Pietro Aretino e i suoi Ragionamenti
Roberto Roversi, Pietro Aretino e i suoi Ragionamenti, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 31, no. 3, ottobre/dicembre 2012
Nato di bassa lega, in una società in cui soltanto i “potenti” valevano (fossero essi principi, regnanti, alti prelati o artisti di genio); subito irretito dall’astio del proprio stato e dalla volontà di progredire e di primeggiare puntando su innegabili “qualità” naturali (che via via si affinavano, rodandosi, nei contrasti della vita e nella rapida ascesa al potere), l’autore di quest’opera “incriminata”, relegata frettolosamente fra le cose turpi della nostra letteratura, è tal personaggio che meriterebbe una considerazione maggiore e un esame più attento di quelli che fino a pochi anni fa gli erano riservati. Oggi si può almeno discutere senza scandalo dell’Aretino come di una figura rappresentativa, tipica e anche importante; come di un “grosso” scrittore, a cui per essere grande, davvero grande, mancarono una più riposata attenzione allo svolgersi ed emanciparsi del proprio lavoro e meno interessati pretesti per esibirsi in pubblico, disdegnando misura e studio (“ho partorito ogni opera quasi in un dì”; “né di mio si vede mai lettera che passasse un foglio”).
Ma era la “brama” a spingerlo, a pungolarlo, con una persistenza amara, cattiva (e per brama intendo una precisa fame di cose e di risultati, di successi mondani pubblicamente largiti); la brama di accumulare e primeggiare, seguendo gli esempi del tempo; costringendolo essa ad un operare rapido, secondo una programmazione di fini e di lucro “mondani” in tutto pari, per intemperanza ed estro, a quelli esercitati ai nostri giorni dai più esperti e tenaci arrampicatori sociali. E poi non era tanto il successo in sé che gli premeva, ma la potenza che dà il successo; la potenza efficace ed opprimente e tuttavia inebriante di una conquista effettiva, che aggiunge “qualcosa”; la rivalsa sul prevaricare delle situazioni; un’alternativa mimetica a una nascita deludente. Infatti nelle pagine dell’Aretino, anche nel momento del consenso più vasto (dell’autentico successo) affiora spesso, per un rapido accenno o per ombre che incrinano lo sfarzo della sua lusingata presunzione, il sentimento di chi non sa abituarsi fino in fondo, nonostante tutto, al proprio successo, alla nuova ricchezza; direi: alla misura di questo successo e all’impegno di questa ricchezza – e sempre li vagheggia, li accarezza col sentimento della mente.
Temuto dai “grandi” per la temerarietà e impudenza di divulgatore geniale e perfido, li sferza ma li ammira; si lascia corrompere sollecitando la loro debolezza, accarezzando con arte l’ambiguità della loro natura, corrotta e presuntuosa, debole ma arrogante; eppure conserva un misto di timidezza risentita, un residuo di cautela spigolosa e sospettosa (che magari, alle volte, e proprio per questo, lo rende anche più efficace nell’attacco, più duro o addirittura feroce nel giudizio); perciò è più arrogante e grezzo nell’invettiva – anche se immediatamente riesce a risultati di maggior effetto – e più sottile e fine, più brillante e spregiudicato quando adula, esercitando l’arte della finzione (“adulazione e finzione son la pincia di grandi”, cioè il regalo più amabile, una specie di miele) o la propria “temeraria importunità”.
È ben consapevole della posizione di prestigio e di preminenza pubblica che si è assicurata con la penna; ne valuta fino in fondo il valore “commerciale” (“chi tralascia me insegna a me di tralasciar lui… Dìcamisi per che conto debba cantar un poeta non volendo altri sonare? Chi è quel capitano sì affezionato a la Francia che voglia servirla per dominum nostrum? Date a lo dabitur vobis, disse il pedante. Io adorava il re Francesco, ma il non aver mai argento da lo sbragiar de le sue liberalità raffreddarìa le fornaci di Murano. Sì che V. E. Ecc.ma o mi faccia dare del fiato per le trombe della virtù, o mi perdoni s’io non gli grido ad alta voce il nome”); si è reso conto dell’enorme efficacia che ha la divulgazione pubblica di un episodio o di avvenimenti intimi e scabrosi che toccano la vita dei grandi personaggi; eppure questa penna “infernale” non si trasforma in un ricattatore calunnioso o fantasioso; Non inventa; egli non fa che “propalare scandali accertati”; direi che è quasi scrupoloso nel verificare la fondatezza e il dettaglio delle notizie che vuol strumentalizzare (“la bugia, pane quotidiano de i gran maestri, non è cibo de la mia bocca”). Queste due intuizioni originali e in un certo senso “fondamentali” dell’efficacia della propalazione “contrattata” dell’aneddotica storica o privata, e della necessaria veridicità della notizia o delle serie di notizie che si divulgano, testimoniano e confermano, al di fuori di un giudizio morale (o moralistico), della genialità composita dell’autore, e della sua modernità (in un certo senso); sicché alcuni lo vedono e lo videro come un precursore, o il precursore, del giornalismo moderno.
È certamente una conferma “la prontezza, la brevità concettosa, lo spirito d’opportunità, lo stile incisivo e mordace” dei suoi pronostici satirici e dei suoi foglietti volanti – ferocissimi e spietati libelli, con tanto di nome e cognome, in cui si raccoglievano e propalavano le malefatte, gli intrighi, le vicende familiari lugubri o sconnesse dei maggiori personaggi del tempo (“l’apparire di questa stampa periodica ingrandisce favolosamente la figura del primo giornalista europeo”). Per controllare le notizie, i riferimenti, le allusioni velate e tanto più pungenti in essi contenuti; o per sovvertirli almeno per quanto riguardava la parte che li concerneva; autentici regnanti o solenni personaggi pubblici e politici compivano le azioni più umilianti nei riguardi dell’autore; dalla minaccia alla corruzione, dalla lusinga alla preghiera, all’adulazione (una “epidemia di viltà che l’Aretino aveva provocato con la sua penna”). Questo “tagliaborse de principi”, dopo vario peregrinare, da Roma a Mantova, Ferrara, Reggio, Urbino, trovò a Venezia la sede più adatta per le sue scorrerie letterarie; nessun’altra “città al mondo poteva assicurargli l’impunità che gli era accordata a Venezia”. Lì infatti trovò l’opulenza del vivere e il piacere glorioso delle giornate nella frequentazione di personaggi come Tiziano e Sansovino; protetto dagli assalti furtivi dei killers di professione dalla liberalità interessata della Repubblica, che mentre lo proteggeva se ne difendeva.
I Ragionamenti sono un affresco magmatico, a tinte dense e colanti, della società rinascimentale, un imponente rapporto Kinsey, meno rigoroso, ovviamente, ma più pittoresco e movimentato, più sregolato; compiuto utilizzando una campionatura dettagliata e dall’interno; cioè da chi partecipava degli stessi difetti che si proponeva di discutere o di rappresentare, ne conosceva in un certo senso tutti gli “orrori” e non intendeva affatto colpirli ma descriverli, partecipandone. I particolari non sono sfuggenti ma definiti; gli ambienti non sono “ricostruiti” secondo una scenografia della memoria, né tantomeno della fantasia che colora, ma descritti con esattezza un po’ fredda ma organica, uggiosa ma avvincente; con l’ovvietà, alla fine rigorosa, di chi volge lo sguardo a un ambiente, proprio all’ambiente che lo circonda.
C’è tuttavia, in questo grande racconto, in questo “codice dei vizi”, una rabbiosa sospensione di giudizi, come un’indifferenza a concludere, a giudicare. All’autore basta descrivere, non dico neppure raccontare; l’abilità stilistica, la sua capacità di comporre, è tutta – almeno al limite – d’istinto: provocatoria ed esagitata, direi “rumorosa”, simile a chi racconta ad alta voce, fra parecchi ospiti che ascoltano. Non c’è (né risulta) l’intimità della coscienza; ma piuttosto l’esibizionismo compiaciuto di chi è abituato a parlare o a raccontare in pubblico e che, con la foga del tono, si industria a distorcere o a deviare i piccoli o grossi dubbi sulla veridicità del racconto; e mimandolo pittorescamente distrae il giudizio critico dello spettatore, ne accattiva la fantasia senza mettere in moto o caricare la coscienza; per lasciarlo infine, esclusivamente, alla propria curiosità divertita, o a una voglia inappagata, o a una soddisfazione grassa. E’ un’arte, o una situazione artistica, da “spettacolo”, da parete; i personaggi sono sempre tali che sembrano muoversi in scena; come tali sono descritti, direi schizzati, piuttosto che definiti. La descrizione dei personaggi, infatti, coglie sempre, o per lo più, il loro aspetto esterno: abiti, faccia ecc.; mai si propone di lavorarli “internamente”; non li umanizza, li congela. O, se vogliamo, più semplicemente, li tipicizza per comodo. Mentre uomini e donne si coricano, ad esempio, in una sarabanda di letti che suonano, si muovono “le cose”; ed è più vivo e vitale, più drammatico, in un certo senso, l’ambiente che li raccoglie e li difende; o che tuttavia consente con i loro amori. Che poi queste storie d’amore, o questa lunga storia d’amore (amore che si “consuma” o comunque si compie rapidamente; e non si strugge, non delira) conducano alla fine a una forma di sazietà affaticata, a una ridondanza non dico repellente ma esausta, esaurita – dovuto alla monotonia “sforzata” del racconto che si torce in sé, si riepiloga e regredisce e s’intreccia più che distendersi in una organicità strutturalmente definita.
Poiché l’Aretino, nonostante le sue profferte moralistiche, un moralista certamente non è; le sue teorizzazioni restano o riescono piuttosto fredde, fumose; dalle sue pagine non si esalta un dissenso col tempo o un contrasto meditato, una definita ripulsa; egli non vuol correggere o colpire per correggere, né tantomeno sferzare perché la società (o il tempo stesso) migliori, per quanto possibile; non c’è l’ombra di una fantasia che descrive, sottostendendolo, un panorama più cauto e calmo, più “pulito” della situazione. Non c’è l’ombra della tristezza (non dico l’invernale tristezza di un Machiavelli, che nutre la propria struggente malinconia nella rimembranza del mondo). L’Aretino è più sbrigativo ed equivoco ad un tempo; è meno sagace ed è più astuto dei moralisti ufficiali; è più “interessato” e meno disponibile ai richiami dei sentimenti o della ragione che si agita. Il sesso, nelle sue pagine (almeno in queste pagine) è un sesso senza tormento. Una sensualità secca, ghiotta, decisa, senza imprevisti; con un unico scopo; non è “turbata” in senso moderno (nevrotica ed equivoca; drammatica); e tuttavia, per la verità, neppure è grossolana e semplicistica al modo dei trecentisti più scurrili; né è senza contorni e sfumature; ma queste sfumature, che talvolta abbondano, non sono psicologiche ma ambientali. La sua ferocia nelle invettive (e nelle invenzioni; una violenza “fantastica”) è una interessata finzione, che si unisce e si compenetra e anche si amalgama a una indifferenza a volte trasandata e alle volte giocosa, per artificio. Astuto, perfido, certamente; ma con imprevedibili (anche se calcolate) “cortesie”; per non dire tout-court “gentilezze”; il lievito e la misura interessata di una mente molto più educata di quanto egli non intendesse esibire. A una esatta “comprensione”, a una giusta impostazione o imposizione di lettura di questo testo “pittoresco” (per tante ragioni) nuoce, a mio avviso, l’organizzazione “interna” dell’opera. L’esordio (La vita de le monache) è opprimente e distorce, contaminandola, un po’ tutta la prospettiva “generale”. Questa parte risente di una malevolenza ispida e sgraziata, fatta di umori recalcitranti, e risulta eccezionalmente frettolosa; sembra il risultato compiaciuto o la conclusione di una vendetta “pubblica”, grossa che sia. C’è il lubrico (soltanto) disposto senza rigore, gettato con malgarbo; la descrizione è senza umori, uniforme, come a sfogliare le pagine di un libro illustrato equivocamente; sembra l’abbozzo di un episodio o di una scena, più che una scena interamente realizzata; e appare anche assente, o lontana, la volontà di proporsi una eventuale definizione del racconto, che così resta slabbrato, monco di rifiniture, immerso in una sorta di magma narrativo enfatico. Le monache sono tutte in nero (o in bianco), i frati in saio; la vita, la giornata nel convento è un riposo breve fra un assalto d’amore e l’altro. Ciò che colpisce è l’aria uniforme, un po’ chiusa, da interno rarefatto (salvo quando i convitati siedono intorno alla tavola), direi, in alcuni momenti, un’aria morandiana (col rilievo della polvere sugli oggetti, e il segno delle dita). Ma non c’è altro; tutto l’episodio è concluso entro questo umore vetroso; figure, estri, non ci sono; mancano perfino i farnetici bizzarri, le autentiche voci degli amatori. Ogni contrasto è di riporto. La crapula annoia, raccolta in questo unico orgasmo dilatato.
Ma La vita de le maritate è, a mio giudizio, un racconto stupendo, svolto con arguzia sottile della ragione e con una precisa consapevolezza artistica, con elaborato magistero. Tutto si inebria e i colori si fanno accesi; dagli angoli ammuffiti dei chiostri si risale in un momento dentro all’aria viva; sfolgorano le vesti variopinte, e insieme ad esse le risa di queste belle donne innamorate – o soltanto infervorate; il racconto si trascina per le strade, in mezzo alla gente; se si rintana nelle case, queste sono disegnate in quel lume un po’ fosco che risulta (e risalta) dalle tele maliziose e perfette dei maestri del tempo. Ogni volgarità si attenua, e più esaltato è il gusto della descrizione d’ambiente, degli oggetti, delle persone. Soprattutto gli uomini – “che attaccano” per suggestione altrui, per malizia femminile o addirittura a comando – sono visti in rilievo, a tutto tondo, in un prorompere di sensualità non levigata ma sanguigna, avida, quasi rabbiosa. Le donne sono raccontate con il lindore sagace e maliziosamente sfumato di un classico dell’umorismo; ogni particolare è per lo più leggero e gradevole; anche le malizie, che talvolta sono perfide, acquistano un tono dilatato, da apologo non opprimente; qualcosa di melodrammatico in senso “cantato”. Basti per tutte, come esempio, la descrizione della sposa diciassettenne (che si sfrenerà in un finale apocalittico), la quale “mangiando pareva che indorasse il cibo” – tutto un dettaglio di particolari che trasformano la descrizione in una accesa esaltazione pittorica.
La vita de le puttane è sotto il segno, e la grande ombra, della tristezza “economica” (“che chi non ha oggi dì de la robba, è peggio che un cortigiano senza grazia, senza favore, e senza entrata”); con un vero e solo personaggio protagonista (e parlante): la Nanna. E’ l’autentica tragedia (cioè l’ossessione degli uomini e del danaro) non la “miseria” di questa donna; è il racconto – svolto nella direzione della necessità e di una ridondanza autonoma e autorevole – della loro disarmata debolezza sentimentale, contro la cattiveria sottile, o astuzia soltanto calcolata, degli uomini e della società entro cui esse vivono e con cui contrastano; e da cui sono, alla fine, sopraffatte: “Le puttane non son donne, ma sono puttane”. Il racconto si svolge denso e minuto, fitto di particolari che lo dilatano in profondità; i discorsi sono frequenti, ansimosi; i contrasti “verbali” violenti; le prove d’amore si diradano e balzano in primo piano i contrasti o gli equivoci che li precedono e le seguono; le donne non sono più desiderose e “disponibili” ma sospettose e all’erta; i pericoli più concreti; gli episodi più reali; l’apologo non è schematizzato in un aneddoto ma si trasforma in un episodio denso di suspense, attenuato dai rancori delle coscienze, dal sospetto dell’intelligenza o da cattiverie autentiche e feroci che danneggiano fisicamente, che distruggono socialmente. Il contrasto fra gli antagonisti è il contrasto autentico di una società, o di un aspetto della società, descritto analiticamente, senza alcuna riduzione a sottintesi capziosi o volgari o banalmente interessati (“perché è niuna cosa crudele, traditora e ladra, che spaventi una puttana”). L’individuo, se non è confortato da una situazione economica che lo distingua e lo protegga dalla massa, è veramente un essere isolato (senza avere fino in fondo la consapevolezza di questo isolamento), debole e inefficiente contro le vicende della vita o “il volgere della fortuna”; gli è impossibile chiedere appoggio o soccorso; anzi, è messo in una continua e faticante condizione di difendersi o di arrangiarsi per non soccombere o annientarsi. La società non lo tutela; dalla propria coscienza non cava che il vuoto di un’esperienza volta esclusivamente all’interesse pratico e alla lotta per la vita. Il sesso è la sola alternativa al lavoro; meglio, alla fatica del lavoro; ed è un’alternativa che si trasforma in una idea continua, in un bisogno assillante, in una “necessità” che tuttavia non può prescindere dal danaro. E’ sempre un contrasto economico che oppone i protagonisti, i “due” protagonisti; oppressi o suggestionati dalla stessa “furia”, dalla stessa “malizia”; l’una di togliere quanto può, l’altro di cavare meno che può. Episodi, scontri, o tragiche violenze nascono o si pongono su questa alternativa; poiché, in ogni caso, è una lotta per la vita. Il danaro permette (e promette) quegli agi che “qualificano” e tolgono la persona da una situazione di uniforme precarietà; oltre a difendere dal presente preserva dal futuro; distoglie in certa misura dagli orrori della vecchiaia. Il vecchio è sempre laido e debole; facile ad essere rubato, maltrattato, deriso; e tuttavia la donna vecchia, se misera, è soltanto un relitto che si trascina oscuramente, schiava di orrori da cui non sa più difendersi.
In questo quadro conclusivo di autentica tragicità si trasferisce anche l’angoscia occulta, e sia pure mistificata in ogni modo, dell’autore; che pare spesso dimentico di tutto (e della nascita e delle varie fatiche per riscattarsi dalla situazione precaria), eppure è certo che ne patisce il ricordo e ne teme, sia pure oscuramente, un eventuale ritorno. L’acredine dell’Aretino, la sua continua fame di danaro; lo spendere per una vita “pazza” e il chiedere senza tregua; il barattare il silenzio della penna per l’oro delle tasche ha questa origine di fondo – non dico questa giustificazione. Il secolo tutto d’oro non concede tregua; il povero serve ed è strumento di ventura; solo il ricco è potente; può largire sorridendo, ottenere con rapidità e appagarsi della vita. Chi non ha, non può altro illudersi che di sopravvivere. Certamente in quest’opera non c’è una morale di fondo, né una conclusione “seria” voluta dall’autore, ma dall’insieme degli episodi e dei racconti, interpolati da digressioni e da concioni spesso gustosissime, sortisce un quadro che appanna la splendida rappresentazione del secolo, abbastanza iconografica, che ci è suggerita dai ricordi scolastici e dalle enciclopedie monumentali. Se ne libera una ossessione alienata per tanta “licenza” che non approda se non ad una disperata solitudine; che non produce che noia faticosa, contrasti violenti, insicurezza continua e imprevisti dolorosi. Alla vita umana, alla vicenda della società, manca un filo – o così pare; o comincia a mancare il filo; il filo della consapevolezza della libertà (della vita) – o di quella libertà; che era una libertà di provenienza comunale, aspramente raccattata e in ogni modo entusiasmante. Le fazioni, che definivano e sommuovevano, s’erano integrate e afflosciate, trasferendosi; tutto si irretiva in un meccanicismo splendido ma senza speranza. Il bel secolo, esplodendo, s’avviava nello stesso momento a finire. L’Aretino, illustrandolo, pare che ne illumini, con una grande intuizione, il tramonto.
Dicono che l’Aretino morisse cadendo all’indietro da una seggiola, per il gran ridere a una scenetta volgare che si svolgeva nella propria casa. Può non essere vero, e non sarà vero; e che il moralismo pubblico condannasse con questo aneddoto finale un uomo che aveva temuto, ammirato, disprezzato, seguito e odiato. Un uomo così poco pedante in un tempo di retori illustri. Che aveva, nonostante tutto, io credo, invidiato. Per quella sua forza opulenta di giungere a ciò che voleva, di volgere il corso delle vicende, di toccare la fortuna e la ricchezza e di assestarvisi sopra senza più lasciarle; per quella sua forza vitale che coinvolgeva e provocava la forza degli altri (“io sono il segretario del mondo”). Un uomo, un artista che, come scrisse un gran critico, aveva la logica del male e la vanità del bene. Un uomo tuttavia che “amando se stesso fino ad esser ebbro di sé, desiderava piuttosto la gioia che il dolore degli altri”.
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