Giovanni Tesio, I più amati. Perché leggerli? Come leggerli?
Luigi Preziosi, Giovanni Tesio, I più amati. Perché leggerli? Come leggerli?, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 32, no. 12, gennaio/aprile 2013
Una ben meditata sapienza ha concesso a Giovanni Tesio, docente universitario e critico di vaglia, la felicità di sintesi che pervade questo suo I più amati. Perché leggerli? Come leggerli? (Interlinea, 2012), libretto all’apparenza scarno, ma ricchissimo in realtà di suggestioni. Tesio prende le mosse dalla sua personale avventura di lettore, un’infanzia e un’adolescenza vissute in ambiente contadino, connotate dalla stupefazione per le scoperte che la lettura favorisce, stagioni della vita nelle quali già era dato intravedere i segni di una vocazione (“niente come la letteratura avrebbe potuto interessarmi così a fondo”), poi sviluppata nell’esercizio metodico degli studi. La cifra del libro è nascosta allora dentro le pieghe dello sghembo ed imperfetto ossimoro sprigionato dal contrasto tra semplicità e profondità. Solo un’esperienza di sistematico approfondimento consente, infatti, di cogliere il cuore dei più impegnativi problemi di teoria della letteratura con la disarmante limpidezza di scrittura che Tesio esibisce in questo testo, scandito su tre sezioni, dedicate alla lettura, alla letteratura e alla poesia.
L’autore non si sottrae alle domande più impegnative che hanno appassionato chiunque si sia interessato, a vario titolo, alla letteratura. Per lui, la letteratura non salva la vita (e qui pare richiamare, quasi testualmente, quel “la letteratura non salva, mai” ritrovato tra gli ultimi appunti di Tondelli), però di essa offre “una percezione più ricca, trasformando la nostra esperienza in comprensione”, e la migliora “nel senso che rende più consapevole – come sosteneva Goethe – il nostro soggiorno sulla terra”. Ma questo, pur se una tale consapevolezza ha per forza anche un sostrato lato sensu “politico”, non sempre si verifica con assoluta puntualità. Basti considerare l’orrore propagato per l’Europa nel secolo scorso, per il quale vale l’osservazione di Steiner, secondo cui “la disseminazione generale dei valori letterari e culturali non si rivelò un argine al totalitarismo”. Resta, ineludibile, il nesso della letteratura “con il mondo e le sue rugosità”, una letteratura concepita non solo come tramite, nella sua inutilità “quanto mai raccomandabile”, per la migliore realizzazione di ciascuno (secondo il magistero dell’ultimo Todorov), ma anche e soprattutto come strumento di “com – passione”, di percezione intima dell’umanità che pervade ognuno in quanto parte di una comunità di destino. E allora la letteratura, per dire qualcosa alla nostra vita, non può che essere luogo di tensioni, da cui attendere rivelazioni di qualcosa che ci riguarda. Ancora: la letteratura vive di sintesi, di conciliazioni tra opposti, tanto che la definitiva prevalenza di uno di essi potrebbe menomarla, renderla meno credibile, mutilarne la verità. A ciascuna antitesi è dedicato uno svelto e lucido capitolo: la letteratura sta allora tra “scrittoio e bancone” (con tutto quanto consegue in merito ai rischi di un acritico inseguimento dei gusti del mercato e dello sviluppo della narrativa di genere), e tra “mutismo e grido”: tra razionale e irrazionale la sintesi va trovata nella parola, suono e senso, supremo tentativo umano di dare ordine al caos. E l’invenzione letteraria, non abita forse sul sottile discrimine tra menzogna e verità, che si riesce a percorrere senza sbandamenti solo ribadendo che “l’ambiguità della parola per la letteratura è ricchezza”?
Infine, la poesia. Non facilmente delimitabile entro i confini certi di una definizione, ma indubitabilmente forma espressiva primigenia (Leopardi docet), universale, capace di travalicare spazio e tempo (così anche Jacobson: la poesia è l’unico genere verbale a essere universale). Tesio ne apprezza la propensione all’interrogazione, piuttosto che all’asserzione, poiché “nel suo ricercare propone una modalità incessante di conoscenza buona per tutti”, e le attribuisce non tanto una maggiore densità di senso rispetto alla prosa, quanto piuttosto una maggiore possibilità di esprimerlo: “la struttura della poesia si rende capace di liberare valori e significati che nella prosa non è detto affatto che non ci siano, ma che restano più nascosti e dissimulati”. La musicalità (“la poesia è un oggetto sonoro”), la suggestione ritmica, il fonosimbolismo consentono ampliamenti di senso che superano il semplice contenuto lessicale: “la poesia non è soltanto ciò che significa, ma ciò che è”. La lingua della poesia, il suo modo di comunicare, fondato su un susseguirsi di associazioni, permette quella che Tesio definisce una forma di conoscenza di carattere estetico, appartenente alla percezione, prima che alla riflessione. La poesia esige però che si instauri un rapporto peculiare tra autore e lettore, diverso dal patto tra scrittore e lettore della narrativa. Al lettore tocca un compito non sempre lieve, ma spesso entusiasmante: aver contezza delle implicazioni interne ed esterne al testo, dalle scelte stilistiche alla collocazione storico letteraria, tenendo altresì presente che ogni prova poetica è anche un esercizio di riscrittura, e quindi un riecheggiare di memorie (già Metastasio intravedeva nelle lirica leopardiana un palinsesto mal raschiato). Così la poesia vera, rarissima, riesce ad essere appieno quella “forma di conoscenza acuminata e potenziata”, che sola può illimpidire il nostro sguardo sul mondo.
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