Bibliomanie

Moralisti francesi del Novecento. Per il cittadino europeo d’oggi
di , numero 30, luglio/settembre 2012, Traduzioni, inediti e rari,

Come citare questo articolo:
Adriano Marchetti, Moralisti francesi del Novecento. Per il cittadino europeo d’oggi, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 30, no. 9, luglio/settembre 2012

Paul Claudel

Insigne esponente della letteratura cattolica francese del primo Novecento, Paul Claudel (1868-1955) ha in particolar modo trasfuso il suo potente afflato religioso nella produzione poetica e teatrale. Dopo un’adolescenza a contatto con un’educazione positivistica di cui non si stancherà poi di denunciare quella che gli appare come una assai misera visione dell’uomo, lo scrittore ritrova la fede degli anni precedenti (sarebbe stato illuminato durante la notte di Natale del 1886 nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi) e riprende la pratica religiosa. Pur restando convinto che la vita trascorsa in un ordine monastico sia la più degnamente vissuta, egli affronta la carriera di console e poi di ambasciatore, soggiornando sotto quasi ogni latitudine, dagli Stati Uniti all’Est asiatico, dall’Europa al Brasile e al Giappone. Allo stesso modo, la sua convinzione religiosa non lo allontana del tutto dalle tentazioni della passione amorosa (l’inizio del suo Journal si situa proprio nei dintorni della crisi provocata dalla fine della sua relazione con una donna già sposata). L’approfondimento dei testi sacri e l’osservazione della realtà fanno intanto maturare quei tratti di un’esperienza che si ritrovano in un’opera non esente da inclinazioni autobiografiche. Claudel delinea l’ideale di un uomo alla ricerca del volere di Dio nella solidarietà conoscente e co-nascente (egli definisce il connaître come un co-naître) con il mondo nel quale è inserito. L’autore vede il poeta come colui che ridisegna l’uomo e il mondo per trasmettere l’essenziale incitamento all’adesione a Dio. Tra le sue opere teatrali, spesso riprese per dar luogo a nuove versioni, ricordiamo La jeune fille Violaine (1892…) (che sarà poi, a partire dal 1912, L’annonce faite à Marie), Partage de midi (1906…) e Le soulier de satin (1930…); la sua poesia vive ad esempio nelle Cinq grandes odes (1910). Claudel non manca a tratti di cadere nella sovrabbondanza simbolica, nella difficoltosa gestione degli avvenimenti presentati, nell’assolutismo o nel didascalismo del pensiero, nell’ampollosità delle parole. Il precoce lettore di Rimbaud, il frequentatore dei Mardis di Mallarmé lascia però la sua impronta anche per quel versetto di derivazione biblica, dal ritmo estremamente studiato, con il quale ha racchiuso la realtà nelle sue opere. Alla fine della sua carriera di scrittore, cui contribuiscono al contempo testi teorici ed altri interventi in prosa, l’autore fa parte degli Immortali dell’Académie Française e gode, se non dell’immortalità, di una considerazione di sicuro prestigio. Il diario, che l’accompagna dalla maturità alla morte (1904-1955), è per Claudel, com’è immaginabile, un luogo di annotazioni varie: letture, riflessioni, fatti personali… Ne emerge il carattere forte dello scrittore, il quale dipinge una visione religiosa, marcatamente biblica, dell’uomo sulla terra. Talora il pensiero si concretizza in poche, semplici parole; talora, specie traendo spunto da un riferimento preciso, esso si articola maggiormente. Le note qui proposte (sciogliendo le abbreviazioni e, visto il rapporto abbastanza libero che Claudel pare avere con la datazione, indicando il solo anno, il numero di quaderno e quello della sua pagina) si contraddistinguono per una certa brevità e densità formale e testimoniano la tensione morale che pervade il pensiero dell’autore, con i cui scritti esse entrano in risonanza. Diversamente dall’opera poetica e teatrale, i frammenti rifuggono però da una ricercatezza voluta. Si tratta di testi di natura privata, non immediatamente assimilabili all’opera via via pubblicata con la sua esigenza di una scrittura ‘alchemica’ (per dirla con Rimbaud). C’è poi il fatto che scopo del pensiero non può essere la semplice attrattiva esercitata dalla formula che lo palesa; suo scopo è trovare bene, anche a costo di dover poi rinunciare alla suggestione delle parole. Così, filosofi e moralisti classici hanno lavorato alla formula efficace, ma non sempre hanno visto bene: paragonare la vita ad un sogno è suggestivo, ma inesatto. Resta comunque in Claudel un’energica impronta volontaristica che permea pensiero e parole fino a non far temere loro l’incompiutezza, lo stridore, la bruschezza o, talora, la categoricità un po’ dogmatica. Essa rende vivo anche concretamente quell’uomo, lucidamente attivo nel percorso verso Dio, che incessantemente ispira lo scrittore.

Diario

La realtà, non solo la realtà accessibile ai sensi, ma la realtà totale delle cose “visibili e invisibili”1. Una poesia davvero universale, cattolica. (1906, I, 55)

La materia che spiega la vita. È come se per capire un Tiziano analizzaste chimicamente i colori di cui si compone. No, filosofi, tutti quei colori numerati e eternamente restituiti al caso non faranno mai un Tiziano. Poiché mancherebbe loro sempre il valore di segno. (1906, I, 57-58)

Lo scettico è un uomo che non sospetta di nulla. (1908, I, 100)

La vita sarebbe ancora sopportabile senza i divertimenti. (1909, I, 113)

Questa scienza che anziché aprire le menti le ostruisce. (1909, I, 113)

Cattivo scrittore, uomo disonesto. Chi non sa quel che dice, come credere alla sua parola? (1909, I, 119)

La croce oltrepassa l’uomo in tutti i sensi. (1910, I, 162)

Per colui che crede tutto avviene nell’oro come nei mosaici. (1910, I, 162)

Il carattere, più raro dell’eroismo. (s.d., II a, 9)

Tra due parole bisogna scegliere la più semplice. (s.d., II a, 9)

Quel che dice Pascal dell’esprit de géométrie potrebbe essere applicato a tutte le cose umane nelle quali si vorrebbe introdurre un rigore incongruo. Gli ideologi, gli studiosi del Politecnico, i sociologi, i socialisti. Leggere parola per parola. (1910, II, 6)

Fascino esercitato su Pascal da uno spirito mediocre e superficiale come Montaigne. Tutti i motivi di scetticismo che adduce sono ben poca cosa e figuravano da molto tempo nei cataloghi di sofismi. Ad esempio, quello che dice sul fatto che non ci sia più motivo di amare una donna per la bellezza o un uomo per lo spirito di quanto ce ne sia di ritenere un uomo inconsistente dai vestiti, poiché sono, queste, semplici qualità passeggere. Non vede che, nei primi due esempi, c’è un legame essenziale del soggetto con l’accidente e che quest’ultimo, venendo meno, non lascia intatto il soggetto. C’è differenza tra un possesso e una proprietà. Un po’ di quella scolastica così disprezzata glielo avrebbe insegnato. Tutto il resto è della stessa forza. Quando Pascal parla di sé stesso, la cosa è ben diversa. (1910, II, 7-8)

Il “divertimento” di Pascal, sempre passare da un oggetto all’altro. Sempre quest’ingiustizia di Pascal di rimproverare all’uomo come un vizio ciò che costituisce la sua stessa natura. Deve fare l’angelo? “Tutti i suoi mali vengono dal non saper restare in stato di quiete in una camera”. Allo stesso modo, se muore, è perché ha torto a vivere.
All’uomo passeggero danno forma gli stati successivi della natura, che passa come lui; viviamo con i sensi nel presente, viviamo con l’immaginazione nel futuro o nel passato. Non si possono tuttavia immaginare o desiderare cose presenti e tutte le nostre facoltà devono essere impiegate. Non c’è motivo di assumere questo tono da censore. (1910, II, 15)

I filosofi sono davvero psicologi da poco. “La vita è un sogno che ha buona consistenza” (Leibniz, Pascal, Descartes, Montaigne, ecc.). Il colore non è lo stesso. C’è un elemento che nessun filosofo ha visto, la tensione interna che accompagna ognuno dei nostri atti, pensieri o delle nostre parole. Tra sogno o veglia, è tutto diverso. In uno stato siamo attivi, nell’altro passivi, messi in moto da altrove. Altra differenza: la complessità. Ancora: solo l’immaginazione entra in gioco, mai l’intelligenza. Nessun controllo sulle nostre operazioni mentali, che non governiamo più.
Ci sono molte altre differenze; a dire il vero, sono due stati totalmente distinti, come vedono tutti tranne questi facitori di paradossi dalla mente alterata. (1910, II, 16)

Bisogna portare la croce prima che la croce porti noi. (1911, II, 46)

Morale e arte. La passione è colpevole, ma la compassione non lo è mai. (1912, II, 76)

La morte è sempre accidentale. Vogliono togliere all’anima l’immortalità ed ecco che la ritrovano nel corpo. (1912, II, 84)

Non prendere per carità il desiderio di essere sbarazzati della vista e del pensiero della sofferenza altrui. (1912, II, 88)

Le zanzare, i flagelli, la noia, la guerra, per costringerci a ricordare che non siamo fatti per una felicità compatibile con questi luoghi. Non siamo lasciati in pace qui. (1917, IV, 10)

Felicità è essere una causa, e servire più o meno a Dio. (1918, IV, 23)

L’umiltà è una fonte non solo di virtù, ma di buon umore. (1920, IV, 56)

Sta’ zitto. Lascia esistere Dio. (1923, IV, 97 v)

Il segreto della santità è lasciar fare a Dio e cessare di essere di alcun ostacolo alla sua santa volontà. Una fiducia ingenua. (1923, V, 22)

Ci sono operazioni della mente, composizioni del cuore così delicate da non poter riuscire se le guardiamo. Devono farsi da sole, e nel frattempo la mente dev’essere distratta, intenta ad altro, che non le sottragga le forze ma sia sufficiente a trattenerla. Da ciò, quei ritornelli, quei versi privi di senso che si trovano in Arthur Rimbaud e al riparo dei quali la mente può lentamente “virare”. La madeleine di Marcel Proust2. Le conversazioni insignificanti mediante le quali si abbraccia tragicamente un paesaggio. È anche in parte il ruolo della musica, che riduce in cattività la parte indiscreta e critica della nostra mente. (1924, V, 34-35)

La felicità non è lo scopo, ma il mezzo della vita. (1926, V, 105)

Solo da me tu attingi il diritto e l’idea e il potere di dire Io. (1926, V, 113)

La morale non è la negazione della libertà, ne è la garanzia (contro il brigantaggio e la schiavitù delle passioni). Allo stesso modo, essa non è l’arte, ma è una condizione dell’arte. (1926, V, 129)

L’amore. – L’amore ha ragioni generali. La bontà, la bellezza, la grandezza di Dio, la sua misericordia, la sua redenzione, il suo carattere di causa, – e ragioni particolari, il nostro rapporto intimo con lui in quanto nostra causa, tutte le varie abilità della nostra misericordia. – Sono, tutti questi, le cause e i motivi dell’amore, non è l’amore. L’amore è uno stato a parte e di per sé interamente indipendente dalle proprie cause. Uno stato di sensibilità dell’anima per Dio, la volontà paralizzata in ogni altra cosa che non sia uno stato di diletto e di adeguamento. (1927, VI, 9)

Dio nella comunione ci chiede non di comprenderlo, ma di inghiottirlo. (1928, VI, 69)

A mano a mano che me ne allontano, la mia vita passata si disegna come un’isola. (1928, VI, 72)

Ci sono cose che conservano la loro virtù profonda, la loro umile santità solo se non ci si accorge di esse, se le si dà per scontate. Ad esempio la patria e la famiglia. Ecco perché i romanzieri nazionalisti e tradizionalisti sono tanto odiosi. Vi è in ciò una mancanza di gusto, qualcosa che urta profondamente. Se c’è un ambito nel quale è essenziale non far pose, astenersi da qualsiasi chiacchiera, è questo. Lasciamo tali cose ai nuovi ricchi, alle nazioni rozze. (1929, VI, 106)

Il silenzio su di sé: grande virtù. (1929, VI, 106)

Populum ad te clamantem propitius respice3. Non solo il popolo degli uomini e di tutti gli esseri viventi, ma il popolo dei pensieri, delle idee, dei ricordi, delle speranze, dei sentimenti. Tutta la nostra popolazione interiore… (1929, VI, 107)

La parola passione è scelta male per esprimere uno stato essenzialmente attivo. Ciò che rende la passione viziosa non è la sua intensità, è 1°/ la sua causa, che è l’abbandono più o meno completo di noi stessi a uno stato affettivo, 2°/ il disordine che comporta nel nostro stato generale, dando un’importanza pervasiva ad una delle componenti della nostra psicologia. Ma se questa doppia imperfezione non è all’opera, la passione, che tende il nostro essere verso il proprio fine, che lo informa, che mette con intensità il nostro sentimento a livello della ragione, è una virtù, virtus, ciò che è costitutivo dell’uomo. (1931, VI, 171)

La conoscenza si dissolve nella Grazia come il sale nell’acqua. (1933, VII, 25)

Quando un uomo soffoca, quello che desidera è respirare, e non il piacere di respirare. Così, l’amore di Dio, che è il bisogno di Lui, e non il piacere che accompagna l’appagamento di questo bisogno. (1933, VII, 37)

La stupidità spinta fino a un certo punto confina con l’oscenità (questo riguarda Voltaire). (1936, VII, 83 v)

Scritto con inchiostro bollente. (1936, VII, 93 v)

Cose talmente invisibili che bisogna essere ciechi per trovarle. (1938, VIII, 37 v)

La carità cristiana nel Gran Secolo – Sono poco sensibile alla pietà e vorrei non esserlo per niente. Non c’è tuttavia nulla che non farei per il sollievo di una persona afflitta, e credo effettivamente che si debba far tutto, fino a testimoniarle anche molta compassione per il suo male, poiché i disgraziati sono così sciocchi che ciò fa loro il più gran bene del mondo. Ma credo anche che occorra accontentarsi di darne testimonianza ed evitare accuratamente di provarla. Questa passione non serve a niente all’interno di un animo ben fatto, serve solo ad indebolire il cuore, e dev’essere lasciata al popolo, il quale, non agendo mai secondo ragione, ha bisogno di passione per essere portato a fare le cose (La Rochefoucault, contemporaneo di S. Vincenzo de’ Paoli! Massime4 – Citato da Mauriac). Misereor super turbam5. – Il gran secolo cristiano! (1939, VIII, 45-45 v)

Ogni quadro porta con sé un quadrato di silenzio e un motivo per il nostro cinguettio interiore di interrompersi. (1941, VIII, 88)

Ogni giorno, andando a messa, passo su una bilancia. (1941, VIII, 89 v)

Non pregare: lascia Dio pregare con te (come si dice lavorare con una vanga). (1942, VIII, 97)

Non ci si prepara alla morte. Ci si stacca dalla vita. (1942, VIII, 112)

L’esistenza non è solo un fatto, è un atto: Dio esiste il proprio essere. Esistere è un verbo attivo. (1947, IX, 62 v)

Dio sensibile al cuore, non alla ragione. – Tutto il nostro ragionamento si riduce a cedere al sentimento. – Per quanto tempo ancora occorrerà lottare contro queste detestabili affermazioni di Pascal? – L’uomo è uno, e invano si vogliono mettere le sue facoltà in guerra l’una contro l’altra. – Sono interamente contrario a questo scetticismo. (1948, IX, 87)

Un’arancia! Dividiamo. A te la buccia. (1949, IX, 101 v)

Ci si annoierebbe di meno se non si trovasse così noioso annoiarsi. (1950, X, 26 v)

Il riso di Voltaire e di Rabelais, il sorriso di Renan. Guai a voi che ridete! (Luca, VI, 25). (1954, X, 86)

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HENRY DE MONTHERLANT

Nato da una famiglia cattolica della nobiltà catalana, Henry de Montherlant (1895-1972), fin dalla sua prima formazione è immerso nella lettura degli antichi e attratto, in particolare, dal pensiero stoico. Ad accentuare la sua inclinazione a rifugiarsi in un’orgogliosa solitudine ha probabilmente influito anche un’inconfessabile inclinazione omosessuale. Raggiunge la notorietà negli anni venti con il romanzo di guerra Le Songe (1922), con la raccolta di versi Chant funèbre pour les morts de Verdun (1924) e Les Olympiques, una silloge di racconti e testi poetici celebrativi delle virtù sportive, pubblicata in occasione delle Olimpiadi del 1924 a Parigi. Anche il romanzo Les Bestiaires (1926), ispirato alla tauromachia e dedicato al presidente della Repubblica Gaston Doumergue, che aveva autorizzato le corride in Francia, rivela una strategia dell’autore a non lasciarsi sfuggire le occasioni dell’attualità che possano assicurargli un vasto pubblico di lettori, ma nemmeno a correre il rischio d’infastidire lo spirito patriottico della Francia o il senso comune della moralità – egli pubblica solo nel 1967 la versione integrale del romanzo anticolonialista La Rose de sable, composto durante la sua residenza nordafricana nel 1931-1932, e soltanto nel 1969 Les Garçons, il romanzo della pederastia, iniziato nel 1914 e composto perlopiù nel 1947. I meccanismi della morale politica e dell’eroismo formano l’oggetto di alcuni saggi: Mors et Vita (1932), Service inutile (1935), L’Équinoxe de septembre (1938) e Le Solstice de juin (1941). Dal 1940, dopo il Grand prix du Roman de l’Académie attribuito a Les Célibataires (1934) e la celebrità mondiale ottenuta con la serie in quattro volumi di Les Jeunes Filles (1936-1939), Montherlant, neoclassico ostinato, si dedica soprattutto al “teatro psicologico”, la sola forma di teatro ai suoi occhi degna di tale nome, cimentandosi nel dramma “moderno” con Fils de personne (1940), Un incompris (1943), La Ville dont le prince est un enfant (1951, forse il suo capolavoro teatrale) e, con maggior successo, nel dramma “storico”: La Reine morte (1942), Le Maître de Santiago (1948), Port-Royal (1954), Don Juan (1958), Le Cardinal d’Espagne (1960). Negli ultimi anni, prima di darsi la morte, ritorna al romanzo: Le Chaos et la Nuit (1963), Un assasin est mon maître (1971). All’inizio, la sua arte è apparentemente sottesa dalla ricerca di una morale eroica, edonista e nichilista insieme, da opporre alla mediocrità e alla decadenza moderne, poi alla tentazione della pietà prossima a un pessimismo brioso, i cui esiti, in ogni caso, in virtù di un incontestabile alto valore stilistico, sembrano meno rischiosamente misurabili sul piano poetico della creazione. Risulta tuttavia difficile negargli la statura di moralista classico. Un Montherlant certamente più affrancato dalla propaganda si può scoprire nella scrittura intima, disinvolta e distaccata dei suoi taccuini, annotati dal 1958 al 1964 e refrattari, come testimoniano le pagine tratte da Va jouer avec cette poussière, alle questioni politiche e sociali. Qui una morale disincantata basata sulla vanità del tutto e insieme quasi un’euforia indipendente dal soggetto trattato, invitano a guardare le cose, a gioire della loro presenza e insieme preservarsene. Si poteva già leggere in epigrafe a un capitolo di Aux fontaines du désir del 1927 la seguente massima di Sainte Thérèse: “Il nostro desiderio è senza rimedio”.

Taccuini 1958-1964

“La passione dell’amore è assurda. È una invenzione letteraria e ridicola.” Valéry, Revue de Paris, aprile. Cos’altro ho ripetuto in tutta la mia opera? (13)

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I furbi credono che non si possa esserlo quanto loro. Lo si potrebbe, ma non lo si vuole, poiché bisognerebbe frequentarli. (13)

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Distruggiamo i nostri grandi uomini come distruggiamo le vecchie cravatte, quando quelli sono ancora validi, quando queste sono ancora buone: semplicemente perché li abbiamo visti abbastanza.
La cravatta non deve essere di qualità troppo buona giacché allora durerà troppo a lungo e, essendone esasperati, la butteremo via benché buona. Idem per i grandi uomini. (13-14)

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C’è chi non ha buona coscienza. C’è anche chi crede che occorra averla, ma lo crede per motivi impuri quanto quelli della propria cattiva coscienza. (14)

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Il modo più sicuro per guarirsi di un proprio difetto consiste nel vederlo in altri. (15)

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Capita all’odio di camuffarsi in stupidaggine. Si finge di non capire, per non dover lodare. (16)

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Rispetto fortemente, beninteso, il coraggio dell’uomo politico che con disinvoltura si espone ad essere assassinato. Aggiungo tuttavia la frase che presto al mio Don Giovanni ossessionato dalle donne: “Non occorre coraggio quando si è sostenuti da una passione”. E l’inclinazione per il potere è, di certo, una passione. (16)

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Non credo che sia malvagia, ma occulta tutti i pericoli dell’innocenza. (17)

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Il dolore dei gaudenti che invecchiano testimonia per, e non contro, i loro godimenti. (17)

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La paura di essere ingannati finisce per metterci nel medesimo stato d’inferiorità in cui saremmo se fossimo ingannati. (17)

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La socievolezza consiste meno nel frequentare gli altri che, in ogni affare, nel mettersi al posto altrui, o affinché l’affare si svolga umanamente, o soltanto per favorire la loro comodità. (18)

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In ogni affare non si deve mai perdere di vista chi è richiedente. (20)

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L’arte di vivere in società è l’arte di dare agli altri il sentimento che loro esistono per voi, o semplicemente che esistono. (20-21)

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Il sale della terra è il piacere che si prova facendo piacere a qualcuno. (21)

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Quanto tempo la gente perde a cercare di farsi amare! Ho scritto non so dove: “Essere amati è uno stato che si addice solo alle donne, alle bestie e ai bambini”.

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M’interesso unicamente a una morale che sia stata vissuta. La mia morale è stata vissuta. Predicata? Non predicata, bensì esposta nel deserto, voglio dire nell’indifferenza generale. Il che concilia mirabilmente idealismo (far profittare il mondo di quanto si crede essere la verità) e realismo (“Se la bocca contiene una verità, tienila chiusa”. Proverbio egiziano.) (21)

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Coloro che credono fanno cose per dare spettacolo a quanti non credono. (22)

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La morale di un uomo è nel cuore, non nei pantaloni. (45)

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A venticinque anni si è affaccendati per guadagnare soldi, a quarantacinque per abbagliare, a sessantacinque per essere occupati, a settantacinque per dimenticare. (46)

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Ragazzi e vecchi s’intendono perlomeno nella durata. (54)

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Il Faraone e la sua sposa, seduti su due troni, governano il mondo. Lui ha nome Silenzio e lei Impostura. (54)

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Il tenero affetto è, in una certa misura, come la storia. Basta conoscere bene tale periodo storico per conoscere tutta la storia, come basta amare molto un solo essere per conoscere tutta l’umanità. (59)

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Nelle società degradate, la potenza sociale non serve più a creare qualcosa; serve soltanto a far sentire il suo peso. L’idea di operare, agire, servire è scomparsa; ormai non resta che l’idea di umiliare. (59)

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Ciò che caratterizza i pensieri sulla morte è che tutti non contengono mai pensiero. /61)

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Il maschio, per reggersi, ha quattro piedi: la vanità, la cupidigia, la sensualità e la codardia. Là sopra, eccolo forte. (84)

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Che ci si abitui a tutto dimostra quanto siete radicati a fare male, o a non fare nulla, dal momento che tutti si abitueranno a tale misfatto e a tale nulla di fatto, e lo riterranno buono. (121)

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Sarebbe bene concludere la propria vita con un atto di fiducia, pur avendo fiducia solo a metà. (129)

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Gli individui che hanno la reputazione di avere un carattere difficile sono generalmente persone molto facili, ma a condizione che si sia corretti con loro. Le persone facili sono quelle che accettano che si sia scorretti con loro, abituate come sono ad esserlo altrettanto con gli altri. (148)

*

C’è un amore d’essere odiati da ciò che si odia. (148)

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L’incultura favorita sistematicamente in una nazione fa sì che vi sia più linguaggio comune solo per le cose volgari. Per quelle che non sono tali, parlate in patria una lingua straniera.
Anche la burla diventa incompresa, e da lì sospetta e perniciosa – in un tempo in cui tutto quel che è bene è pericoloso. (148)

*

Le imposture ci circondano come le montagne, e, oltre, lo spaventoso deserto della mancanza d’amore dell’essere per l’essere. Tale deserto è punteggiato di oasi, che sono il fascino dell’essere per l’essere. (149)

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Se si muore di morte naturale: “Come non volere ciò che vuole l’ordine delle cose?”
Se ci si suicida: “Come non volere liberarsi dell’ordine delle cose?”
Se si è uccisi: “Come mai non era accaduto prima?” (149)

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Così come la verità politica sconfina nella destra e nella sinistra, la Verità in sé sconfina su tutto, proprio tutto. (149)

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Gli uomini non accettano che tutto quanto hanno vissuto e fatto sparisca, e perciò inventano religioni di sopravvivenza. Io accetto pienamente che tutto quanto ho vissuto e fatto sparisca, e perciò non devo inventare una religione di sopravvivenza. (159)

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Nel tempo in cui tanta gente, per tutto il mondo, collabora, consciamente (complicità), inconsciamente (stupidità), o per vanità, o per paura, con la Potenza delle Tenebre, sono contento che la mia opera, perlopiù, collabori con la Potenza di Luce. Non certo con la luce morale, vantarmene farebbe sorridere, ma con la luce che chiarifica e discerne, cioè con la ragione. (159)

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La forza della vita e la forza della morte si mischiano dentro di me in dosi uguali, e direi volentieri: più muoio, più vivo. C’è un vigore della tomba.
La speranza e la non-speranza: due Geni addormentati che si ricoprono l’un l’altro con le loro ali. (161)

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Molte sono le cose che mancano al mondo contemporaneo. Ma, innanzitutto, l’intelligenza – la vera, non quella degli intellettuali – e la carità – la vera, non quella di quanti fanno carriera nell’altruismo. (182)

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La frequentazione di individui che non fanno alcun sforzo per nasconderci che siamo loro indifferenti è talvolta un riposo dopo la frequentazione dei falsi devoti. (182)

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La stupidità circostante finisce per impregnare gli esseri, di modo che ne diventano insensibili. Volentieri e sinceramente, essi convengono con voi della stupidità che ci avvolge, poi l’ammissione si conclude con una risatina – la classica risatina che conclude tutto in Francia, significando il menefreghismo generale. Subito, se riparlate stupidamente, diranno che siete un maniaco, ma questa volta senza risatina: con un’aria di condanna. (183)

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Si legge in Vauvenargues: “I nostri talenti sono i nostri migliori difensori”. Più tardi si pensa: “I nostri talenti sono i nostri peggiori accusatori”. Subito dopo si pensa: “I nostri talenti sono di volta in volta i nostri migliori difensori e i nostri peggiori accusatori. Un giorno la nostra morte li fermerà nell’uno o nell’altro di questi impieghi, secondo il caso”. (188)

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C’è una certa infamia del mondo esterno che vi ferisce quando non vi concerne, e non vi ferisce quando è esercitata contro di voi. (188)

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Negli incontri mondani, si tratta solo di partire senza che la vostra partenza sia notata. In quante cose della vita è proprio così! (189)

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Joë Bousquet

Joë Bousquet (1897-1950) sopravvive a dispetto dei pronostici dei medici. Fin dalla nascita si rivelano segni di un destino che formeranno in lui la coscienza di non meritare la vita e di essere incarnato in una forma quasi magica tra l’essere e il nulla. A tre anni, colpito da febbre tifoidea, resta per molti giorni tra la vita e la morte. Al liceo di Carcassonne si rivela un allievo precoce e indisciplinato. Dopo un soggiorno a Southampton nel 1913, sprofonda nella sregolatezza della vita oziosa e facile del giovane ricco borghese, indifferente all’idea di una carriera nella società, ma sensibile ai richiami della poesia e dell’amore. Il 27 maggio 1918 a Vally, pochi mesi prima dell’armistizio, il giovane tenente Bousquet è colpito da un proiettile tedesco che gli spezza la spina dorsale. Confinato in un’ala del palazzo paterno di Carcassonne al 51 della rue de Verdun, sospeso alle quotidiane dosi di oppio, nella separazione da sé e dagli altri, accoglie la propria vocazione poetica intonandosi all’annuncio di Hölderlin secondo cui «vivere è una morte, e la morte è anch’essa una vita». Nell’oscurità «scintillante» di quello spazio ha inizio il rigoroso esercizio della scrittura. Nel periodo 1932-1937 accadono gli incontri decisivi con Valéry, Gide, Béguin, con Paulhan che gli farà conoscere Magritte, Dubuffet e Fautrier. E vedono la luce le prime opere: Lumière, infranchissable pourriture; La Tisane de sarments; Le Passeur s’est endormi; Iris et Petite-Fumée. Nel 1939 redige Le Médisant par bonté, opera che risente degli insegnamenti di Aragon e in cui i fatti sociali sono raccolti e trascritti come miti. Nella solitudine e nella penombra della «chambre d’amour», diventa per Bousquet la condizione della lotta in cui l’attenzione per l’oggetto amato è al contempo il suo allontanamento. La trasfigurazione erotico-poetica, che gli sarebbe impedita dal corpo a corpo, trova nello sguardo, offerto dalle più belle pitture surrealiste che lo circondano, e nel velo della carne in sofferenza l’equivalente di un’ebbrezza cosmica, come in un sogno d’infanzia. Inchiodato al letto, incarna una figura quasi ideale dell’artista moderno. La sua camera, come quella di Proust, è l’immagine del luogo ritirato in cui lo scrittore veglia, attento a ciò che accade, apparentemente a prescindere da se stesso, come se una coscienza impersonale ne assumesse, in un realismo immaginario, la regia. Dal 1945 al 1950, le sue riflessioni sono sempre più orientate verso le questioni che gli scritti di Paulhan avevano sollevato intorno al linguaggio. È quest’ultimo che gli pubblica alcuni suoi cahiers, arbitrariamente raggruppati sotto il titolo di Traduit du silence e lo incoraggia a fissare le sue visioni in una lingua trasparente e disciplinata dalla rima: nasce la raccolta di poesie La Connaissance du Soir (1945). L’anno successivo pubblica due romanzi, Le Meneur de lune e Le Roi du sel. La lenta accumulazione di scrittura e la conflagrazione dei generi che l’accompagna si svolgono sotto i segni imperiosi che sono anche i tratti di un martirio. Quando tenebra e luce convergono al cuore della ferita, in una doppia notte o doppia luce, la materia nera e primordiale che ne scaturisce è la parola, la nostra ombra con cui siamo chiamati a coincidere (L’Œuvre de la nuit, 1946). Quel golfo d’ombra che è la vita di Bousquet non manca degli spasimi indispensabili alla discesa, né del soccorso obbligato della droga, il «meraviglioso liquore». Le vampate di quel fuoco illuminano parole di lacrime e d’amore, favoriscono la provvisoria condizione psicofisica per l’epifania visionaria. Ogni rischio è accettato: l’oppio «può offrire un po’ di spirito solo a forza di annientare il cuore, il miserabile paradiso di coloro che sono senz’anima». Le parole, come lampi, giungono prima dei pensieri, ma tale precedenza non ha analogie con la pratica della scrittura automatica dei Surrealisti. Né spiritualizzazione della materia, né materializzazione dello spirito. Dal momento che la natura umana è inseparabile dalla caduta originale, non resta che fare della propria negatività il principio di conoscenza. Les Capitales (1955, post.) è l’ultimo omaggio a Paulhan che il poeta, ormai consumato dalla sofferenza, porta a termine poco prima di morire. L’antinomia che soggiace all’opera della Creazione trova riposo nell’indicibile nome di un Dio che ha abdicato alla propria divinità riducendosi a silenzio per dimorare, in una forma sacrificata, nel cuore di ogni creatura imperfetta, nella sua ombra.

Note d’inconoscenza

Dipingo quegli esseri che si possono realmente vedere solo dimenticando di esistere. (22)

Il pensiero senza immaginazione è un fuoco divorante.
L’immaginazione c’inganna con i suoi contributi alla sua reale virtù. (46)

L’illusione è sacra: nega ciò che siamo senza toccare l’essere; solleva la nostra persona e, senza idealizzarla, le presta la leggerezza di un’idea. (47)

La vita è la superstizione dello spirito. (50)

Il vero problema mistico, compreso l’istante della morte, è la naturalizzazione dell’anima. (51)

Il nostro cuore è nato, non noi; e si tratta d’integrare alla coscienza l’atto di nascere. (51)

«Essere gentile, calmo e forte» (J.)
Rompicapo dell’espressione popolare: non immaginare la vita dall’alto di un pensiero, ridiscendere nell’esistenza.
Ogni parola spera: resurrezione di una speranza in una coscienza disperata. Essa si richiama all’evidenza disincantata secondo la quale il giorno è una prigione di luce. Ogni parola incanta un disincanto. (60)

L’uomo è l’opera dello spazio: la sua vita sarà di raffigurare uno spazio che sia la sua opera. (78)

L’uomo ha tutti i poteri eccetto i poteri su se stesso che, anche se conquistati, non sono mai una sua conquista. (80)

Utilizzare fino in fondo allo sguardo il privilegio di vivere. (80)

Quello che ci accade è già morto altrove. (81)

Il geloso: la sua salvezza in due tempi… Il lamento e l’ironia. Vede se stesso in un soprabito a lutto vagare a diciassette anni nella città notturna. Dietro il sorriso intravede il ragazzo che irrideva le collere paterne. (88)

L’originalità della lingua greca consiste, per un mirabile e unico fenomeno, nell’afferrare l’idea fra l’istante in cui è concepita e quello in cui cerca la sua espressione nelle palpitazioni dello spirito. (88)

Ci manca una sensazione: spetta alla poesia trovarla e porla come base alla costruzione sensibile, dunque razionale. Quella sensazione che in noi non è distinta poiché coincide con il sentimento dell’esistenza. (90)

La notte in noi è quella che avvolge il mondo. (91)

I sogni, nella notte senza porte, sono le ombre di ciò che è più nero del buio. (92)

Per la mia conclusione surrealista?
Caduto con un’anima nel mondo angusto dei miei occhi.
Un’anima è caduta nella rete.
Il mito di Narciso: l’anima si dibatte tra l’uomo e la sua immagine… (94)

La ragione vuole frodare l’amore, il rapporto di ciò che è con ciò che lo trascende. (99)

Se tutti gli uomini diventassero omosessuali, la filosofia non saprebbe prevedere la fine della specie. (99)

Occorre che la vita sia uno scandalo per la ragione. (102)

Poesia: l’innominata che si manifesta nell’operazione delle parole tra loro e che il poema impone. (106)

Il dramma è che l’amore-passione inventa il mondo – ed è persino capace d’inventare i corpi; e la vita… e, forse, altro non è che il sogno dei morti. L’amore, finché è spirito, non saprebbe rivaleggiare con i corpi che creano un’anima… Tutt’al più avete il diritto di sostenere che l’amore-passione non ama la vita. (127)

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Note-Book

Bene e male concorrono all’esistenza delle cose. Il luogo in cui sono intimamente associati nella manifestazione è il mondo; e sarebbe il mondo dell’amore, se l’amore non vi fosse presente come amore dell’odio. Chi fa regnare la purezza, nel bene, come nel male, opera all’affrancamento dell’essere. (25)

La maggiore difficoltà è volere assolutamente ciò che si vuole. (28)

Gli uomini senza apparenza esteriore non hanno fondo. (28)

Occorre enunciare verità senza svegliare la ragione. (29)

Di tutto quanto ti circonda fa’ un mondo in cui gli occhi siano il cammino del cuore. (30)

Meglio sarebbe una menzogna piuttosto che una verità mal fatta. Poiché l’assenso è l’unico sentimento ad avere un valore più elevato della ragione. (35)

Alla logica della percezione occorre sostituire una fisica della percezione. (35)

Il bisogno di scrivere è l’immagine di un appetito più grande dell’uomo, la creatura di un bisogno ignoto. (36)

Il destino degli uomini sarebbe condannato dalla loro morte se di questa il loro modo di morire non fosse la salvezza. (48)

Il pensiero è la visione spirituale di un’azione. (48)

Un poeta è un attore che improvvisa la sua parte invece di averla imparata. (49)

La vita è indivisibile, l’uomo che ha un cuore non ne raccoglie i frutti. (52)

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Claude Roy6

Claude Roy (1915-1997), il cui vero cognome è Orland, trascorre la giovinezza sotto il segno di una passione contro-rivoluzionaria che lo avvicina alle idee conservatrici di Maurras e dell’Action Française. L’esperienza della guerra lo induce però a cambiare orientamento, facendolo entrare nella Resistenza e, nel 1943, aderire al Partito Comunista (ne uscirà in seguito alla sua condanna dell’intervento sovietico in Ungheria). La sua vita è a lungo occupata da un’attività di giornalista e saggista; i suoi interessi e viaggi lo portano a seguire con partecipazione le situazioni politiche e gli aspetti della civiltà del mondo intero. Il suo sguardo va in particolare alla Cina, cui dedica più libri, ma anche ai paesi dell’Est e agli Stati Uniti. Contrario ad ogni forma di totalitarismo, analizza impietosamente le condizioni del potere in U.R.S.S. e cerca con forza di demolire il fascino esercitato dalla figura di Mao su numerosi intellettuali francesi. Le sue osservazioni denunciano una certa tendenza dell’uomo ad affidarsi all’ideologia nella sua valenza di surrogato religioso. Parallelamente a questo versante della sua scrittura, Roy imbastisce un’opera letteraria multiforme: poesia (Sais-tu si nous sommes encore loin de la mer?, 1979), romanzo (Le malheur d’aimer, 1958), autobiografia (Moi je, 1969; Nous, 1972; Somme toute, 1976), libri per bambini e teatro, cui si aggiungono interventi di critica letteraria e traduzione. Dal 1977 fino alla sua scomparsa, anche per l’esperienza di una grave malattia, egli coltiva assiduamente una riflessione che consegna in vari libri di pensieri. La raccolta Temps variable avec éclaircies (1984) appartiene a quest’ultimo filone e si presenta come un insieme di dodici raggruppamenti di massime o annotazioni brevi posti ognuno sotto un segno zodiacale (qui, per ogni raggruppamento sono state scelte tre riflessioni da punti diversi del testo, sostituendo l’indicazione grafica dei segni, usata da Roy, con la designazione lessicale). Il richiamo al tempo atmosferico del titolo è da leggere ovviamente in senso metaforico come indicazione degli alti e bassi della vita e dei momenti favorevoli che essa non manca comunque di riservare. I segni zodiacali potrebbero poi essere considerati come semplici riferimenti ai periodi dell’anno che ad essi corrispondono. Il libro sarebbe insomma una specie di diario in cui alle precisazioni cronologiche tradizionali si sostituiscono, con la stessa funzione, quelle astrologiche. Anche se tale ipotesi non è priva di una sua plausibilità (ma diversi riferimenti portano a periodi dell’anno che non coincidono con quelli dei segni), anche se Roy deve aver utilizzato i segni contando di suscitare la sorpresa e la curiosità del lettore, l’organizzazione del volumetto si presta a suggerire l’assimilazione delle annotazioni alle sentenze delle stelle, alle previsioni, ai consigli, alle messe in guardia di cui sono fatti gli oroscopi. Tale prospettiva, ancor più di quella cronologica, permette di trattare i pensieri come insiemi dotati di una certa concatenazione tematica (ogni segno ospita vari temi, che diventa però anche interessante correlare fra loro). Si pensa al resoconto delle diverse inclinazioni e tendenze umane, così come si parla, per l’influsso degli astri, delle inclinazioni e tendenze che essi fanno sorgere. E se “astra inclinant, sed non determinant”, le brevi note potranno anch’esse, al pari di quanto avviene negli oroscopi, stimolare una riflessione ed esortare. Riguardo al gioco di distribuzione dei temi per segno, esso finisce per stemperare una probabile gratuità a partire dal carattere tutto sommato omogeneo dei fatti e delle propensioni umane osservati e del tono che li accompagna. Ricercando attraverso la scrittura stessa e ritrovando l’impronta della tradizione moralistica, Roy denuncia in generale la sicurezza dell’uomo di essere conoscitore e padrone di sé, dell’altro, del mondo e della verità. Non sorprenderà che egli mostri un’acuta sensibilità verso gli avvenimenti della storia novecentesca, della quale mette in evidenza la cecità ideologica e le spesso atroci conseguenze che ne sono derivate. Per Roy, le convinzioni sono fallaci; la vita è soprattutto una questione di benessere interiore. Alla pretesa onnipotenza, egli oppone un atteggiamento di moderazione, dubbio o rinuncia, a tratti colorato delle tinte del pensiero orientale (si veda l’interesse per la Cina). Gli accenti sono lievi e sorridenti, in accordo con la condotta proposta e d’altronde con le “schiarite” annunciate dal titolo. In fondo, anche il pessimismo assoluto è un pernicioso sistema e si rovescia nel suo contrario: “L’eccesso di pessimismo mi mette di buon umore”. I pensieri, costruiti ma brevi (“Lo stile secco dura, perché è il più carico di emozione. Lo stile enfatico è solo sentimentale”), conservano un sapore colloquiale. Sono linee dalla rapida, sfumata assertività, affabile e un po’ casalinga, linee forse davvero parenti di quelle altre linee che, sfogliando un giornale, finiamo per leggere alla pagina “Oroscopo”.

Tempo variabile con schiarite

[Ariete]

Il prossimo: a quale distanza ciò che non è te comincia ad essere prossimo?

Si è sempre l’imbecille di qualcuno. Si guadagna tempo ad essere il primo a ridere di sé.

Amore inquietante, quello di chi ama se stesso senza sapere chi è sé.

[Toro]

La verità è troppo crudele perché la si possa guardare senza ridere e dire senza scherzare.

Uomo appagato e non felice: vorrebbe in più meritarlo.

Mentire talvolta riposa, ma mentirsi stanca.

[Gemelli]

L’ingiustizia non teme mai di essere a corto di braccia, né il tiranno di boia.

Le sue idee sono deboli, ma le sue convinzioni forti.

“Incolto”, è stato solo alla scuola dell’intelligenza, dell’esperienza, del coraggio, della vita vissuta.

[Cancro]

Gli “attaccamenti”, i “legami di parentela”, la “cellula” familiare; di volta in volta, il peso delle catene che ostacolano e il riposo dell’àncora gettata.

Ha troppe preoccupazioni per conoscere l’infelicità.

Quel che trasmettono di più prezioso e di più universale le arti, la poesia non ha niente a che vedere con i saperi, i sistemi, le culture, le strutture sociali. Il sorriso di Reims, il sorriso greco-buddista, il sorriso della testa di terracotta di Ife esprimono un modo di essere, uno stato d’animo, una stessa pace sorridente del didentro.

[Leone]

È probabilmente impossibile non cominciare la vita imitando. Ma bisognerebbe cercare di non terminarla imitandosi.

Esagera ciò che sente, sempre un po’ sentimentitore.

Ammiro Pascal, che per designare le nostre contraddizioni parla di contrarietà: parola che dice tutto in uno.

[Vergine]

Lo stile è l’uomo. Spesso colui al quale ci si rivolge.

L’eccesso di pessimismo mi mette di buon umore: Shopenhauer, Cioran.

La vita propone costantemente ciò che chiamo la “scelta del ciliegio”: appendervi le lamelle metalliche il cui rumore allontana gli uccelli, preserva le ciliegie e m’impedisce di dormire. Oppure dormire felice, far contenti gli uccelli e mangiare meno ciliegie.

[Bilancia]

Cos’è peggio: vivere in ritardo sui propri pensieri o pensare in ritardo sulla propria vita?

Che problemi personali cerchi di risolvere senza saperlo, proponendo una soluzione radicale ai problemi del mondo?

Guerre fra “socialismi”: due finzioni si oppongono, e la morte diventa realtà.

[Scorpione]

Non giudico soltanto le filosofie, le regole di igiene, le religioni, le discipline dal sapere o dal potere che danno, ma dallo stato interiore che comunicano.

La debolezza inventò l’intelligenza, come i bambini hanno inventato la bugia, le donne l’astuzia, i servi la malizia, gli schiavi la satira e la specie umana la matematica.

La saggezza dei proverbi è di contraddirsi.

[Sagittario]

Dire la verità, lusso degli uguali. Dirsela, essere uguale a se stesso.

Nella tribù in cui si ingrassano con la forza le femmine fin dall’infanzia, le donne sostengono che una donna non possa correre, che ciò non si sia mai visto né si vedrà mai.

La disputa del teologo e del mistico non avviene soltanto nelle religioni, ma in tutti i campi. Il teologo cerca di ragionare l’irragionabile, quando il mistico cerca solo un modo di essere – liberato.

[Capricorno]

Il mio “buon umore” deriva dal fatto che, non aspettandomi prudentemente niente di buono, sono felicemente sorpreso.

Coesistere nella mia gatta di un bambino amante del gioco e di un saggio di mille anni.

Con un pennarello nero, spulcio di tanto in tanto in questo taccuino le note davvero troppo stupide. Ma quelle che non trovo stupide? La nostra stupidità profonda è visibile solo agli altri. È una delle utilità della vita in società: gli altri ci vedono, ci valutano, ci giudicano.

[Acquario]

Non sono incupito dalla morte che avanza, ma solo adombrato.

Non si possono approvare sempre coloro che si amano: soltanto approvarli di essere.

L’ala dell’uccello possiede forse l’aria che la sostiene?

[Pesci]

Mi chiese un’opinione, fece buon uso delle critiche e non me lo perdonò mai.

Volere non volere, non male. Dimenticare di volere: meglio.

La risposta a qualsiasi domanda non sarebbe una risposta, ma che non ci fossero più domande.

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PHILIPPE JACCOTTET

Philippe Jaccottet (1925-) è uno dei grandi poeti viventi che da mezzo secolo, attraverso la luce mobile e gli orizzonti dei paesaggi, cerca di riconciliarci alla terra. Durante gli studi a Losanna, decisivo è il suo incontro nel 1941 con il poeta valdese Gustave Roud che gli fa scoprire Novalis e Hölderlin. Esordisce con Requiem (1947). Nel 1953 lascia la natia Svizzera per stabilirsi definitivamente in Provenza (Grignan) e dedicarsi alla sua opera. Nello stesso anno pubblica la raccolta L’Effraie et autres poésies e nel 1957 L’Ignorant. Contemporaneamente svolge una notevole attività di traduzione (Petrarca, Tasso, Leopardi, Ungaretti, Montale, Cassola, Luzi, Góngora, Goethe, Hölderlin, Musil, Rilke, Mann, Mandelstam) che proseguirà e, in parte, raccoglierà nell’antologia D’une lyre à cinq cordes 1946-1995 (1997). Gli splendori fuggevoli della natura gli suggeriscono atteggiamenti di umiltà e pazienza, nonché una certa diffidenza e un’esitazione di fronte a immagini troppo belle e automatismi lirici. Tale reticenza che, oltre a temperare le facilità dell’entusiasmo, dispone il poeta alla rigorosa attenzione delle infime e persino quasi impercettibili chiarità del visibile, costituisce l’essenziale di una morale poetica di cui le note e i taccuini (Journées, 1977; La Semaison, 1984; La Semaison Seconde, 1996; La Semaison, III, 2001) sono la progressiva illustrazione. La cronaca del lento cammino, delle sue resistenze e delle sue prove è versata con singolare trasparenza nei saggi L’Entretien des Muses (1968) e Une transaction secrète (1987), nel racconto L’Obscurité (1961) e nelle prose poetiche di Éléments d’un songe (1961) e di Paysages avec figures absentes (1970). Nella sua evoluzione, Jaccottet approda a forme brevi, un tipo di notazione prossima all’haiku, inventando una scrittura originale che mescola poesie e prose riflessive, descrizioni e notule – iterate variazioni e riprese sugli stessi enigmi: Pensées sur les nuages (1983), À travers un verger (1984), Cahier de verdure (1990). Con parole di chiarezza cristallina, Jaccottet accompagna il lettore in parchi incantati, ma la stupefazione si aggira nella notte alla fine del sentiero: dall’evidenza dell’elementare scaturiscono le perplessità, le interrogazioni, i presentimenti che la bellezza del cosmo contenga una realtà più pura e, al contempo, i timori di essere ingannato dalle visioni. La sua ostinata attenzione al visibile corrisponde all’aspirazione di un’opera più musicale che pittorica. La sua morale poetica è in definitiva una fedeltà alla materia delle cose e alla forma, una compassione per la carne restituita dalle apparenze. Rifiutando tanto le chimere dell’astrazione intellettuale quanto i richiami della pura immanenza, Jaccottet resiste nell’ambiguità dei chiaroscuri e nella ponderazione del limite e dell’illimitato.

Taccuini 1995-1998

La semina


Semina: Dispersione naturale dei semi di una pianta.
Littré.

Il sentimento, sempre più acuto, della mancanza di tempo, la fretta. Le foglie assolate, sempre più rare – come s’imbrogliano le vele. Queste ultime foglie animano una specie di fuoco sotto la pioggia, che riscalda appena un poco. Cigolio dei rami, scricchiolio delle ossa; come quello delle paratie di un battello nel mareggio grigio, freddo, minaccioso dell’oceano. Queste cieche onde, all’infinito, quanto mi sono parse ostili, a forza d’indifferenza! Sulle onde delle montagne, si può almeno posare il piede. Lì, erano come altrettante tombe pronte ad schiudersi, a spalancarsi, fosse fredde, senza fondo; sudari incessantemente dispiegati, ripiegati. Sempre rifiutando il minimo cero, la minima croce, il minimo fiore. Colori d’acciaio, di ferro verderame, di ghiaccio. Il più piccolo uccello smarrito lassù era come una fiammella rischiarante una caverna. La luce del sole, incontrando quelle acque, diventava clicchettio di armi antiche, vecchia epopea estenuante vista e spirito. (18-19)

*

Alcune raffiche di vento forte fanno prendere il volo alle più alte foglie del tiglio, tutte insieme, come uno stormo di uccelli.
Più lontano, nel parco, gli alberi sfogliati, come tanti ceri che d’un tratto accende il sole riapparso dietro un sipario di nubi nere. Non si vede la cima delle montagne – ma c’è questa piccola foresta di ceri accesi ai loro piedi – che giubila. (21)

*

La sera: una quiete dorata, come un uccello si posa. Come un gesto della mano, un tepore sulla fronte; o come quando la musica rallenta prima di tacere, secondo una misura tale che non può esservi alcuna lacerazione. (21)

*

Ovunque, di nuovo, la specie di balbettio dei fiori bianchi sui rami; che vi raggiunge ancor più misteriosamente quando è raggruppato, in disordine, come qualcosa di disperso, gettato, sperperato. Come se qualcuno d’indivisibile prodigasse un’esile moneta avente più valore di qualunque altra. (35)

*

Bach, “Jesus, der du meine Seele…”: penso al mare, a un oceano che non sarebbe, come quello attraversato l’anno scorso, una successione infinita di tumuli funerari, un freddo mareggio ricoprente un vuoto ancora più freddo; ma, al contrario, un movimento che reggerebbe, solleverebbe, una base flessibile cui affidarsi senza paura alcuna; o un’immensa culla, un immenso letto mobile; o il reticolo di muscoli, di piume e ossi leggeri di un’ala.
E subito, al di sopra di tutto ciò, di questo potente e benevolo mareggio, il giubilo ascendente dell’allodola: ascoltandola, non c’è più tomba che tenga. (35)

*

Mozart, Sonata in la per pianoforte e violino: non mi sorprende che Einstein, musicologo, parli a suo proposito di un dialogo dell’anima con Dio. Dirlo così è dirlo male; ma designa perlomeno l’altezza a cui, nell’adagio, vi porta questa musica. Si potrebbe dire anche che, se non c’è Dio, né dei, e se non ce ne sono mai stati, simile musica ne dovrebbe far nascere; o che sembra invocarli, convitarli, come Hölderlin fa esplicitamente in Der Gang aufs Land; ma implicitamente, come qui, è ancora più probante. Si potrebbe persino andare oltre: in questa musica, gli dei hanno risposto all’invito. (39)

*

Questo momento della prima primavera, quando le foglie neonate lasciano ancora filtrare la luce prima di fare ombra (nel fico con le sue mani di bimbo alzate). Esse la trasformano in colore verdegiallo; si accendono come tante fiammelle di candele nel traliccio, l’armatura, l’ostensorio dell’albero. Alla svelta, si faranno opache, protettrici; per il momento è un po’ come quando si vede scorrere su un volto un breve sorriso. (40)

*

Sogno. Su un’altura non campestre, ma urbana, un luogo che potrebbe somigliare alla spianata del Trocadero, si prepara un combattimento tra due fazioni, o eserciti; ne sono uno degli organizzatori. Mi sembra che dovesse essere soltanto un gioco; ma che, vedendo dei bastoni, o delle sbarre di ferro di cui alcuni si armano, ho dovuto temere che il gioco piegasse male. Di modo che inizio a parlare molto forte, a declamare, a mimare il combattimento come se ne fossi il protagonista, per essere ben certo che resti un semplice spettacolo – o a questo si riduca. (41)

*

Altro momento di sogno, la stessa notte: alla fine di una visita a mia suocera, mentre stavo per abbracciarla, il suo volto si è sottratto, lei è scivolata lentamente sul fianco ritrovandosi distesa per terra. Ci prese il timore che fosse, questa volta, la fine. (41)

*

Erba vista in controluce, ancora nascente, poco folta, fine e dritta: quasi un filtro, un’arpa… o, molto raso terra, la mia ultima lira. Per far sentire la luce della sera che è come dorata, nelle raffiche del vento già freddo. (54)

*

Sul polso, questa piccola farfalla color bruno arancio, sotto le ali gialle: una minuscola vetrata doppia del tutto liberty. Resta a lungo a palparmi la pelle. Vetrata mobile e fragile per il sole finalmente tornato. (54)

*

Pioggia e nebbia: accendere lì dentro una lampada, come un frutto nella paglia. (65)

*

Aprire, aprire sempre – o tanto a lungo quanto si potrà.
Ciò che si apre alla luce del cielo: il fiore raso terra. Come oscurità che sbocciasse così come spunta il giorno. I vilucchi: altrettante piccole messaggere dell’alba sparse ai nostri piedi. (66)

*

Lettura dei Miserabili, un vero grande libro; ma quale ingenuità nelle speranze che il Progresso con una grandissima P ispira a Hugo! Cosa penserebbe oggi? Già allora, è sull’istruzione obbligatoria che l’ottimismo conta innanzitutto (così Michel Serres oggi). Come se le SS non fossero andate a scuola, e perfino al catechismo! (66)

*

Vento violento, che agita le ultime foglie, in tutto paragonabili, nel loro modo di abbandonare l’albero, a voli di uccelli; e i primi fiocchi di neve caduti dalle alte nubi trascinate verso il sud; senza che il sole sia completamente velato. (67)

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Come in risonanza a una lettera di un giovane amico poeta che ritorna per l’ennesima volta sui suoi scrupoli di fronte a ogni celebrazione del paesaggio oggi, leggo in Misères di d’Aubigné:

“…mais les ondes si claires
Qui eurent les sapphirs et les perles contraires
Sont rouges de nos morts; le doux bruit de leurs flots,
Leur murmure plaisant heurte contre des os.”


D’Aubigné denunciava nei termini più crudi i costumi della corte di Enrico III: che simili trasalimenti non siano più di moda oggi, lo si dimentica talvolta quando si giudica il nostro tempo. (70)

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Tutte le lanterne delle iris accese in blu chiaro stamani nel giardino, lampade blu nella luce blu.
Lanterne d’acqua. (78)

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Due nibbi volano fianco a fianco verso il nord, come aratri alati. (87)

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La luce del pomeriggio pende come gocce dalle foglie, che si muovono un po’ più rapidamente di ieri. Rari brusii lontani: vetture, cani. (95)

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La luna visibile in pieno cielo nel pomeriggio quasi tiepido, un tepore pernicioso nel mese di gennaio. Come un’unghia, o una lanterna di carta. Una visitatrice notturna smarrita nel giorno. Un petalo di ciliegio prima della stagione. Luce all’interno della luce. (109)

*

La luna piena alla fine del giorno: largamente compensata così, da questa moneta d’avorio, la fatica del giorno, la lunga fatica di una vita. (120)

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Sciarpe, scialli di fumo nel giardino, di cui potrebbe essersi avvolta un’invitata, una passeggera invisibile, quando la sera rinfresca. Sciarpe sulle spalle della notte o silenzio a venire. (123)

*

Bambini che giocano agli aliossi con i resti degli antenati: “pensiero” nel dormiveglia. Altre immagini di cose fragili, incave. Dadi o domino della morte. Feti. Corpi svuotati della loro sostanza. Il rifiuto di pensarci, di pensare a quel che vi aspetta, la fuga davanti a ciò. Una sorta di tremore, tuttavia, che vi afferra all’improvviso, un’onda leggera, discreta paura celata, nelle gambe più che nella testa (si crede).
Ammassi di verzure, ammassi di nubi; disordine del cielo, almeno apparente. (135)

*

L’effetto sorpresa conta talmente: ricordo, questa primavera, i primi ciuffi di viole nel giardino, che mi avevano abbagliato, ma di cui, qualche giorno dopo, avevo già lasciato perdere la luce. Perché? (136)

*

Interrogando un ciuffo di viole scoperto mentre spostavo della legna. Come se un uomo molto curvo leggesse un libro per terra. Le apparizioni. Di ciò si nutre la poesia: delle primizie. Per sua virtù ci sono meno ripetizioni, benché essa dica più o meno sempre la stessa cosa. (136)

*

Questo leggero tremore, come nell’imminenza di una prova, una paura sfumata, sorda, o qualcosa di simile. Al di sotto. (138)

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Pierre Oster

Pierre Oster (1933-) vive ed opera a Parigi. Nel 1954 esordisce con Premier poème nel “Mercure de France”. In seguito inizia la sua collaborazione alla “Nouvelle Revue Française” al fianco di Jean Paulhan. Le sue attività di scrittore, di perspicace lettore e consigliere editoriale al Cercle du Livre Précieux, poi alle Éditions du Seuil, favoriscono la frequentazione e l’amicizia dei contemporanei di spicco della letteratura francese. Fra gli incontri decisivi della prima ora occorre menzionare quello con Saint-John Perse. Della cerchia successiva e dei suoi innumerevoli dialoghi poetici ci limitiamo a ricordare quelli con Francis Ponge, Pierre Jean Jouve, Denis Roche, René Char, Pierre Emmanuel, Patrice de La Tour du Pin, Philippe Jaccottet, Jean Grosjean, Jean-Claude Renard, Michel Deguy. Le sue “Note”, piccoli ‘oggetti’ geometrici di una costellazione, sono disposte senza prospettiva sulla pagina, non coordinate gerarchicamente, giacché il loro rapporto emerge solo dallo spazio vuoto che li separa l’uno dall’altro. Al contempo, lungi dal presentarsi come una semplice pluralità di proposizioni distinte, le entità verbali che si trovano riunite in varie raccolte sono disseminate in uno spazio che, pur separandole, le unisce in una sorta di Paysage du Tout 1951-2000: tale è il titolo del volume comprendente un largo ventaglio della produzione di Pierre Oster (Poésie/Gallimard, 2000). Si tratta di una scrittura che si sposta in continuazione secondo cammini sorprendenti e imprevedibili, fissa le sue tracce al presente di ogni suo movimento e insieme organizza le sue fughe in avanti secondo la dinamica di esigue architetture. Fa segno all’immensità di un progetto e insieme a tutta la dispersione che la sua realizzazione comporta: ecco la posta in gioco, il paradosso tra questo spazio infinito e la radezza dei frammenti distribuiti sul foglio. La loro natura ellittica si contrappone alla facondia della prosa argomentativa e dimostrativa. «C’è solo da scommettere tutto sulla nostra indigenza». Un’arte poetica non è descrittiva come una fenomenologia, né prescrittiva come un’estetica; l’oggetto non vi è rappresentato, ma vi è come riflesso secondo i modi inesauribili della variazione. Una certa bellezza trovata, ma fuggevole, sembra voler coincidere con la verità etica della scrittura perpetuamente oscillante tra due princìpi o movimenti: il primo tende verso il compimento di una forma; il secondo assicura a quella stessa forma una fluttuazione mai conclusa che, come il giunco, «si piega sotto il peso mutevole del Bello». L’opera di Oster si raccoglie essenzialmente ai bordi del rapporto essere-linguaggio, alla soglia di qualcosa che può essere atteso nell’attesa delle parole. All’incrocio di due seduzioni opposte – l’Unità dell’Uno e l’universo sensibile del molteplice – e lontano dalla via della dissoluzione o risoluzione delle antinomie è custodita tale irriducibile tensione. Evocando un ordine, non preformato né performativo, ma immanente, dinamico, segreto e musicalmente ritmato, le riflessioni lampeggianti di Oster rappresentano un modo di entrare nella responsabilità della parola senza esercitare su di essa alcuna forma di dominio, ma spezzando la convenzione poetica che considera lo scrittore come produttore e possessore del dire. Dall’ascolto, dall’umile esercizio dell’annotazione nascono appunti levigati come diamanti, per formare un arcipelago destinato comunque a mutare all’in-finito la propria geografia. Non v’è dubbio che il ritmo rapsodico e l’«esigenza frammentaria» di questa scrittura, come in quella di Blanchot, siano pienamente investiti della questione che lega il pensiero alla poesia, cioè l’autoriflessività. Ma diversamente di ciò che accade in Blanchot, la morale poetica di Oster non ‘decostruisce’ le condizioni di possibilità della questione stessa, non riflette il «disastro della scrittura». Anzi, animata da una certa «gioia filosofica», scruta le sorti della letteratura intesa come processo dinamico che prende senso nella scrittura ed è messo in gioco dalla scrittura stessa, sospesa alla vertigine dell’inafferrabile verità.

Minuzie non-filosofiche

Non confinarti nell’illusone di una padronanza indecisa. È già stato appurato lo smacco per chi osserva un velo di polvere.

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Niente di più ingiusto che d’imputarmi come delitto la mia indifferenza a ciò che svanisce. Niente di più ingiusto e anche di più giusto.

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Un poeta ignoto completerà l’ultima serie delle rime; e sarà – al di fuori di noi – il pleroma verso cui lo spirito ci guida esaltando l’idea di un perfetto sensibile.

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Dello scabro, o dell’irregolare, o dell’infimo Invito a un modo di costante ritorno all’indecifrabile.

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M’indentifico, m’interrogo al principio corrente di frase in frase, al fuoco di una metafora iniziale e vera, a una qualche monosemia incompiuta.

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L’abisso si trova alla portata del viaggiatore, ma non l’impero che la configurazione di una sola foglia disegna.

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Dalla vecchia matassa tiro un filo. Tuttavia le cose restano tali. Il dramma perdurerà nella sua semplicità.

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Ciò che brucia con la gioia non la determina. Essa è una potenza di libertà ispirata, di rinnovamento sfrenato nell’assoggettamento.

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Andare da un polo all’altro del pianeta morale… Dal linguaggio al silenzio (in ciò che ha di plenario). Dal silenzio al linguaggio (nella sua ampiezza).

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La base meravigliosa di un muro reca il modello di una composizione in cui pensieri confluiscono come divinità elementari.

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Grida, lamenti, parole a lungo mormorate c’incorporano per caso alla terra. Li ascoltiamo, li evitiamo.

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I nostri sodalizi presentano un carattere aleatorio perché a noi stessi siamo oscuri limiti.

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Far parte, far lega. Cederlo di fronte alla moltitudine. Non ignorare nulla di ciò che scavalca la nostra piccolezza.

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L’anima come realizzazione ultima. Come manifestazione di una duttilità sovrana, Come inizio di una fusione d’essenza orfica, di una filosofia del contatto.

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La tua natura e la tua condizione ti permettono di camminare verso il sole. Oggi hai buone ragioni per fermarti. Con un passo impercettibile.

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Dei Sisifo dissimili spingono massi quasi identici. Li accomuna la loro angoscia. La nostra angoscia.

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Qualcosa d’antico, d’anteriore (d’ingannevole, poi di saliente). Ciò che, senza lotta, ci troviamo a fronteggiare.

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Liberi, noi lo siamo. Liberi per lo meno di formulare certe richieste come eroiche.

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Annie Ernaux

Journal du dehors (1993) di Annie Ernaux (1940-) è un insieme di brevi paragrafi isolati che la scrittrice francese dedica a minime, anodine scene quotidiane da lei osservate tra il 1985 e il 1992 nei luoghi in cui vive (qualcosa di analogo tenta con La vie extérieure, del 2000, raccogliendo note che vanno dal 1993 al 1999). Si va dalla ville nouvelle di Cergy, centro della vasta banlieue parigina nel quale l’autrice risiede, alla capitale stessa o ad altri posti, sempre della sua banlieue; ad essere privilegiati sono mezzi di trasporto pubblico o stazioni, negozi, supermercati, centri commerciali o il salone di acconciature, strade o piazze. L’autrice ha desiderato soprattutto far vivere la comparsa, in seno alla ‘normalità’ sociale, di una realtà marginale, fatta di modeste condizioni economiche o anche di povertà (talvolta estrema), di scarso livello culturale, di limitata apertura mentale o di maleducazione. Sono aspetti salienti di un ambiente che ha imparato ad amare e che le procurano “un’emozione, un turbamento o una rivolta” (lo precisa nell’Avant-propos del 1996 al libro). Nonostante un partito preso di estraneità dell’osservatore, la Ernaux non può infatti non riconoscere il suo coinvolgimento inconscio nella “scelta delle parole, della scena da fissare”. Il diario del difuori è insomma un resoconto della realtà esterna da un punto di vista che ne fa anche un diario dal difuori; al contempo, un diario resta un diario e tratteggia in qualche modo il suo estensore. La scrittrice è anzi convinta che la realtà esteriore sia uno stimolo ancora più efficace di quella interiore oggetto del diario intimo per farci scoprire noi stessi. Il rapporto del soggetto con la realtà è in definitiva sentito come un attraversamento in virtù del quale la seconda si fa strada entro il primo gettandovi luce, anche rispetto al suo passato – cosicché il percorso esistenziale del soggetto si riflette nei gesti e nelle parole altrui, come quello degli altri è riflesso nelle sue manifestazioni. Diversi frammenti del testo mostrano il coinvolgimento della scrittrice anche sotto un’altra forma: capita che un frammento si concluda con una breve interpretazione di carattere generale o suscettibile di essere al contempo considerata tale. In questi punti, si rivela la propensione ad uno sguardo morale sulla realtà che porta a limitare ulteriormente l’idea di una scrittura dal contenuto impersonale. Tali punti sensibili fanno anzi affiorare la valenza anche morale dell’intento che è all’origine dell’opera. Il vissuto contemporaneo e l’io che l’osserva come parte in causa sono il campo di una tensione che da sé richiama un diverso accoglimento della realtà, quando non una sua diversa configurazione o modalità. Autrice di un’opera spesso basata sull’elaborazione del dato autobiografico (Les armoires vides, 1974; La place, 1984, Premio Renaudot; Une femme, 1988; Passion simple, 1992; Se perdre, 2001), l’ideatrice di Journal du dehors è immersa in una collettività coi suoi luoghi e ne saggia i caratteri, lasciandone sorgere un senso che diventa speranza di giustizia e di pace, interiori e sociali. I momenti raccolti consegnano un panorama su cui si soffermano anche altri tipi di discorso (sociologico, psicologico, architettonico…): vengono ad esempio in mente le considerazioni di Augé sui “non-luoghi” della nostra civiltà – spazi che non rinviano ad una struttura sociale quali possono essere i luoghi di consumo e di circolazione e le stesse periferie. Le pagine della Ernaux hanno però una loro profonda, vissuta singolarità e, pur senza averne l’aria, raccolgono appunto anche la sfida del confronto morale con il mondo. È un aspetto, quest’ultimo, cui non è estraneo lo scrivere dell’autrice: la parola letteraria come “sfida”, parola che la Ernaux intona alla semplicità un po’ maldestra del quotidiano, ma cui dona una concisione all’improvviso tagliente, tanto più efficace quanto più nascosta dal fare apparentemente innocuo del discorso.

Diario del difuori

Il nostro vero io non è interamente in noi.
Jean-Jacques Rousseau


Sul treno Parigi-Cergy, a Nanterre, un uomo alto prende posto, congiunge le mani sulle ginocchia. Poi le mani cominciano a muoversi in modo convulso, a strofinarsi una contro l’altra. L’indice si separa e batte l’aria, ritorna accanto alle altre dita. Sono mani coperte di una desquamazione bianca, uniforme, come quella che producono gli acidi. L’uomo, un Africano, è di un’assoluta immobilità, solo le mani, instancabili, come polpi. Essere un intellettuale è anche questo, non avere mai sentito il bisogno di separarsi dalle proprie mani snervate o rovinate dal lavoro. (1986)

Due donne sfogliano cataloghi di vendita per corrispondenza, una di fronte all’altra, sul treno Cergy-Parigi. La più giovane comincia in modo solenne: “Mia madre non si è ripresa da una storia, che è successa nel suo caseggiato”. L’altra la guarda con interesse. Quindi la narratrice continua. Costruisce il racconto davanti a noi (numerosi viaggiatori in piedi, diversi si mettono ad ascoltare), con un personaggio, una vecchia che ha ulcere alle gambe, un luogo, il caseggiato della madre della narratrice, delle peripezie: scomparsa della vecchia, assenza di rumore dietro la sua porta, poi gemiti, intervento della madre presso l’amministratore per far aprire la porta, rifiuto di quest’ultimo, successivo ricorso alla polizia. Gli attanti del racconto si dividono in “buoni” (la madre) e in “cattivi” (l’amministratore). L’esito fatale è prevedibile dal tono e dalla conduzione del racconto, la giovane moltiplica le incidentali cariche di significati, “non si poteva sfondare la porta, massiccia, è un vecchio caseggiato”, le indicazioni temporali, “l’altro giorno”, “ieri”, che portano ad un presente di orrore. S’interrompe, “beh”, rilancia fingendo la sorpresa, “ed ecco che”, piccoli movimenti di lingua, gesto della mano. Godimento della narrazione visibile sul volto, dagli occhi bassi, alzati episodicamente sulla prima destinataria della storia, la giovane seduta di fronte a lei (ma destinataria fittizia adesso, quella vera essendo la folla di gente accalcata nel corridoio centrale del vagone). Modo impudico di raccontare, esibizione del piacere della narrazione, rallentare il processo che porta alla fine, aumentare il desiderio degli ascoltatori. Qualsiasi racconto funziona sul modo dell’erotismo. Alla fine di tutto, si è scoperto il cadavere della vecchia, morta da una settimana. (1986)

Su “Libération”7, Jacques Le Goff, storico8: “Il metró mi dà un senso di spaesamento”. La gente che lo prende tutti i giorni sarebbe spaesata recandosi al Collège de France9? Non si ha modo di saperlo. (1986)

Tutte le sere, su una radio, si mettono a confronto due canzoni, una recente, l’altra più vecchia, a volte di un anno soltanto. Gli ascoltatori devono telefonare per dire quale preferiscono. Per la maggior parte, sono giovani, molte le ragazze. Il conduttore prende una telefonata, “a caso”, afferma, e chiede qual è la canzone vincente. È sempre la canzone più nuova che ha la meglio.
Ieri, la sciampista del salone di acconciature diceva: “la moda di oggi è più bella di quella di una volta, ci si vestiva male dieci anni fa”.
Perfetto adeguamento della gioventù al proprio tempo, convinzione della superiorità del nuovo – è bello quello che “è appena uscito” – perché altrimenti vorrebbe dire che non si crede in sé, e ancor meno nel futuro. (1987)

Dai, torna a casa! L’uomo lo dice al cane con la testa bassa, rasente al suolo, colpevole. La frase millenaria per i bambini, le donne e i cani. (1988)

Una ragazza spacchetta gli acquisti sulla R.E.R.10, una camicia, degli orecchini. Li guarda, li tocca. Scena frequente. Felicità di possedere qualcosa di bello, desiderio di bellezza realizzato. Rapporto con le cose tanto commovente. (1989)

Al Super Discount, una cassiera giovane, forse una sostituta, ride con delle conoscenti, due ragazze in piedi vicino a lei. Biasimo evidente dei clienti della fila. È chiaro che non le importa nulla di noi, batte i prodotti, punto e basta. Ce la si ha con lei per questo svelamento. (1989)

A Charles de Gaulle-Étoile, un tipo sui trent’anni sale e si siede su uno strapuntino. Pantaloni e giacca grigi, niente di particolare, tranne delle scarpe da ginnastica ai piedi, che sorprendono – appena. Bruscamente, si china, alza una gamba dei pantaloni fino al ginocchio. Gli si vedono la pelle bianca, i peli. Tira su la calza con tutt’e due le mani, la tende, abbassa la gamba dei pantaloni. Fa la stessa cosa con l’altra calza.
Più tardi, si alza, si appoggia contro la parete, scosta la giacca, alza la maglietta. Esamina la pancia a lungo, poi abbassa la maglietta. È evidente che non c’è nessuna provocazione in questi gesti, semplicemente l’espressione estrema della solitudine – quella vera – in mezzo alla folla. Accanto a lui, c’è una borsa di plastica, caratteristica di quelli senza fissa dimora. A partire da quale momento, quando non si hanno più né domicilio né lavoro, lo sguardo degli altri non c’impedisce più di fare cose naturali ma fuori luogo in pubblico nella nostra cultura? Con cosa comincia l’indifferenza ad un “saper vivere” appreso da bambini a scuola, alla tavola di famiglia, quando il futuro era un gran sogno la sera addormentandosi? È sceso ad Auber. (1991)

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PASCAL QUIGNARD

In Pascal Quignard (1948-) il frammento rappresenta una forma riflessiva attraverso cui il pensiero discontinuo resta aperto alla probabilità di essere còlto da un ordine altro dal pensiero stesso. L’imponente bibliografia di Pascal Quignard – certamente uno degli scrittori contemporanei più importanti – comprende più di una quarantina di volumi tra saggi, traduzioni, romanzi, racconti, paesaggi, ricordi di letture, frammenti autobiografici. Dal suo esordio con L’être du balbutiement (1969), mentre porta a termine un saggio dedicato a Maurice Scève, La Parole de la “Délie” (1971), ai romanzi, tra cui Carus (1979), Les tablettes de buis d’Apronenia Avitia (1984), Le salon du Wurtemberg (1986), Les escaliers de Chambord (1989), Albucius (1990), Tous les matins du monde (1991), Vie secrète (1998), Terrasse à Rome (2000), che gli è valso il «Grand prix du roman de l’Académie française», cui fanno seguito i cinque volumi di Dernier royaume: Les ombres errantes, Sur le jadis, Abîmes, – per i quali ha ricevuto il «Prix Goncourt» 2002 – Les Paradisiaques, Sordidissimes (2005), poi Écrits de l’éphémère (2005) e nel 2006 il romanzo Villa Amalia, tre volumi di racconti (L’Enfant au visage couleur de la mort, Triomphe du temps, Ethelrude et Woframm) e una novella (Le Petit Cupidon), si viene costituendo, secondo un’espressione dell’autore stesso, una «collezione di oggetti intensi», un’opera composita che tende sempre più a rinunciare alla separazione dei generi. Tale insubordinazione al genere le permette di abbracciare spazi ed epoche assai vari: l’antichità romana, l’Asia medievale, il XVII secolo francese e, un po’ meno, la letteratura contemporanea. Il suo risalire all’arcaico (nel senso etimologico del termine) è in rapporto con una poetica della memoria che trae fondamentalmente dal proprio scacco materia per una scrittura perlopiù frammentaria. L’elemento unitario e permanente è rappresentato dagli spazi di vuoto che si creano intorno ai dettagli e avvolgono frasi, parole distribuite come in un fraseggio musicale, ma in modo disparato e irregolare, nella loro corsa rapida verso il silenzio. Il linguaggio è il solo tentativo di resurrezione per ciò che è scomparso, qualcosa che è precedente al linguaggio stesso. In Pascal Quignard il fascino per il frammento – che in lui predomina in forma di citazione, definizione secca, allusione, obiurgazione, sentenza, exemplum, incipit di prosa intensa e brillante – si trova mescolato a un certo «fastidio tecnico». Disagio e disgusto sono suscitati dall’ambiguità stessa della scrittura frammentaria, lacerata e al tempo stesso assolutamente autosufficiente. La discontinuità dei Petits traités, che l’autore, nel tentativo di saldarli insieme, definisce «spasmi» di scrittura, richiama metaforicamente la frammentazione di un corpo: «Gli uomini che creano dovrebbero adottare la tecnica della lucertola: scuotendo la coda e abbandonandola all’aggressore, sobbalzando per ancora trenta secondi, giusto il tempo per darsi alla fuga». Ogni elemento è realmente un pezzo di una totalità, staccato, ritagliato, scolpito e separato dal blocco della materia, tutt’altro che scheggia di una totalità esplosa. Più che disperdere, si tratta di condensare, di condurre il linguaggio a raccogliersi in un dire breve che fa valere la capacità delle parole di produrre immagini, concentrate e insieme fugaci, non soggette ad alcun ordine generale, o di mostrare le loro ombre evanescenti, inseguendo orme fragili e leggere.

Vita segreta

Si ama una sola volta. E l’unica volta in cui si ama la si ignora poiché la si scopre. (11)

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Perché l’anima trema quando il gomito sfiora per caso il braccio di una donna che è ancora del tutto ignota?. (19)

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Il linguaggio non è il contemporaneo della differenza dei sessi. (77)

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La purezza nell’amore consiste nel fatto che la nudità, la povera nudità silenziosa sale in prima linea. (78)

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Penso che sia difficile custodire la memoria di ciò che nascondiamo ai nostri prossimi. (89)

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Avere un’anima significa avere un segreto. Corollario. Pochi hanno un’anima. (90)

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L’amore, il segreto dell’altro sono la stessa cosa. L’amore sull’orlo della nudità è come il segreto: sull’orlo della nudità. (90).

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Il segreto è: sfuggire al verbo-sociale, e non: sfuggire al sessuale-mortale. (95)

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L’anima definisce il segreto del corpo. (95)

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Nulla abbatte e avvilisce come non essere più amati. (100)

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Perché l’amore si prova unicamente nella violenza della perdita?
Perché la sua sorgente è l’esperienza della perdita.
Nascere è perdere la madre. (123)

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Paradosso. Disgraziatamente la sessualità non ci ha catturati nascendo, ma molto prima di nascere: nascendo ne siamo solo il frutto. (129)

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Nessuno è liberato dall’oceano della propria passione per sempre. (131)

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Il desiderio è il disastro. (169)

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L’amore come il rifiuto del terzo, come il terzo escluso (“null’altro che noi due”), esclude il linguaggio e destina gli amanti al silenzio totale, esclusivo, pena la morte. (194)

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Il segreto e il libro si oppongono al linguaggio orale allo stesso modo in cui il solitario vive nel perimetro delle mute che circondano i cinghiali. (214)

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Corollario. Il segreto, il silenzio, la lettera, l’odio del mito, l’asocialità, la perdita d’identità, la notte, l’amore sono legati. (215)

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La vita di ciascuno tra noi non è un tentativo di amare. È l’unico saggio. (223)

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È difficile impedire all’acqua di ricongiungersi. (243)

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Chi ha messo l’immagine nella notte? Il sogno. (274)

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La connivenza è una parola più misteriosa dell’amore. (328)

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C’è un altro mondo all’interno di questo mondo. Gli odori tentano.
Il profumo è la tentazione di ciò che non è visto. (380)

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Tutti gli amanti quando si amano si girano sulla loro ombra e abbracciandosi la schiacciano. (399)

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Quando alziamo gli occhi al cielo, contempliamo il passato. (450)

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FONTI DEI TESTI

Bousquet, Joë
Notes d’inconnaissance, Mortemart, Rougerie, 1967.
Note-Book, Mortemart, Rougerie, 1982.

Claudel, Paul
Journal. 1904-1932, I e Journal. 1933-1955, II, Introduction par François Varillon, Texte établi et annoté par François Varillon et Jacques Petit, Paris, Gallimard, “Bibliothèque de la Pléiade”, risp. 1968 e 1969. Scelta di testi secondo le indicazioni date.

Ernaux, Annie
Journal du dehors, Avant-propos inédit de l’auteur, Paris, Gallimard, “Folio”, 2004, pp. 43-44, 45-46, 47, 58-59, 69, 87, 99-100.

Jaccottet, Philippe
Carnets 1995-1998. (La Semaison, III), Paris, Gallimard, 2001. Scelta di testi secondo le indicazioni date.

Montherlant, Henry de
Va jouer avec cette poussière. Carnets 1958-1964, Paris, Gallimard, 1966. Scelta di testi secondo le indicazioni date.

Oster, Pierre
Scritti inediti del 2010 offerti dall’autore.

Quignard, Pascal
Vie secrète, Paris, Gallimard, 1998. Scelta di testi secondo le indicazioni date.

Roy, Claude
Temps variable avec éclaircies, Paris, Gallimard, 1984, pp. 9, 9, 11, 20, 21, 21, 28, 28, 29, 33, 34, 35, 43, 46, 46, 47, 49, 50, 57, 63, 63, 65, 69, 72, 78, 78, 82, 89, 94, 98, 99, 100, 102, 106, 109, 110.

Note

  1. Citazione dal Credo.
  2. Allusione ad un noto episodio di À la recherche du temps perdu di Proust, in cui compare questo prodotto di pasticceria.
  3. Dal Salve Regina: “Rivolgi il tuo sguardo benevolo al popolo che ti supplica”.
  4. In realtà il testo proviene da Portrait du duc de La Rochefoucault par lui-même (1659).
  5. Marco, VIII, 2: “Ho compassione di questa folla”.
  6. Tanto i profili quanto i testi di Claude Roy e di Annie Ernaux sono stati curati da Andrea Bedeschi.
  7. Quotidiano francese che esprime le idee della sinistra radicale.
  8. Francese, nato nel 1924 e conosciuto per gli studi sul Medioevo
  9. Prestigiosa istituzione culturale parigina fondata da Francesco I e caratterizzata da liberi rapporti di docenza ed altrettanto libere condizioni di frequenza.
  10. Réseau Express Régional, rete di treni veloci che collega il centro di Parigi con la periferia.

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