Annotazione inattuale su un libro recente
Roberto Roversi, Annotazione inattuale su un libro recente, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 31, no. 5, ottobre/dicembre 2012
Se mille voci si fanno parole di un libro, è come ridurre sul tavolo di casa, sotto gli occhi o vicino al cuore, un bosco di mille alberi che ci copre intero; che fruscia con tutte le foglie per non lasciarci assopire; che inquieta con inesorabile temperanza la nostra immaginazione, il nostro cauto lento sapere, il nostro desiderio di sonno (il sonno della ragione) o la nostalgia di esso.
Quindi, per me, ho un preoccupato timore mescolato a una curiosità che vibra, nel guardare prima il mucchio ordinato e intero dei fogli, poi nello scorrere con lentezza attenta (partecipata) questo decalogo di sospirata saggezza. Che può essere sfiorata (mai del tutto raggiunta e conquistata) solo, a mio parere, con una insistenza vorace, con uno scavo fra i pensieri minuto, approfondito, al fine di scioglierli, correggerli, sistemarli, integrarli.
Può essere l’inizio di una cura prolungata (ma necessaria) per gli autentici guasti che ciascuno di noi nasconde nei risvolti più segreti, spesso neanche disposto a condividerli.
Ma sappiamo davvero se questi grani, dall’aspro sapore di una sapienza centellinata, riusciranno a scrostare la nostra intemperanza? Quella supponenza reale mescolata alla falsa umiltà di facciata, che è la caratteristica della società contemporanea, dalle nostre parti intanto?
Allora, se l’opera chiede per necessità di essere letta adagio, in profondo, e non di essere solo scorsa – come dicevo – con impazienza, il libro che si stampa che la raccoglie e intende disporla, avrà una durata di anni sul nostro tavolo, per le ombre del nostro cervello? Disponendoci a vederlo, a volerlo, come un indispensabile Venerdì robinsoniano, come un compagno non soltanto vivo, non soltanto utile ma indispensabile?
Anch’io, dunque, questa raccolta premurosa, intelligente, minuziosa preparata da Greco e Monda l’ho letta sul serio, ricavandone frutti di riflessione immediata sia per la riconferma di vincolanti princìpi, sia per il rinnovato affanno di constatare la scarsa tenuta, al tempo attuale, di alcune convinzioni ritenute resistenti nella tempesta delle revisioni e scancellazioni in atto. Così che, alla prova diretta, si constata di continuo la friabilità delle nostre organizzazioni mentali e culturali, sottoposte da tempo a smantellamenti, ad aggressioni di ogni grado e provenienza.
Dovessi, solo per uno scrupolo o interesse privato, segnalare a me stesso quali – di questa complessa gamma di riflessioni aforistiche o di concitate e dense immersioni dentro problemi universali – mi sono risultate non solo più direttamente congeniali ma anche efficacemente sorprendenti nella loro acclarata semplicità e indispensabilità (che riescono ad aprire con mano precisa decisa e altrettanto leggera una finestra in diretta nel mare della riflessione), indicherei per prima una frase-affermazione di Hegel, che risulta totalizzante, definitiva; richiamando a una sostanza di vita, a una completezza operativa che sembrano, al momento, decadute o neglette: «Nel mondo nulla di grande è stato fatto senza passione». Cioè, senza la costanza di una volontà partecipativa conoscitiva che non sopporta soste, indugi, e che viene rinnovata periodicamente ed è alimentata dallo stesso spirito vitale. La passione (la passione del fare e nel fare che sembra uscita dal mondo, fuori dal mondo, nei nostri giorni) che non intende consegnarci vinti a questo mondo; e anzi ci sottrae ad ogni vento di sconfitta, riportandoci dentro alla speranza reale.
La seconda è di William Shakespeare, dentro a un’ironia sovrana: «Non ci fu mai un filosofo capace di sopportare pazientemente il mal di denti». Che coglie, centrandola, la verità con esattezza assoluta. Centra la saviezza supponente, reclusa fra le quattro mura coperte di libri, sottratta perciò alla verifica costante della vita (oppure difesa con lucida acredine dalla vita), ma che tenta o tende a sovrapporsi alla stessa vita, confondendo il grigio rarefatto di un ambiente per la reggia di un re, dove si è autorizzati a ritenere che tutte le proprie parole sono d’oro; mentre fuori si distende il mondo da considerare, scrutare, masticare in un delirio di fame mai consumata. Il mondo intero, senza alcuna esclusione di sentimenti d’odio o di amore.
Dentro a questa cornice dura come la montagna, si collocano i tasselli delle singole frasi, delle più complesse e complete affermazioni elargite a perpetua memoria da combattenti strenui, da grandi spiriti irrequieti.
Per questa irrequietudine che, ripeto, ci scuote e deve scuoterci da supposte o reali pigrizie di mente e di cuore, vada a loro la stessa gratitudine che riserviamo ai medici che curano il corpo affranto sottraendoci a un devastante dolore.
A loro, medici dell’anima e della mente, che curano il nostro malessere e tendono a tenerci davanti agli occhi una luce di attiva speranza, perché altrimenti il nostro peregrinare si compirebbe dentro a una caverna del niente. In mezzo al volo di notturni pipistrelli.
(Il testo è uscito come prefazione a G. Greco – D. Monda, Dizionario del malincomico, Rimini, Rusconi, 2004.)
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