di dieci anni: cinque per capire quel che era avvenuto e cinque per capire come uscirne.
Inoltre dichiarò: “Eppoi, se gli italiani avessero dovuto liberarsi del fascismo solamente per aver capito quel che era successo e come poterne uscire, la dinastia di Mussolini sarebbe durata quanto tutte le dinastie dei Faraoni. Bisognò che Mussolini si ingolfasse nella seconda guerra mondiale e passasse in tre anni di disastro in disastro, perché andasse a gambe all’aria sia pure con qualche spinta degli italiani”.8
In seguito, riconoscendo il calcolo errato e dichiarandosi contrario ad attentati alla vita di Mussolini, che avrebbero impedito all’Uomo della Provvidenza di portare a compimento la sua “missione”, il suo esperimento di utilità mondiale fino alle sue estreme conseguenze, ossia fino al suo totale fallimento, con rammarico ebbe a dire: “Dirò francamente che non me la sarei presa così comoda, nel 1927, se avessi pensato che l’esperienza sarebbe durata fino al 1945, e che sarebbe costata così cara agli italiani”.9
Probabilmente su questi iniziali e ingenui giudizi pesa anche la suggestione culturale esercitata sull’ orientamento del suo pensiero dalle teorie di G. Mosca, che vedeva nelle minoranze organizzate il vero protagonista della storia a scapito delle masse.
A questo proposito M. L. Salvadori osserva: “È significativo che proprio in questi anni egli esprimesse in modo netto la sua adesione alle teorie del Mosca. La sconfitta delle disorganizzate masse popolari ad opera delle schiere relativamente esigue ma organizzate del fascismo si rifletteva nel convincimento che la storia fosse fatta non dalle masse buone a nulla, bensì dalle minoranze attive risolute ai propri scopi. Erano anni che egli aveva fatto appello alle minoranze consapevoli nel generale disfacimento delle organizzazioni di massa; la superiorità delle minoranze consapevoli e attive pareva ricevere ora la più evidente delle conferme, ad opera però – e qui era il dramma – non delle minoranze progressive, bensì di quelle reazionarie”.10
Ma comunque Salvemini, paladino irriducibile della democrazia, non ci mise poi molto ad accorgersi di essersi ingannato sulla “perfida natura” del fascismo, che era eversiva e totalitaria.
Quella che a lui sembrò, in un primo momento, la cura più efficace per i malanni dell’Italia si rivelò, in tempi brevi, ancor peggio del male.
Salvemini si vide costretto a riconsiderare urgentemente, in negativo, il fenomeno fascista, dopo le stragi commesse dai fascisti sul principio del 1923 a Torino e La Spezia, dopo il famigerato “discorso del bivacco”, tenuto da Mussolini in parlamento, sul finire dell’anno (l’inerzia dei deputati al discorso del duce mandò su tutte le furie Salvemini), e, in mezzo a questi due eventi, dopo “l’increscioso” episodio personale del rifiuto del passaporto per andare a Londra a tenere alcune lezioni (la prima di una lunga serie di sfide da parte di un uomo coraggioso insubordinato a un regime brutale e assassino).
Fu il delitto Matteotti a rappresentare con tutta la sua drammaticità la svolta che portò Salvemini, il sileno, a un attivo impegno antifascista, alla lotta senza tregua contro Mussolini, il titano.11
Dalla retroguardia si schierò in prima linea, collocazione più consona al suo temperamento di combattente.
Nelle sue “memorie” scriverà: “L’assassinio di Matteotti mi dette uno scossone. Mi dissi che avessi o non avessi fiducia negli antifascisti ufficiali, era mio dovere non rendermi complice con la mia inerzia di un regime infame, come avevo fatto negli ultimi tempi. Anche ad essere da solo, dovevo dire un no risoluto e pubblico a quel regime: fa’ quel che devi, avvenga che può”.12
Dalle sue parole emergono chiaramente l’indignazione morale per l’omicidio e il forte senso di colpa verso se stesso per la sua incosciente immobilità.
D’allora in poi Salvemini divenne uno degli avversari più irriducibili, infaticabili e agguerriti che il fascismo abbia mai conosciuto.
Lo storico inglese Stuart Hughes istituendo un parallelo tra i giganti del pensiero italiano del Novecento, Gramsci l’apostolo di un originale e critico marxismo, Croce custode della tradizione liberale e Salvemini fautore di una democrazia liberale, riconobbe a quest’ultimo la palma di maggior oppositore del regime, in virtù del suo temperamento battagliero, d’infaticabile lottatore e del suo destino di esule, sebbene il suo pensiero sul piano culturale avesse avuto meno fortuna rispetto a quello degli altri due: “Come intellettuale Salvemini sembra aver avuto un peso inferiore a quello di Croce o di Gramsci tanto nella cultura del suo paese quanto nella storia del pensiero sociale […] Eppure toccò proprio a lui il compito che né Croce né Gramsci ebbero modo o possibilità di svolgere di esporre al mondo esterno la vera natura del dispotismo sotto cui gli italiani furono costretti a vivere per due decenni. […] Soltanto un esule era in condizione di proclamare al mondo tutta la verità e, tra gli intellettuali italiani andati in esilio, Salvemini era predestinato ad assumere il ruolo a lui congeniale di principale critico del Duce”.13
Non lesinò energie fisiche e intellettuali nella battaglia più dura che dovette combattere nel corso della sua vita; il suo impegno fu totale, sorretto da una straordinaria determinazione e intransigenza morale, sia sul piano dell’azione politico-pratica (partecipazione diretta a organizzazioni antifasciste e a manifestazioni di protesta), sia sul piano intellettuale (conferenze, articoli di giornali, libri).
Già dal 1922, a Firenze, era operativo un circolo di cultura fondato per opera dei fratelli Rosselli e di Ernesto Rossi (tra gli “allievi” prediletti di Salvemini, che lui considerava come figli adottivi). Esso fu ben presto denominato “circolo Salvemini” per il prestigio che gli conferiva la partecipazione dell’illustre storico.
Il circolo si occupava di temi e argomenti “accademici” ed extrapolitici e si sprecava in un “intellettualismo inerte”. Fu anch’esso sconvolto dalla violenza e brutalità di una realtà che i membri provavano a ignorare, affaticandosi inutilmente a sbarrarle l’ingresso, perché non li tediasse con le sue angosciose seccature. Ma questa realtà, trovando chiusa la porta, entrava impunemente dalla finestra.
I membri del circolo passarono da uno stato di sconsiderato indifferentismo e di “ascetismo culturale” a uno di profonda avversione e ripugnanza nei confronti del fascismo, che li condusse a scendere nell’arena politica, a caricarsi di responsabilità civili e morali ineludibili, a militare tra gli antifascisti più fervidi e intrepidi.
Il circolo fu preso di mira dai fascisti e dato alle fiamme. Salvemini ricorda che l’uso di saccheggiare e d’incendiare era una novità assoluta introdotta dai fascisti nelle lotte politiche italiane. Quindi il circolo, all’inizio del 1925, fu soppresso per attività antinazionali.
Il gruppo legato a Salvemini, ormai sopito dal “sonno speculativo” e smettendola di “guardarsi l’ombelico”, non si perse d’animo e reagì subito ricostituendosi intorno al “Non mollare”, uno dei primi giornali clandestini antifascisti d’Italia, che già nel nome inequivocabilmente esprimeva il programma di non arrendersi e non lasciarsi intimorire dal terrore scatenato dai fascisti per continuare una resistenza contro di loro a oltranza.
Anche in questa circostanza Salvemini, pur non facendosi promotore dell’iniziativa (i fondatori furono Nello Traquandi e Dino Vannucci) con il suo carisma e con la sua carica di passione civile, ne assunse di fatto la direzione, scrivendo anche la maggior parte degli articoli.
Il giornale assunse una posizione molto critica (al pari dei comunisti) nei confronti dell’Aventino, considerato una misura inefficace, dato il momento: “Eravamo tutti d’accordo che i deputati dell’opposizione antifascista, il cosiddetto “Aventino”, non avevano capito che la “seconda ondata”, tante volte minacciata da Mussolini, aveva ormai avuto luogo e li aveva travolti: bisognava far punto da capo, e prepararsi ad una resistenza lunga e ben dura”.14
Bisognava affrontare il fascismo sul suo terreno, quello della forza, riponendo a tempi migliori le vane illusioni e rinchiudendo per allora nel cassetto i bei discorsi di principio.
Salvemini era diventato il maggior esponente e animatore dell’antifascismo fiorentino.
Prese a non salutare gli ex amici e i colleghi universitari convertitisi al nuovo ordine per motivi d’opportunismo, dicendogli: “Noi non ci conosciamo”.15
Dopo circa un mese dall’assassinio Matteotti, la commemorazione della morte di Cesare Battisti (amico di Salvemini, conosciuto negli anni universitari) un patriota della prima guerra mondiale, divenne l’occasione per una manifestazione antifascista, in cui Salvemini denunciò con un articolo, firmato, sopra un foglio informativo, le responsabilità, dirette o indirette che fossero, di Mussolini.
Poi la compromissione di Mussolini fu confermata sul “Non mollare”, con la pubblicazione del memoriale Filippelli, uno degli accusati della complicità nell’assassinio, e degli atti dell’inchiesta del Senato sull’affare Matteotti. Da questi risultava che uno degli accusati, Cesare Rossi, capo dell’ufficio stampa di Mussolini, l’accusava di aver ordinato l’omicidio.
Per la sua attività nel giornale, le cui pubblicazioni cessarono dopo esser state in un primo tempo attribuite erroneamente alla massoneria, vittima senza colpe della rappresaglia fascista, fu arrestato e fece l’esperienza del carcere, la quale si rivelò tutt’altro che disprezzabile.
Infatti, nel descriverla, in Memorie di un fuoriuscito, nota il passaggio paradossale da una situazione pericolosa e angosciosa di chi non sa se ritornerà a casa con il cranio intatto e la sicurezza garantita dallo Stato di prigionia, accolta come gradito riposo dopo tante inquietudini.
Sul finire del 1925 prese la via dell’esilio, approfittando della libertà provvisoria e in attesa dell’applicazione, da parte del tribunale, dell’amnistia per reati politici, che, concessa per scagionare gli esecutori del delitto Matteotti, fu d’aiuto pure per lui, scortato alla frontiera con la Francia da Natalino Sapegno, Federico Chabod e Carlo Guido Mor, allievi fidati, dal grande futuro.
La fuga di Salvemini fu un grave smacco per Mussolini, rappresentando un atto di aperta condanna e ribellione verso il regime, screditato agli occhi dell’opinione pubblica straniera da parte di un autorevole e illustre studioso di fama internazionale e su posizioni politiche, ormai, piuttosto moderate.
Siccome Mussolini teneva in modo ossessivo alla sua immagine all’estero, cercò di rimediare allo strappo.
I fascisti tentarono, tramite Fedele, ministro dell’Istruzione, di far rientrare il fuggiasco, allettandolo con una proposta “irrinunciabile” di congedo di due anni all’estero per motivi di studio.
Ma Salvemini, fiutando i rischi insiti in tale proposta, non cedette alle lusinghe degli onori fascisti e rispose picche: “Quell’offerta mi fece l’impressione di una sferzata sulla faccia. Se l’avessi accettata, avrei rotto ogni solidarietà con gli antifascisti, avrei dovuto interdirmi ogni critica al regime che mi faceva quel favore; e mentre i miei amici in Italia rischiavano libertà e vita nel resistere al fascismo io me la sarei goduta all’estero studiando a spese del governo fascista”.16
Frattanto il ministro Fedele, non accettando le dimissioni di Salvemini dall’incarico di professore di storia moderna all’Università di Firenze, dove insegnava ininterrottamente dal 1916 (prima aveva insegnato la stessa disciplina all’Università di Messina per poi passare a Pisa nel 1910), lo destituì d’ufficio.
Attraverso le dimissioni Salvemini denunciò per l’ennesima volta e vibratamente la dittatura fascista, come negatrice di condizioni di libertà indispensabili a un insegnamento storico disinteressato e a una libera formazione civile, riducendo la storia, come pratica e disciplina, all’infelice alternativa tra l’asservimento al “padrone del vapore” oppure alla sterilità dell’erudizione che si specchia in se stessa.
Cariche di passione e di vigoroso senso del dovere verso l’alto ufficio dell’insegnamento sono le parole della sua lettera di dimissione: “Signor Rettore, la dittatura fascista ha soppresso, oramai, completamente, nel nostro Paese, quelle condizioni di libertà, mancando le quali l’insegnamento universitario della storia – quale io lo intendo – perde ogni dignità, perché deve cessare di essere strumento di libera educazione civile e ridursi a servile adulazione del partito dominante, oppure a mere esercitazioni erudite, estranee alla coscienza morale del maestro e degli alunni. Sono costretto perciò a dividermi dai miei giovani e dai miei colleghi, con dolore profondo, ma con la coscienza sicura di compiere un dovere di lealtà verso di essi, prima che di coerenza e di rispetto verso me stesso. Ritornerò a servire il mio Paese nella scuola, quando avremo riacquistato un governo civile”.17
A queste accuse, seguì la sdegnata protesta del Volpe alla Camera. Questi negò che in Italia fosse stata soppressa l’indipendenza dell’insegnamento, accusando a sua volta Salvemini di essere accecato dalla passione politica e di avere una posizione prevenuta e pregiudiziale nei confronti del fascismo.
Ma nel 1931 con l’obbligo al giuramento di fedeltà al regime richiesto ai professori universitari, le parole di Salvemini trovarono la loro suprema e triste conferma.
Il manipolo di valorosi, che con reverenza e ammirazione citiamo, era composto da Ernesto Bonaiuti (storia del cristianesimo), Mario Carrara (antropologia criminale), Gaetano De Sanctis (storia antica), Antonio De Viti De Marco (scienze delle finanze), Giorgio Errera (chimica), Giorgio Levi della Vida (lingue semitiche comparate), Bortolo Nigrisoli (chirurgia), Vito Volterra (fisica matematica), Lionello Venturi (storia dell’arte), Francesco Ruffini (diritto ecclessiastico), Edoardo Ruffini Avondo (storia del diritto), Piero Martinetti (filosofia); a questi “dodici contro il duce”, si aggiunse Giuseppe Antonio Borgese, che era all’estero e rientrato in Italia non piegò la schiena al ricatto del governo fascista, e nel 1934, l’ultimo e il più giovane di tutti, Leone Ginzburg, la cui luminosa vita si spense nelle carceri delle camicie nere, che furono tomba anche di Antonio Gramsci, che non fu docente, ma di sicuro grande maestro. Salvemini nelle sue Memorie erroneamente inserisce nell’elenco, rallegrandosene, un vecchio amico e compagno di tante battaglie “unitarie”: il docente di scienze delle finanze A. De Viti De Marco, mentre rimase amareggiato di non trovare nella lista degli intransigenti P. Calamendrei, insigne giurista e collega d’università.
Calamandrei, per sottrarsi al giuramento, utilizzò un espediente, utile per non incorrere nelle sanzioni vessatorie e punitive del provvedimento: avendo maturato i vent’anni d’insegnamento, si congedò. Altri lasciarono la cattedra per anzianità e andarono in pensione, evitando di macchiare, in prossimità della fine, tutta una vita e un’intera carriera all’insegna della serietà e dell’integrità morale, come scelse di fare V. E. Orlando. Tirando le somme, dalle statistiche risulta che solo l’un per cento degli insegnanti (12 su 1200) del corpo docente non giurò. Ma si sa, direbbe Salvemini, che “la statistica è il colmo della bugia”. Infatti questo dato “brutale” preso a sé, oltre a non dire molto, rischia di essere fuorviante e di travisare la realtà delle cose, perciò merita specificazioni, distinzioni e ulteriori chiarimenti.18
Tra l’altro, in quest’occasione gli vennero tolti la cittadinanza italiana e confiscati i beni, e iniziò a essere particolarmente bersagliato dai giornali fascisti (alcuni dal nome non propriamente rassicurante, anzi sinistramente evocativo e che non lasciavano presagire nulla di buono all’orizzonte, come Il Torchio, L’Impero, Battaglie fasciste), che lo additarono a modello dell’antitaliano per eccellenza. Quei giornali, partendo dalle calunnie, si spinsero alle minacce e all’esortazione dell’assassinio politico, come azione purificatrice verso elementi “degenerati e sovversivi”.
Quando nel 1932, nel commemorare il decennale della Marcia su Roma, Mussolini concesse un’amnistia, che fu prontamente ripresa e celebrata dai giornali di mezzo mondo come atto esemplare di clemenza e magnanimità, Salvemini, che ne era tra i beneficiari, oltre a nutrire fondati dubbi sulla serietà del provvedimento, nel corso di un’intervista affermò: “L’amnistia mi ridà la cittadinanza. Non ne ho bisogno. Io mi sono sempre sentito italiano. Mussolini non può né impedirmi né consentirmi di essere italiano. Può confiscare la mia proprietà non la mia anima”.19
Salvemini rivendica la sua indipendenza rispetto al regime almeno sul piano spirituale, poiché, se lo costringeva a star lontano dall’Italia non poteva di certo impedirgli di sentirsi italiano in qualunque altra parte del mondo.
Dalla Francia, in cui, fra l’altro, fece più volte ritorno, l’odissea di Salvemini, “ebreo errante dell’antifascismo”, proseguì attraverso l’Inghilterra e gli Stati Uniti e in ogni paese in cui giungeva fece opera di sensibilizzazione e di proselitismo.
Egli si considerò “fuoriuscito”. Preferiva questo termine, infamante nel lessico fascista, a quelli di esule o rifugiato, perché vi riconosceva una maggiore disposizione a continuare la resistenza anche se fuori dei confini nazionali, mentre dagli altri due traspariva un senso di rinuncia e vittimismo, del tutto alieno al suo spirito intrepido. Il suo primo fronte di lotta divennero gli scritti, intensificò gli attacchi contro il regime attraverso conferenze e articoli di giornali, ma l’azione principale che svolse, in questi anni, contro il regime furono la composizione delle sue opere storiografiche sul fascismo.
La carriera di conferenziere che intraprese fu brillante e fortunata, sia per le sue straordinarie doti di polemista e la qualità della sua invettiva, sia perché all’estero c’era molto interesse sul fenomeno fascista e c’era curiosità di ascoltare “l’altra campana”, quella dissidente e non ufficiale. Essa gli permise di guadagnarsi il pane con “il sudore della lingua”, scansando i morsi della fame.
Tuttavia la risoluzione del problema alimentare non era l’unica sua preoccupazione.
Il bisogno impellente e pressante di testimoniare e denunciare i misfatti del regime era pari a quello vitale di mangiare; raccontare i crimini fascisti divenne la sua inesauribile missione: il compito che la vita gli aveva imposto.
Cercava quindi di contrastare, in tutti i modi che gli erano possibili, l’imponente apparato propagandistico messo in piedi da Mussolini, che mieteva successi e faceva proseliti dappertutto, anche tra i paesi liberali e soprattutto fra le classi colte.
Infatti riconoscendo a Mussolini una strabiliante e incomparabile abilità nell’ingannare, nel fingere, nel simulare e dissimulare, Salvemini disse: “Fuori d’Italia non poteva rompere le teste. Doveva conquistarle. E ne conquistò un gran numero, se non tutte. In questo campo Hitler non può essere paragonato neppure a una scarpa vecchia di Mussolini”.20
In realtà Hitler e Goebbels, il ministro della propaganda nazista, tentarono di occultare e negare (i primi “negazionisti” furono i carnefici nazisti) un crimine immondo e gigantesco come la Shoah. Restano maestri ineguagliati in questo campo, pur essendo andati a scuola da Mussolini in principio.
E a proposito della sua uscita fuori dai confini nazionali scrisse: “Io non me ne ero andato fuori d’Italia per cantare Giovinezza, giovinezza”. Piuttosto, era divenuto un fuoriuscito per far conoscere all’estero “di che lagrime e di che sangue grondava la dittatura fascista in Italia”.21
Il suo strenuo impegno nella lotta antifascista trovava stimolo, incitamento e forza dal pensiero di coloro, tra cui molti suoi amici, che resistevano alla dittatura e finivano in galera o al confino.
Memorabili furono gli scontri, sostenuti in Inghilterra, con il grande commediografo irlandese G. B. Shaw, di idee socialiste. Questi, rapito dalla propaganda, simpatizzava per il fascismo, che affiancava al bolscevismo in funzione antiborghese e anticapitalista, prescindendo da qualunque considerazione sugli aspetti illiberali e antidemocratici del regime.
D’altronde non era il solo. Oltremanica Mussolini ebbe tra i suoi maggiori estimatori un certo W. Churchill, che non era né commediografo né, tantomeno, socialista (ciò dimostra una reale incomprensione sulla natura del fascismo nella sua globalità, da cui scaturiva il favore e il consenso di gran parte del ceto intellettuale e della classe politica nella generalità delle suoi colori, anglosassone e non solo, che osservava il fenomeno con lenti deformate dall’ideologia) e che non mancava occasione per celebrare l’altezza d’ingegno e la statura politica del Duce, che aveva tra i suoi meriti imperituri l’aver impedito che l’orda bolscevica conquistasse l’Italia per poi propagarsi in tutta Europa.
Tuttavia la controversia più aspra l’ingaggiò con il figlio del suo amatissimo maestro Pasquale Villari, Luigi Villari, diventato agente della propaganda fascista, incaricato d’illustrare e diffondere la leggenda dei “miracoli” realizzati dal “Salvatore” Mussolini, colui che, inviato dalla Provvidenza, solo, era riuscito nell’impresa di far arrivare, in Italia, i treni in orario e di convincere gli italiani (zozzi e riluttanti all’igiene personale) a lavarsi, fornendo loro le dovute “istruzioni”.
Dopo che furono appianati i contrasti con la Chiesa, con i Patti Lateranensi del 1929, crebbe il provvidenzialismo e il messianesimo che aleggiavano intorno alla figura di Mussolini, perché Pio XI non esitò a definirlo come l’uomo “che la Provvidenza ci ha fatto incontrare”.22
Confesserà di essersi sentito impotente e disarmato più volte davanti alle frottole di quello scellerato, dalla fantasia fervida e sconfinata, che sfornava bugie a getto continuo, non avendo assilli e premura di documentare e accertare le sue fandonie.
Al vantaggio della semplicità e facilità di costruzione, si aggiunge la rapidità di propagazione della menzogna, rispetto alla lentezza e alla complessità della ricerca della verità, che è una peste che si diffonde a macchia d’olio fulmineamente.
Gli inglesi dicono, scrive lo storico, “che il tempo necessario alla verità per allacciarsi le scarpe, basta alla bugia per fare il giro del mondo”.23
Sulla differenza, le difficoltà e la complessità del rinvenimento della verità accertata e documentata e la bugia inventata di sana pianta, Salvemini dirà: “So di un diplomatico, il quale vuole farsi beffa di chi sciupa mesi a provare un piccolo fatto. ‘La verità’, dice, ‘si fabbrica, non si cerca’. Anche Hitler insegnò che più grossa è la bugia, più facilmente è creduta. Il guaio per le verità fabbricate è che, mentre è facile fabbricarle prima o poi mostrano la corda, contraddicendosi: perché sono difficili da amministrare. Invece la verità cercata a fatica rimane sempre la stessa e perciò è facile da amministrare”.24 Salvemini protestava indignato, ovunque si trovasse, di fronte alle menzogne e alle falsità degli oratori fascisti, che umiliavano, disonoravano e screditavano impunemente il popolo italiano agli occhi del mondo, poiché esso veniva descritto come un’accozzaglia di idioti e di bruti; inetta a governarsi da sé; che non aveva voglia di lavorare e quindi rubava; che aveva avuto bisogno di un padrone per imparare a scrivere, a leggere e a fare il bagno; ma per fortuna l’intervento dell’Uomo della Provvidenza, che aveva sempre ragione, aveva reso civile e docile quel popolo, sottoponendolo “alla cura del bastone e dell’olio di ricino” lo sollevò dall’anarchia in cui viveva e lo salvò da imminente rovina.
A quest’infamia Salvemini rispondeva che “I fascisti per sollevare su un piedistallo di falsa gloria un uomo solo, gettavano fango sulla nazione intera a cui appartenevano”.25
In definitiva Salvemini cercò di smascherare le menzogne e svelare gli inganni del regime; fece opera di demistificazione contro le falsificazioni, esagerazioni e invenzioni della propaganda fascista per riabilitare il buon nome del popolo italiano all’estero, così tanto maltrattato dagli strilloni del fascismo.
La sua voleva essere un’azione di verità basata su informazioni onestamente accertate, per portare a conoscenza il pubblico straniero della sofferenza di un paese, privato della propria libertà dalla tirannide fascista.
Per smontare e confutare le tesi dei fascisti, Salvemini, giocava d’astuzia, cercava di impiegare fonti ufficiali, se possibile gli stessi discorsi di Mussolini, a discapito di quelle antifasciste screditate e stritolate dalla straripante e strapotente propaganda fascista, che su di essa adombrava il sospetto di faziosità e accusava di sgambetti, di falsità, tranelli, di menzogne, bugie e varie scorrettezze, per dimostrare le loro intime contraddizioni e distruggerne dalle fondamenta la credibilità.
Voleva che il tiranno incontrastato si tradisse da sé, con le sue stesse mani, scoprendo le vere trame dei suoi inganni.
Traeva la maggior parte delle informazioni che gli servivano nelle conferenze dal confronto tra i giornali, che riusciva a reperire in casa di amici fuoriusciti e in biblioteche all’estero oppure che gli venivano spedite, sotto falso nome, da amici coraggiosi rimasti a dar prova di “non mollare” in patria, cercando di scorgervi tra le righe spiragli di verità: “Dopo tutto cos’è una bugia? Solo una verità in maschera” osservava G. Byron, altro “romantico” amante della libertà e difensore dei popoli oppressi.
L’utilizzo dei giornali non era circoscritto alla sola attività pubblicistica, ma furono documenti importanti per realizzare le sue opere storiografiche.
I giornali, erano da sempre scarsamente o per nulla considerati dagli studiosi, che tendevano nel loro lavoro a scartarli per principio come fonti inattendibili e poco credibili.
Per Salvemini invece anche dalle mele marce (“ogni sterpo fa fuoco per chi va in cerca di testimonianze storiche e non di perle letterarie”) era possibile trarre qualcosa di buono e afferma: “La stampa quotidiana è poco o niente utile come fonte storica diretta. Ma può servire come prezioso strumento d’informazione, se usata come fonte indiretta. Il quotidiano non dà la verità degli eventi, ma permette d’indovinare ciò che gli uomini, che governano il quotidiano, vogliono far credere sugli eventi: in altre parole quali sono gli interessi, le intenzioni, le illusioni, le speranze di quegli uomini”.26
La verità delle notizie che si può ottenere interrogando un giornale non si situa sul piano immediato degli eventi che narra. Se gli credessimo ciecamente e acriticamente rischieremmo di essere ingannati e truffati. La verità si situa invece su un piano diverso, quello delle intenzioni, degli scopi, degli interessi di chi scrive il falso, una volta riconosciuto come tale.
Quindi, ridefinendo lo statuto e rivalutando l’impiego di questo tipo di fonte in storiografia, Salvemini amplia e apre il concetto di fonte fino ad accogliere ciò che in precedenza era considerato “falso” come oggetto di analisi e studio.
Salvemini rivaluta anche la fonte narrativa del diario, tenuta in gran sospetto dalla storiografia positivista, che si affidava ai “neutrali” documenti d’archivio mentre reputava scarsamente attendibili le “parziali” fonti narrative, intrise di soggettività. Tra queste il diario era, senz’ombra di dubbio, la forma di gran lunga peggiore. Ad esempio, recensendo il diario di E. Caviglia, Salvemini osservava come il diario, poco utile nella ricostruzione degli avvenimenti, possa essere fonte preziosa per comprendere gli effetti, le reazioni, le percezioni degli avvenimenti su un individuo: “Il suo diario riesce interessante per farci conoscere i riflessi che gli avvenimenti della politica interna ed estera italiana avevano nello spirito di quello spettatore, più che gli avvenimenti stessi”.27 Sul crinale del 1922 cominciò a scriverne uno anche lui, deluso dalla politica attiva e militante, in una fase di acuto pessimismo e scoraggiamento, nella quale si faceva largo, un proposito insolito, per un combattente della sua tempra: quello di abbandonare qualunque impegno pubblico e di rifugiarsi nella privatezza della scrittura, però con la speranza, non tanto velata, che l’ozio consolatorio e dilettevole di oggi, a cui lo costringono i tempi e l’umore, possa domani trasformarsi in utile materiale per la conoscenza storica di quei tempi. Funzione storica che ha, indirettamente e a lungo andare, sempre e comunque, una funzione politica: “Chissà che queste pagine – destinate a rimanere ignote a tutti, meno forse ad una persona sola – non mi offrano tra una decina d’anni, se sarò ancora vivo, gli elementi per una storia contemporanea vissuta giorno per giorno da un uomo, che per cultura storica, per la pratica politica, e – posso dirlo – per il disinteresse personale, si trova in grado di essere un osservatore non volgare”.28
Lo storico deve procedere con cautela nella sua indagine, cercando di sfruttare con acume e intelligenza ogni potenzialità racchiusa in un documento, come se fosse una miniera d’oro inesauribile o una cornucopia produttrice di ogni bene, e per far questo, a volte, bisogna saper leggere tra le righe e, soprattutto contro i falsari e i bari, giocare d’astuzia, impiegando il cervello per prenderli in scacco, sorprendendoli con domande inaspettate e indiscrete, e così imbarazzanti da metterne a nudo il trucco e l’artificio: un po’ come quei bambini impudenti, che mal riuscendo a tenere a freno la loro irresistibile curiosità, spesso con le loro domande ci mettono alle corde, proprio come accade nella fiaba di Andersen, quando un fanciullo osa dire quello che non si può dire, ossia che “il re è nudo”, scuotendo le nostre comode convenzioni, smascherando le nostre ipocrisie nascoste e i tabù sociali, che pensiamo, con candore maturo, non appartenerci.
Come poc’anzi accennato, i giornali furono fonti di primaria importanza – data l’impossibilità di consultare gli archivi – per realizzare le sue opere sul fascismo.
Ciò nonostante bisogna ravvisare in queste opere un carattere, a volte, eccessivamente e volutamente polemico, tale da porle sopra un terreno minato, fra storiografia e politica.
A Salvemini va comunque il merito di essere stato il primo storico antifascista.
Le tre opere antifasciste attaccarono, nell’arco di un decennio, ognuna un determinato aspetto del regime: la prima di esse è La dittatura fascista in Italia, edita nel 1927 e già nel 1928 rivista e corretta da cima a fondo. Si occupava della politica interna del regime; seguì Mussolini diplomatico, edita nel 1932 e rifatta, con poche correzioni, nel 1952. Essa trattava della politica estera. Infine uscì Sotto la scure del fascismo, edita nel 1936 e rimasta inalterata, dedicata alla politica economica.
C’è un simpatico aneddoto, una burla, riguardante Mussolini diplomatico: una copia fu spedita da Salvemini a Mussolini in atto di sfida e di scherno, in “omaggio di ammirazione e di gratitudine” per il suo “collaboratore invincibile ed inesauribile”.29
Sul piano dell’azione pratica, Salvemini partecipò in vario modo al movimento antifascista.
In Inghilterra fu tra i promotori di un’associazione, i “Friends of Italian Freedom”, che pubblicava opuscoli contro il regime.
Aderì alla Concentrazione antifascista, costituita nel 1927, a Parigi e divenuta il centro più importante dell’antifascismo all’estero.
Fino ad allora gli esuli antifascisti in Francia si erano raccolti nella Lega italiana dei diritti dell’uomo, ma con l’ondata sopraggiunta dopo l’instaurazione del Tribunale speciale e del confino riuscirono a costituirsi su basi ristrette i vecchi partiti e la Cgl, che insieme alla Lega italiana dei diritti dell’uomo confluirono in questa nuova organizzazione.
Alla Concentrazione non aderivano i comunisti, che andavano per conto loro, erano un mondo a sé, che agiva secondo logiche proprie, in vista della creazione di una società senza classi.
Secondo Salvemini i comunisti erano piuttosto manichei, non conoscevano le mezze misure: o si stava con loro, o contro di loro.
Soltanto nel corso degli anni 30 i comunisti cambiarono strategia, promuovendo “i fronti popolari” contro il comune nemico fascista.
Nel 1929 fu tra i fondatori, sempre a Parigi, con Carlo Rosselli, Lussu, Tarchiani e Cianca, del movimento “Giustizia e Libertà”.
Questo movimento intendeva colmare le lacune dell’azione della Concentrazione, che era troppo indirizzata verso la propaganda all’estero, con scarsi rapporti con l’Italia. Essa era poco propensa alla propaganda repubblicana, per non indispettire il re, verso cui si nutrivano ancora scoperte speranze d’intervento contro Mussolini.
Infatti la nuova organizzazione considerava indispensabile non rinunciare alla propaganda.
Gli obiettivi che si proponeva, attraverso una resistenza attiva contro la dittatura da parte di uomini di qualunque appartenenza politica, a patto che accettassero il metodo della libertà, erano di ripristinare le libertà soppresse, l’instaurazione della repubblica e una maggior equità sociale.
Giustizia e Libertà non era un partito, voleva essere un’organizzazione provvisoria, temporanea; non intendeva sostituirsi ai vecchi partiti, né propose la loro fusione in un solo partito e meno che mai aveva intenzione di ipotecare il futuro del popolo italiano, che doveva essere scelto da esso stesso una volta caduto il regime: dopo lo scioglimento di Giustizia e Libertà, i partiti avrebbero ritrovato la propria libertà d’azione, richiamando a loro tutti quelli che, pur non avendo combattuto, in un regime libero avrebbero partecipato all’attività politica, e in un regime libero e di suffragio universale “chi ha più filo farà più tela”, cioè i migliori prevarranno.
Non si voleva sostituire una dittatura con un’altra di segno inverso: la minoranza, che promuove un movimento rivoluzionario per ristabilire la democrazia, deve lasciar spazio a un regime di libertà per tutti se non vuole tradire i principi per cui combatte: Cincinnato docet!30
oleva intraprendere una forma rivoluzionaria di lotta antifascista, ma non terroristica (più volte i capi dell’organizzazione dichiararono risolutamente che il terrorismo non rientrava nelle loro strategie di lotta e sconsigliarono ogni iniziativa che potesse mettere in pericolo vite innocenti), di contro a quella impiegata dai partiti tradizionali (esclusi i comunisti) volta a un sostanziale legalismo e alla moralistica denuncia del regime, che si era dimostrato del tutto inadeguato di fronte a un regime che non rispettava né leggi né principi morali.
Si trattava di creare un movimento clandestino in Italia, che avrebbe dovuto distribuire giornali e fogli informativi contro il regime e formare l’avanguardia pronta ad agire, mettendosi alla testa di una rivoluzione, che avrebbe approfittato del momento in cui il regime fosse entrato in crisi, sotto la pressione di eventi interni o esterni.
Nel giustificare l’utilizzo di metodi rivoluzionari, Salvemini si richiama al diritto di resistenza dei popoli contro i tiranni, elaborato dai giusnaturalisti e dalla tradizione liberale tra Paesi Bassi e Gran Bretagna, all’alba dell’epoca moderna: “Sotto un regime libero l’uso della violenza rivoluzionaria è immorale prima di essere illegale. Esso è il delitto commesso contro la maggioranza da una minoranza che si sente incapace a convincere la maggioranza coi metodi della persuasione pacifica. Ma sotto una dittatura l’uso della violenza rivoluzionaria è moralmente un diritto e un dovere, perché la dittatura è un regime di violenza, in cui il partito al potere distrugge ogni opposizione con ogni mezzo lecito o illecito, e la sola via che rimane aperta all’opposizione nella lotta per l’esistenza è di combattere la forza del governo con la forza rivoluzionaria. La rivoluzione è una terribile cosa. Ma sotto una dittatura la responsabilità della rivoluzione cade su chi ha soppresso le libertà dei suoi concittadini, non su chi difende quelle libertà o cerca di riconquistarle”.31
Nel pensiero politico di Salvemini, com’è stato rilevato, le minoranze e le elite giocano un ruolo di primo piano e in particolare le avanguardie sono indispensabili, conditio sine qua non nella sua “teoria generale della rivoluzione”: “Una rivoluzione non scoppia a comando. È necessario che vaste moltitudini siano agitate da intense correnti di irrequietezza. Ma il malcontento non produce da sé solo rivoluzione o risulta in una rivoluzione abortita, se non esiste nel paese una avanguardia aggressiva, deliberata a mettersi a capo delle moltitudini inquiete e dirigerle all’assalto dell’antico regime.[…] Una avanguardia rivoluzionaria non basta a provocare una rivoluzione, ma nessuna rivoluzione è possibile se non esiste un’avanguardia rivoluzionaria deliberata a scatenarla”.32
Nelle pubblicazioni di Giustizia e Libertà è più volte ripetuto l’adagio che stomaci affamati non bastano a fare rivoluzioni: “L’uomo che ha vuoto lo stomaco di pane, e vuota la testa di idee, non solleva il pugno per rivendicare i suoi diritti, ma stende la mano per domandare l’elemosina”.33
Inoltre Giustizia e Libertà intendeva proporsi come alternativa democratica alle Termopoli totalitarie del fascismo e del comunismo e, promuovendo un’azione di tipo rivoluzionario contro il regime, si sarebbe garantita l’appoggio dei giovani determinati a combattere il fascismo, che erano insoddisfatti dell’inerzia dei partiti tradizionali. Essi, desiderosi di un’azione più efficace contro il regime, ingrossavano le file dei comunisti.
Già da ora si affaccia alla sua mente l’idea della “terza via” per uscire dal dilemma totalitario comunismo o fascismo e per difendere i principi e le istituzioni democratiche.
Con ciò avvalora anche la tesi di Pavone, di un conflitto “interno” alla resistenza, in cui le formazioni GL furono cospicue e folte, tra differenti e contrastanti “visioni del mondo”.
Durante la Resistenza gli aderenti a Giustizia e Libertà e i comunisti furono uniti e alleati per liberare l’Italia infestata dal nazifascismo e divisi e in competizione tra loro per darle un progetto per il futuro.
Con una splendida analogia, Salvemini illustra le speranze riposte in Giustizia e Libertà, i cui militanti erano seminatori nella tempesta degli ideali espressi nel nome stesso della loro organizzazione nella speranza di poterne raccogliere un domani i frutti, ma senza semina non c’è mietitura, mai: “Chi può dire fin dove arriverà e quanto fruttificherà un seme abbandonato al vento? Le idee sono come i semi: dopo esser rimasti per anni ed anni allo stato di incubazione, ad un tratto si diffondono con rapidità fulminea. Quel che importa è che esse rimangono attive nella mente di qualcuno”.34
Onorando la memoria e il sacrificio di un adorato membro della sua “famiglia”, Nello Rosselli, ne ricorda l’epigrafe di chiusura al libro su Pisacane, martire d’idee giuste in tempi sbagliati, che nel tentativo generoso, ma infruttuoso, piantò un seme che non andò comunque perduto: “Il viandante ansioso di varcare il torrente, getta pietre una sull’altra nel profondo dell’acqua, poi posa il piede sicuro sulle ultime che affiorano, perché sa che quelle scomparse nel gorgo ne sosterranno il suo piede”.35
Infine negli USA fondò, insieme a G. La Piana, M. Ascoli, G. A. Borgese e L. Venturi, la Mazzini Society, che aveva tra i suoi scopi la propaganda antifascista specie con gli immigrati italiani, la demistificazione delle menzogne fasciste e il richiamo alla necessità che dal crollo del regime nascesse una repubblica democratica.
In America Salvemini contribuì, con la sua azione contro-propagandistica, in misura più che notevole al fatto che la maggioranza dei gruppi intellettuali americani sia rimasta sempre ostile al fascismo.
Salvemini si era trasferito definitivamente negli USA nel 1934, quando gli fu assegnata la cattedra di storia della civiltà italiana, intitolata alla memoria di Lauro De Bosis, morto a seguito di un’azione propagandista contro il regime, in cui, sorvolando il cielo di Roma con un piccolo volivolo, lanciava volantini in cui esortava il re e il popolo alla rivolta, che era stata istituita ad Harvard grazie a una generosa donazione della facoltosa fidanzata.
Già Salvemini aveva tenuto corsi universitari semestrali in prestigiose università americane come Yale, la stessa Harvard e alla New School for Social Research di New York, ma allora gli veniva offerta una cattedra stabile nella principale università americana e questo non poteva di certo rallegrare il Duce, che tentò in vari modi di impedirlo, giungendo ad accusarlo falsamente, tramite il filofascista “New York Times”, di complicità in un attentato a piazza San Pietro.
Una volta che Salvemini, lo storico, sfidò Mussolini a fornire le prove di quanto affermato e propalato, tutto si risolse in una gigantesca bolla di sapone.
Caduto il regime fascista, Salvemini si batté per la formazione di una repubblica democratica in Italia (le monarchie vivono di prestigio e quella sabauda si era troppo screditata). Egli si poneva contro l’azione dei governi di Londra e Washington, volta a conservare la monarchia, retta non più da Vittorio Emanuele III, compromesso fino al collo con il regime, ma dal figlio Umberto I: “Ciò che il British Foreign Office e il Dipartimento di Stato americano vogliono mettere su in Italia è un regime fascista senza Mussolini, al posto del regime fascista con Mussolini”.36
Chiedeva inoltre che fossero sciolte e distinte le responsabilità della dittatura da quelle del popolo italiano e che non ricadessero su questo i crimini e i danni incalcolabili provocati da quello.
Scampato per il rotto della cuffia il rischio monarchico con la vittoria di misura della repubblica nel referendum istituzionale del 1946, il pericolo non svanì. Il rischio di una sostanziale continuità con i quadri fascisti, infatti, non proveniva solo dalla monarchia (il ministro della giustizia della Repubblica italiana, il comunista P. Togliatti, decise l’amnistia per 40.000 reduci di Salò). Così pensava Salvemini: “L’epurazione fu una burla e la magistratura, i carabinieri, la polizia, l’intero apparato dello Stato, tutto fu ricostruito all’insegna della più totale continuità con lo Stato fascista. Ancora nel 1960, su 62 questori, ben 60 erano entrati in polizia durante il ventennio. Insomma, per tutti gli anni cinquanta i “vinti” sembravano più i partigiani che i fascisti”.37
Da una mancata Norimberga, da un’amnistia quasi totale, da un’epurazione all’acqua di rose, si uscì, con quella, che egli definì, con gusto sarcastico e polemico, una “repubblica dei preti”, ravvisando in quest’espressione il sopravvento di Cristo nelle cose di Cesare, l’inammissibile ingerenza del Vaticano nella res pubblica.
La repubblica dei preti fu impegnata fin dal suo primo vagito in una “guerra santa” con i paladini dell’altra “chiesa totalitaria”, i comunisti, mentre i partiti di ispirazione liberal-social-democratica arrancavano, non riuscendo a far breccia nell’elettorato.
Frustrazione, rammarico e delusione riverberano nelle parole del partigiano e scrittore Nuto Revelli: “Risalivo le valli a parlare di monarchia e repubblica, a portare il discorso nuovo del partito d’azione. Ma incontravo solo indifferenza e paura […] il primo confronto elettorale mi disse che il mondo contadino era proprio incapace di una scelta libera, autonoma: il voto diventò subito un tributo da pagare ai parroci, ai capimafia, ai padroni”.38
Amaramente, lo storico De Luna commenta: “I partigiani che avevano affollato quelle stesse valli erano spariti, di colpo, trasformandosi in elettori; i partiti dei fucili si erano dissolti, ingoiati dai partiti delle tessere”.39
Dulcis in fundo, il fascismo era sopravvissuto ai fascisti.
Chi aveva sparato sui monti e sperato in un nuovo mondo, in un cambiamento profondo della società italiana fu scalzato dai politicanti di mestiere, attendisti senza colpo ferire e opportunisti di professione che, come “gattopardi”, aspettavano che la notte di tormenta passasse per uscire allo scoperto e potersi “sistemare” o, per “quegli altri”, di potersi riciclare impunemente, senza pagar dazio per le colpe prontamente seppellite nella sabbia della “pacificazione nazionale”, in nome della concordia senza un briciolo di giustizia.
Sfilavano “quegli altri” sotto nuove bandiere dopo essersi sfilate opportunamente le camicie nere, sfoggiate un tempo orgogliosamente per le parate a braccio teso sotto le scure del fascio, per salire in groppa al carro dei vincitori, dopo aver rosicchiato ossi e leccato stivali sotto il tavolo del banchetto imbandito da Mussolini.
Era cambiata la forma di Stato, dalla monarchia si era passati alla repubblica; era cambiato “il sovrano”, dal “Duce” di fatto, condottiero del popolo, si era passati all’autogoverno del popolo, ma molto nella società e nella cultura degli italiani rimaneva inalterato e restava ostinatamente impermeabile a qualunque forma di cambiamento.

Note

  1. G. Salvemini, Scritti vari,Feltrinelli, Milano, 1978, p. 662.
  2. Ivi, p. 583.
  3. Ivi, p. 663.
  4. Ivi, p. 661.
  5. Ivi, p. 583.
  6. Ivi, p. 659-660.
  7. N. Ferrero Raditza, Gli anni di Leo, in L. Ferrero, Il muro trasparente, Milano, Libri Scheiweller, 1984, p. 10.
  8. G. Salvemini, Scritti vari, cit., pp. 608-609.
  9. Ivi, p. 614.
  10. M. L. Salvadori, Gaetano Salvemini, cit., p. 28.
  11. Del titanismo di Mussolini si è detto e scritto abbastanza. Invece a definire Salvemini un sileno, paragonandolo a Socrate è Ernesto Rossi: “Salvemini, come Socrate somigliava a un vecchio sileno: cranio grande, modellato con vigore; fronte ampia, resa più vasta dalle calvizie; occhi piccoli, in cui si leggeva la bontà e l’intelligenza; naso camuso; zigomi pronunciati; bocca ampia, che nel sorriso scopriva una gran chiostra di denti sopra la barba a punta; spalle larghe; figura tozza; passo pesante. Un uomo che veniva dai campi, non dai salotti letterari. E, come Socrate, chi l’apriva trovava dentro i più preziosi simulacri degli dei. E. Rossi, Il non conformista, Il Mondo, 17 settembre 1957.
  12. G. Salvemini, Scritti vari, cit., p. 586.
  13. H. Stuart Hughes, Da sponda a sponda. L’emigrazione degli intellettuali europei e lo studio della società contemporanea (1930-1965), Bologna, Il Mulino, 1975, p. 119.
  14. G. Salvemini, Il “Non mollare”, in “Non mollare”, Firenze, 1955, p. 3.
  15. E. Tagliacozzo, Nota biografica, in AA.VV., Gaetano Salvemini, Bari, Laterza, 1959, p. 250.
  16. G. Salvemini, Scritti vari, cit., p. 596.
  17. Ivi, p. 596.
  18. Si rinvia per un approfondimento a due accurati studi sul giuramento fascista e “l’opposizione dei professori”, che sono H. Goetz, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime, La Nuova Italia, Firenze, 2000; G. Boatti, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Einaudi, Torino, 2001.
  19. G. Salvemini, Scritti vari, cit., p. 655.
  20. G. Salvemini, Mussolini diplomatico, Laterza, Bari, 1952, p. 273.
  21. G. Salvemini, Scritti vari, cit., pp. 600 e 624.
  22. F. Chabod, L’Italia contemporanea, Einaudi, Torino, 1961, p. 83.
  23. G. Salvemini, Scritti vari, cit., p. 623.
  24. Ivi, p. 50.
  25. Ivi, p. 624.
  26. G. Salvemini, Mussolini diplomatico, cit., p. 12.
  27. G. Salvemini, Scritti vari, cit., p. 283.
  28. G. Salvemini, Memorie e soliloqui, a cura di R. Pertici, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 23-24.
  29. G. Salvemini, Scritti vari, cit., p. 265.
  30. La dottrina di GL su questo punto non fa altro che ricalcare la dottrina di Mazzini: “Secondo il Mazzini, il governo provvisorio sorto da una rivoluzione democratica, non può domandare in precedenza una regolare investitura ad alcuna maggioranza legalmente costituita, ma deve considerare come uno dei suoi doveri fondamentali quello di far posto a un regime di libertà per tutti i cittadini non appena l’impalcatura del regime dispotico sia rasa al suolo e i suoi sostenitori [siano ??] ridotti all’impotenza”. G. Salvemini, Scritti vari, cit., p. 695.
  31. G. Salvemini, Scritti vari, cit., pp. 693-694.
  32. Ivi, p. 694.
  33. Ibidem. Ma il pane viene prima delle idee, sebbene il pane non basta da solo a vivere, anzi è nulla se non attiva le idee, se non fa da carburante: “Chi in vita sua ha avuto sempre il pane sicuro, fa presto a dire che di non solo pane vive l’uomo. Questo è vero, ma senza pane non si vive. Il pane dello stomaco non è niente, se nella testa non c’è nulla che trasformi quella forza motrice. Ma quella forza motrice è indispensabile”. G. Salvemini, Sritti vari (1900-1957), cit., p. 45.
  34. G. Salvemini, Scritti vari, cit., p. 697.
  35. Ivi, p. 727.
  36. G. Salvemini, What to do with Italy, Gollancz, London, 1943, p. 27.
  37. G. De Luna, La passione e la ragione, Bruno Mondadori, Milano, 2004, p. 88. Salvemini, nelle sue Memorie scrive: “l’Italia postfascista rimase su per giù quella che era stata l’Italia fascista: fu un miracolo se furono mandati in soffitta prima Vittorio Emanuele III e poi il suo figliolo”. G. Salvemini, Scritti vari, cit., p. 631.
  38. Citato in G. De Luna, Il senso di una celebrazione.
  39. Ibidem.

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2013 Pierpaolo Lauria