Bibliomanie

I sogni inquieti di Franz Kafka. Intorno a La Metamorfosi
di , numero 32, gennaio/aprile 2013, Saggi e Studi,

Come citare questo articolo:
Magda Indiveri, I sogni inquieti di Franz Kafka. Intorno a La Metamorfosi, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 32, no. 1, gennaio/aprile 2013



«Si tratta di dare alle parole, più o meno,
l’importanza che hanno nei sogni.»
A. Artaud


1) Una piccolo, spaventoso racconto notturno

Non dai preziosi Diari, che sono lacunosi proprio alla fine del 1912, ma dalla corrispondenza con la fidanzata Félice abbiamo la cronaca precisa della stesura de La metamorfosi, Die Verwandlung, che occupò una ventina di giorni di scrittura travagliata, dal 17 novembre al 7 dicembre, e rappresentò il secondo racconto lungo e compiuto prodotto da Franz Kafka ventinovenne.
Un raccontino, così lo definisce l’autore, che sbuca fuori in giornate vorticose per nervosismo, ansia, oppressione. Kafka ha conosciuto da pochissimo Félice, si è aperto tra loro un epistolario sentimentale, ma le lettere si susseguono, si rincorrono o latitano in una ossessione amorosa che già è segno di un rapporto non equilibrato: «Oggi, probabilmente scriverò ancora, anche se dovrò andare molto in giro e scrivere un breve racconto che mi è venuto in mente a letto nella mia pena, e incalza dentro di me» (17 novembre)
«Mi sono riaccostato al mio racconto di ieri con un infinito desiderio di espandermi, chiaramente pungolato dalla sconforto – le scrive il giorno dopo – […] con l’ardente desiderio di continuare il nuovo racconto anch’esso insistente, da alcuni giorni e notti pericolosamente vicino a una completa insonnia […]».(18 novembre)
Periodo fervidissimo dal punto di vista letterario, l’ ultimo quadrimestre del 1912, perché in contemporanea Kafka porta avanti i capitoli del romanzo Il fochista, scrive in una sola notte il racconto La condanna ed elabora questa piccola storia spaventosa. Gli amici ne sono a conoscenza, Max Brod è compiaciuto e ne scrive a Fèlice. E Franz rende partecipe passo passo del suo lavoro la fidanzata.
«È notte, molto tardi, ho messo da parte il mio raccontino al quale veramente non ho più lavorato da due sere; nel silenzio comincia ad aumentare e a diventare un racconto lungo.[…] Sarebbe bello leggerti questo racconto ed essere intanto costretto a tenerti una mano, perché la storia è un po’ paurosa. E’ intitolata Metamorfosi, ti incuterebbe molta paura.[…] oggi anche al protagonista del mio raccontino è andata troppo male, eppure è soltanto l’ultimo gradino della sua disgrazia che ora non avrà più fine» (23 novembre)
Di notte, dunque, secondo uno schema che diventa in Kafka metodo, e anzi stile di vita. «Avessi la notte libera per continuare a scrivere, senza deporre la penna, fino al mattino! Sarebbe una bella notte» e anche «Lascia che di notte scriva io…» ingiunge a Fèlice, e le trascrive una poesia cinese molto amata, di Jan-Tsen- Tsai, che recita: “Nella notte fredda, curvo sul libro,/ho dimenticato l’ora di andare a letto/”. Di notte, quasi per tutta la notte:
«Ora è già arrivato un pezzo oltre la metà e io in complesso non ne sono insoddisfatto, ma è nauseante oltre ogni limite… certo ci sono ancora in me molte cose da eliminare e le notti non possono essere lunghe abbastanza per questo lavoro che d’altronde è estremamente voluttuoso.».(24 novembre)
Coscienza del piacere della scrittura! che purtroppo non ammette soste. Kafka arriva a teorizzare che un racconto come quello andasse scritto in «due volte dieci ore», con al massimo una interruzione. Ma «io non dispongo di due volte dieci ore». Peggio ancora, si aggiunge l’ostacolo di un viaggio di lavoro. Subentra l’insoddisfazione, il senso di un rotolare torbido, senza ritmo, che lo porterà a concludere La metamorfosi senza gioia, e a reiterare anche successivamente un giudizio negativo.
«Piangi, cara, piangi, questo è il momento di piangere. Il protagonista del mio raccontino è deceduto un momento fa. Se ciò ti conforta, sappi che è morto abbastanza pacificamente e riconciliato con tutti. Il racconto stesso non è proprio terminato, ora non ho voglia di occuparmene e lascio la conclusione a domani. E’ anche molto tardi..» (5-6 dicembre).
Il fermento di questi giorni proseguirà ancora un poco con il romanzo Il fochista, poi si interromperà. La questione è che Kafka ha già ben inteso il suo essere tutto della scrittura, in quello stato di «completa apertura del corpo e dell’anima» che aveva sentito nel fluire notturno dell’invenzione de La condanna. «La mattina a letto. Occhi sempre chiari». Non accetta di scrivere a gocce, e i resti di racconti abbozzati li troviamo – e per noi sono bellissimi – nei diari. Gli manca il tempo, la solitudine, il silenzio. E tutto il proprio tempo non è ancora abbastanza. Solo così, in quella che poi designerà come una cantina, uno sprofondamento, uno “spazio di morte” secondo le parole di Blanchot, cercherà, nel perenne conflitto del mettersi “fuori legge” e del cercare la riconciliazione, lo stato di “rintanato in casa” della poesia cinese.
Gregor Samsa, il protagonista della Metamorfosi, rappresenta questa ibrido, spaventevole stato notturno.

2) La porta

«Illustrissimo dott. Kafka – scriveva l’editore Kurt Wollf il 20 marzo – Franz Werfel mi ha talmente parlato di un suo nuovo racconto (si chiama La cimice?), che ora mi piacerebbe proprio leggerlo. Vuole mandarmelo?». Per quella casa editrice Kafka ha già in pubblicazione i racconti raccolti sotto il titolo Meditazione. All’inizio però egli non intende pubblicare isolatamente La metamorfosi, pensandola intrinsecamente legata agli altri due testi. Disse di no anche a Robert Musil, allora redattore della rivista Neue Rundschau, e quando poi cambiò idea, Musil non fu più in grado di favorirlo. Ecco che allora, nel marzo 1915 Kafka si affida a Max Brod, e La metamorfosi esce nel numero di ottobre della rivista Weisse Blätter, e subito dopo in volume nella collana Jüngster Tag. Con un surplus di spavento, che per noi lettori sarà rivelatore:
«Egregio Signore! Lei mi ha scritto ultimamente che Ottomar Starke disegnerà un frontespizio per La Metamorfosi. Ora ho provato un piccolo spavento […] Siccome Starke fa delle effettive illustrazioni, mi è passato per la mente che voglia disegnare magari l’insetto stesso. Questo no, per carità, questo no! Non vorrei limitare il campo della sua competenza, ma rivolgere soltanto una preghiera sulla base della mia ovviamente migliore conoscenza del racconto. Non lo si può far vedere neanche da lontano. Se questa intenzione non c’è e quindi la mia preghiera diventa ridicola, tanto meglio. A lei sarei grato se volesse trasmettere e sostenere il mio desiderio. Se mi fosse lecito avanzare a mia volta proposte per un’illustrazione, sceglierei scene come: i genitori e il procuratore davanti alla porta chiusa, o, meglio ancora, i genitori e la sorella nella stanza illuminata, mentre la porta che dà nella camera attigua, tutta buia, rimane aperta.»
Di questo tenore la lettera al dott. Meyer, responsabile delle edizioni Wollf, inviata da Kafka il 25 ottobre 1915. Ne ricaviamo l’informazione che l’insetto in cui Gregor si sveglia trasformato non è per il suo autore rappresentabile, categorizzabile: deve restare dentro le parole con cui Kafka lo designa, proprio come le parole di un sogno. E d’altra parte emerge invece in tutta la sua importanza il tema delle porte.
«La Metamorfosi è una storia di porte che si aprono e si chiudono» ci dice Roberto Calasso in K. Basta rendersi subito conto che la camera di Gregor ha una porta prossima alla testiera del letto e due porte laterali: quella prima mattina a una bussa la madre, alle altre il padre e la sorella. E poi tutti gli snodi della storia avvengono con l’apertura –forzata, accettata, sottintesa – o con la chiusura, questa sempre molto violenta, della porta. Il perimetro dell’appartamento e quello della stanza vengono misurati a partire dal confine che è la soglia di separazione tra i due mondi. Le triangolazioni di rapporti e di potere tra i personaggi hanno letteralmente luogo in geometrie che la porta continuamente marca. Del resto anche i romanzi successivi riportano questo leit-motiv: 270 volte compare la parola Tür, porta, nel Processo, e 70 nel Castello.
La porta ha senso in quanto aperta o chiusa, transito o barriera. Dice Franco Rella in Miti e figure del moderno: “Se dovessi oggi indicare la figura del moderno indicherei la figura della soglia: della frontiera che si fa transito, che si fa fluida e sfrangiata”. Pare perfetta epigrafe della Metamorfosi kafkiana, a partire dalla richiesta dell’immagine della porta in copertina, certo, ma anche considerando la soglia tra sonno e veglia che viene messa in scena proprio all’incipit del racconto, alle porte del sogno; e la soglia tra umano ed animale che si realizza nella trasformazione. Verwandlung è infatti uno dei vocaboli che in tedesco dice la metamorfosi, sicuramente quello più dinamico, rispetto a Metamorphose e a Unwandlung che indicano la trasformazione avvenuta e irreversibile. Il vocabolo scelto da Kafka è invece parola-soglia, usato in ambito religioso o magico-fiabesco; una trasformazione nel suo avvenire, con un accento forte sull’apparenza del cambiamento. In questo processo sicuramente incide il carattere di antifiaba del racconto e al tempo stesso la forma del sogno raccontato, che ben conosciamo nell’opera kafkiana.
Siamo già dunque in presenza di quel mondo interstiziale (e ancora Franco Rella in Scritture estreme lo segnala) rilevato da Benjamin negli appunti dei Passages di Parigi: l’immagine ossessiva della soglia come il luogo in cui si realizza “l’ora della conoscibilità” che è il delicatissimo, rischioso momento del risveglio, interruzione nel corso lineare del tempo (non a caso la storia comincia con questo strappo, con la congiunzione als, “nel momento in cui”, forma canonica di inizio di qualsiasi racconto) e in un lampo il passato si unisce al presente come in stato d’arresto, Stillstand, dentro e fuori dal sogno. L’abitudine è un panno grigio, il sogno è la fodera arabescata. «Chi potrebbe rovesciare con un gesto la fodera del tempo?» si chiede Benjamin, ed è evidente che la risposta è nella parola letteraria. Kakfa ha cercato per tutta la vita, nella sua ossessione del tempo, di fermare quel “tempo-ora”, quel pericolosissimo attimo del sogno in veglia, con la scrittura. E’ lì che può succedere che sognare di essere un insetto si prolunghi nel tempo sospeso del suo esserlo davvero.
La prima edizione del libro – F. Kafka in nero, Die Verwandlung in rosso, Leipzig, Kurt Wolff Verlag, 1916, 214 x 136 mm, 73 pp., uscì, finalmente, nel novembre del 1915. Sulla copertina color crema Starke aveva disegnato una porta con un battente aperto, e in primo piano un uomo in vestaglia col volto tra le mani.

3) L’insetto

Sono infinite le storie di animali in Kafka, con significati metafisici, autobiografici, simbolici della condizione ebraica o umana in generale, surreali, Ci sono cavalli, tigri e pantere, uccelli, talpe, topi, scimmie, cani, insetti, nel doppio ruolo di persecutori e oppressi La teoria darwiniana si trasforma in teoria dell’involuzione, perché la fuga nell’animale è sempre senza scampo e verso il basso, a ritroso dalla umana “posizione eretta” che a Kafka procurava angoscia – come scrisse in una lettera a Fèlice.
«Vorrei invece spiegare il tuo sogno. Se non ti fossi messa per terra in mezzo agli animali, non avresti neanche potuto vedere il cielo con le stelle e non ti saresti redenta. Forse non saresti neanche sopravvissuta alla paura di stare ritta. Anche a me avviene lo stesso; è un sogno comune che hai sognato per me e per te» (3 febbraio 1915)
Proprio a commento della prima pubblicazione, a fine anni sessanta, di quelle lettere, in un volumetto intitolato L’altro processo, Elias Canetti elabora una lettura di Kafka che è basilare per capire lo scrittore praghese: «Non c’è scrittore che sia più esperto del potere di Kafka [….] Uno dei temi centrali è l’umiliazione. Nella Metamorfosi l’avvilimento è concentrato nel corpo che lo subisce; l’oggetto dell’avvilimento è compattamente presente fin dall’inizio: invece del figlio che nutre e sostiene la famiglia, improvvisamente c’è un insetto. La metamorfosi lo espone inesorabilmente all’avvilimento, una famiglia intera si sente autorizzata a imporlo attivamente. L’umiliazione si stabilisce con esitazione, ma tempo le è dato per estendersi e infittirsi. Gradatamente tutti, quasi indifesi e contro volontà, vi partecipano. Ripetono ancora un volta l’atto dato per scontato all’inzio: Gregor Samsa, il figlio, è irreparabilmente trasformato in insetto soltanto dalla famiglia».
Lontano dal potere, dunque, e dal peso oppressivo del corpo che “sta in piedi”, in un processo di riduzione, di condensazione, di sottrazione che poi tornerà nei romanzi, come ossessione allo stare curvi, a sentire il peso del mondo. Ne La metamorfosi la mutazione si concretizza in un animale inoffensivo, il più vicino al Grund, il suolo, ma al tempo stesso senza una vera tana dentro cui poter scomparire. Quando Gregor, aperta la porta con le mandibole, di fronte all’orripilato procuratore cade per terra e si appoggia al pavimento saldamente sulle zampette, si sente per un momento finalmente bene, finalmente libero da ogni sofferenza.
«Se qualcuno coglie nella Metamorfosi di Kafka qualcosa di più di una fantasia entomologica, mi congratulo con lui perché è entrato nel novero dei buoni e grandi lettori» . Così entra nel romanzo lo scrittore russo Vladimir Nabokov, famoso per le sue lezioni di letteratura alla Cornell University che sono riletture di grandi romanzi, poi pubblicate in volume. Nabokov riempie di note e di disegni le pagine del libro che sta commentando, analizza l’appartamento – diviso significativamente in segmenti, come il corpo di Gregor – in cui ha luogo il racconto, si interroga su quale tipo di insetto sia descritto, una condensazione tra uno scarafaggio e un coleottero. Un processo di mutazione, da essere umano ad animale, che è attivo per tutto il racconto, e proprio quando pare che la trasformazione sia conclusa l’ interrogativo di Kafka «Era Gregor proprio una bestia, se la musica a tal punto lo affascinava?» riapre la questione. Sono molti gli elementi significativi in questo processo: il sostantivo Ungeziefer, che indica l’insetto dannoso, è un unicum con cui Gregor Samsa è designato esclusivamente all’inizio, perché il lettore abbia chiaro davanti a sé l’orizzonte che lo coinvolgerà nella lettura. Poi è il nome di persona che continua a essere l’elemento identitario, mentre più avanti si ricorre al sostantivo Tier, bestia, e la nozione di animalità si amplifica e diventa assoluta. Tier sta in opposizione a Mensch, umanità. Infine la serva che troverà Gregor morto lo chiama Mistkäfer, scarafaggio stercoraio, segno di disprezzo ma anche di schietto rapporto non spaventato o ipocrita della donna di fatica che si relaziona con l’animale e che sa esprimersi solo sopra le righe, tanto è vero che quando scopre Gregor morto grida per due volte “è crepato!”. Nella mutazione viene esaltata la corporalità dell’animale, e se il fuori misura deve essere intuito dal lettore, c’è però la descrizione precisa del corpo, dell’addome, degli effetti della progressiva degradazione dell’insetto. Elementi umani, le palpebre ad esempio, convivono con altri inequivocabilmente bestiali; nel finale Gregor esala il suo ultimo respiro da narici che sono definite non con il vocabolo umano ma come Nüstern, letteralmente le froge dei cavalli. E quando la prima mattina Gregor-insetto prova a scusarsi dietro la porta ancora chiusa e non viene compreso, il procuratore interpreta le sue parole come Tierstimme, voce di animale. Anima e animalità si mantengono per tutto il racconto, in una parabola discendente – Gregor si lascia morire in uno sfaldarsi che però mantiene elementi di umanità grande, la malinconia, perfino sentimenti di riconoscenza verso la famiglia. Eppure l’insetto ci porta fuori dalla psicologia dell’io, fuori dagli umanismi; per questo è tanto temuto e al tempo stesso è tipico elemento da incubo, come spiega lo psicoanalista junghiano Hillman in Animali del sogno. Ma in Kafka non dobbiamo mai dimenticare che lo spirito generativo del racconto è il processo di metamorfosi, cammino e mezzo verso la sparizione, verso la morte, forse verso la redenzione.
Tutte le metamorfosi, secondo i filosofi francesi Deleuze e Guattari, sono deterritorializzazioni, aperture e liberazioni di spazi di vita, linee di fuga, a volte viaggi immobili, cioè intensi e intensivi: «Il divenire-animale comporta movimenti, vibrazioni e superamento di soglie» e il mantenimento delle due nature conduce ad un ibridismo che è conflitto logico inconciliabile.
Infine, se nell’economia kafkiana del togliere peso al mondo, secondo la leggenda talmudica citata da Benjamin nel suo saggio su Kafka, l’unica formula possibile è l’espressione del desiderio assurdo, minimale, nichilistico del mendicante che sogna una lunga avventura che gli ottenga infine semplicemente di avere una camicia, Gregor nella disperata situazione in cui si trova, schiacciato dalla famiglia, che cosa può sognare? Di scappare, di diventare stimato e libero? No, in questa ottica non può che esserci un desiderio di nulla: sognare di essere un insetto.

4) Lo splendore del linguaggio

Desiderio di nulla, si diceva, che sentiamo non appena affrontiamo l’incipit del racconto – doverosamente in lingua originale:
«Als Gregor Samsa eines Morgens aus unruhigen Träumen erwachte, fand er sich in seinem Bett zu einem ungeheueren Ungeziefer verwandelt»
Tre vocaboli tedeschi con suffisso negativo UN- sembrano scavare la frase iniziale, farle il vuoto; forse in italiano si può rendere l’effetto in questo modo: INquieti (i sogni), INcredibile (nel senso di enorme, terribile, mostruoso) INsetto. Il risveglio, che abbiamo detto discrimine pericolosissimo, comporta questa vuoto di senso. L’evento impossibile (la mutazione) è dato come lavoro di scavo della lingua. Avviciniamo a questo incipit una annotazione dei diari di qualche mese prima:
«Nella stanza attigua mia madre discorre coi coniugi Lebenhart. Parlano di insetti domestici e di calli. […] S’intuisce facilmente come questi discorsi non possano attuare un vero e proprio progresso .Sono comunicazioni che le due parti dimenticano e che già ora si svolgono senza senso di responsabilità nell’oblio di se stessi. Ma appunto perché tali discorsi non sono pensabili senza lontananza, presentano spazi vuoti che, quando si voglia rimanere in argomento, non si possono riempire se non riflettendo o meglio sognando». (Confessioni e Diari, 24 marzo 1912)
Spazi vuoti che solo il sogno riempie. Elementi insignificanti, vuoti a perdere della conversazione quotidiana diventano tracce che lo scrittore raccoglie e su cui riflette per costruire la sua poetica. Un gioco di distanziazione, di paradossalità, una specie di sovraesposizione nella quale le parole vuote balzano, come nel sogno, in primo piano, diventano portatrici di senso. Kafka ha fiducia nella scrittura e nella parola, come espone in forma compiuta a Fèlice:
«Gli accenni alla incapacità della lingua e i confronti tra la limitazione delle parole e l’infinita vastità del sentimento sono del tutto errati. Il sentimento infinito rimane nelle parole altrettanto infinito quanto lo era nel cuore. Ciò che è chiaro nell’intimo lo sarà innegabilmente anche nelle parole. Perciò non bisogna mai stare in pensiero per la lingua, ma spesso, alla vista delle parole, per se stessi. Chi può sapere, scavando nel proprio intimo, in che condizioni si trovi? Questo intimo tempestoso e rotolante o paludoso siamo noi stessi, ma nella strada che si compie in segreto, sulla quale le parole vengono fatte uscire da noi, emerge la conoscenza di sé, che se anche è ancora legata, sta però davanti a noi, spettacolo stupendo e terribile». (18 febbraio 1913)
Sottolineiamo questa frase: non bisogna stare in pensiero per la lingua, ma, alla vista delle parole, per se stessi. E’ come se se nel processo della scrittura – espresso come una via, come un cammino – avvenisse un rovesciamento formidabile: il testo fa l’azione di leggere chi lo scrive. Ecco perché Kafka parla di apertura del corpo e dell’anima nello scrivere; nelle lettere troviamo molte di queste affermazioni: «[…] un breve racconto che mi stava molto a cuore e che pareva dovesse aprirsi di colpo davanti a me, mentre invece oggi mi si chiude del tutto» (a Fèlice, 23- 24 dicembre 1912);
«scrivere significa aprirsi fino all’eccesso, […] le vie sono lunghe ed è facile deviare» (14/15 gennaio 1913); «… se non posso scrivere, tutto è un sogno, un sogno scoperto»(13 luglio 1913). Dunque la chiara notte porta, a chi riesca a stare aperto, il dono del linguaggio. Con le parole di Agamben, che rielabora Heidegger, «questo destarsi del vivente al proprio essere stordito, questo aprirsi, angoscioso e deciso, a un non-aperto, è l’umano». Kafka nelle sue notti di veglia tenta di farsi attraversare dalle parole per restituirle alla coscienza, così come, a noi umani, ce le riporta a volte il barbaglio del sogno. Ma non è atto di eroismo, più spesso è accettazione di fallimento.
Tra le tante opere proliferate dopo il fenomeno Kafka, e più o meno ragionevolmente definite come kafkiane, vogliamo porre l’attenzione sul romanzo di una grande scrittrice brasiliana di origine ebraico-ucraina, Clarice Lispector. Non meravigli il confronto con una scrittrice: come le filosofie femministe ben osservano, una donna ha inscritta in sé l’esperienza della marginalità e della mutazione corporea, del corpo che diventa altro, che prolifera come un doppio autonomo. Il romanzo in questione si intitola La passione secondo G.H e mette in scena l’incontro tra una donna e uno scarafaggio, evento che porta a una serie di riflessioni proprio sulla scrittura.
«La realtà è la materia prima, il linguaggio è il modo in cui ne vado alla ricerca – e in cui non la trovo. Eppure è proprio dal cercare e non trovare che nasce la cosa che non conoscevo, e che all’istante riconosco. E solo quando la costruzione si incrina io ottengo ciò che questa non è riuscita a ottenere. […] Io ho, a mano a mano che designo – ecco lo splendore di avere un linguaggio. Ma ho assai più, a mano a mano che non riesco a designare. Il linguaggio è il mio sforzo umano. Per destino devo andare a cercare e per destino torno a mani vuote. Però ritorno con l’indicibile. L’indicibile mi potrà essere dato solo attraverso il fallimento del mio linguaggio. […] La rinuncia è una rivelazione».
Ci pare che la linea sia proprio quella che Kafka negli anni aveva elaborato e che prese forma tra il 1917 e il 1918 nei cosiddetti Aforismi di Zurau. C’è la certezza del linguaggio: « il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te» ma al tempo stesso la scelta pur dolorosa di una via minore: «Due possibilità: farsi infinitamente piccolo o esserlo. La prima è compimento, perciò inazione; la seconda inizio, perciò azione». Questo è il grande, «stupendo e terribile» processo di metamorfosi che Franz Kafka ci ha consegnato.

BIBLIOGRAFIA DEI TESTI CITATI

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Franco Rella, Scritture estreme. Proust e Kafka, Milano, Feltrinelli, 2005.
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