Bibliomanie

27 giugno 1980: la strage di Ustica, una lettura storica
di , numero 49, giugno 2020, Saggi e Studi, DOI

27 giugno 1980: la strage di Ustica, una lettura storica
Come citare questo articolo:
Cora Ranci, 27 giugno 1980: la strage di Ustica, una lettura storica, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 49, no. 3, giugno 2020, doi:10.48276/issn.2280-8833.4052

1. Una storia, molte storie

Occuparsi della vicenda di Ustica1 in termini di comprensione storica implica considerare una pluralità di storie. Vi è innanzitutto la perdita del DC-9 Itavia, avvenuta il 27 giugno 1980. Una strage avvenuta nella più totale opacità e su cui è sempre mancata la benché minima spiegazione ufficiale. Come noto, diciannove anni di indagini e svariati processi, penali e civili, hanno concluso che la caduta dell’aereo è avvenuta nell’ambito di “un’azione militare di intercettamento”, ma hanno anche dovuto constatare che gli autori della strage rimangono “ignoti”2.
È ormai certo che nei cieli di Ustica, al momento del passaggio dell’aereo civile italiano, erano in atto manovre aeree militari, e che tali manovre hanno determinato la tragedia. Le numerose perizie condotte sui tracciati radar non hanno lasciato alcun dubbio sulla presenza di aerei militari nei pressi del luogo dell’incidente. Aerei di cui non è stato possibile conoscere la nazionalità – o le nazionalità. Di conseguenza non si è finora potuto risalire alla natura e agli scopi dell’azione militare che è risultata fatale per gli ottantuno passeggeri del volo Itavia. Ancora oggi, inoltre, vi sono dubbi sulle cause dirette del disastro: mentre le sentenze civili concordano nel ritenere che il DC-9 Itavia sia stato abbattuto da un missile aria-aria, la sentenza ordinanza del giudice Rosario Priore ritiene plausibile anche lo scenario secondo cui l’aereo sia caduto in seguito a una “quasi collisione” con un jet militare che, in manovra d’attacco, lo avrebbe sfiorato ad altissima velocità, provocando un effetto simile a quello dell’esplosione3.
Nonostante le molte questioni ancora irrisolte, disponiamo comunque di una verità giudiziaria che, per quanto tragicamente incompleta, consente di inquadrare la vicenda in una prospettiva storica. Sulla base della ricca documentazione oggi disponibile, è possibile affrontare il tema dalle diverse angolazioni che, insieme, contribuiscono a definire un quadro complessivo della vicenda di Ustica come problema politico4.

2. Lo scenario internazionale

Il primo aspetto riguarda il contesto storico-politico in cui la strage è avvenuta. Punto di partenza è l’ipotesi che quanto avvenuto non sia frutto di tragica causalità, ma l’esito di una situazione complessa venutasi a creare nel Mediterraneo centrale in quel preciso momento storico, l’estate del 1980. Dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, l’anno 1980 si apre all’insegna del ritorno del clima politico degli anni più duri della Guerra fredda. In un contesto bipolare già teso, l’area del Mediterraneo appare attraversata da instabilità e crisi regionali specifiche – tra cui soprattutto l’impatto della rivoluzione teocratica in Iran – che, intrecciandosi con le dinamiche est-ovest, contribuiscono a configurare sempre più l’intera zona come “area del rischio”5. La regione appare politicamente eterogenea, perché in realtà è costituita da un gruppo di diverse sub-regioni confinanti col mar Mediterraneo ma non integrate tra loro: il Medio Oriente, il Nord Africa, il Sud Europa e i Balcani. All’epoca di Ustica, rischi di instabilità attraversano ognuna di queste regioni.
La nuova centralità strategica dell’area è confermata dalla notevole presenza militare delle superpotenze nelle sue acque. Già dalla metà degli anni Settanta, gli Usa sono diventati la potenza dominante nel Mediterraneo. Le evoluzioni politiche in Africa e Medio Oriente hanno comportato anche una presenza sempre più diretta e in espansione dell’Urss e una stabile presenza della flotta sovietica. Nella regione, i confini tra i due fronti della Guerra fredda sono meno definiti che altrove. Molti paesi dell’area, pur non appartenendo formalmente a nessuno dei due blocchi, hanno spesso espresso opposizione alle politiche occidentali, soprattutto alla politica statunitense nel Medio Oriente. Nel contesto teso e imprevedibile della cosiddetta “seconda Guerra fredda”, le crisi locali rischiavano di intrecciarsi in maniera pericolosa con la competizione est-ovest.
La Libia di Gheddafi si trova nel 1980 in una posizione internazionale sempre più conflittuale e critica. Particolarmente tesi sono i rapporti con la Francia, come dimostra il tentativo di abbattimento di un caccia francese da parte di due jet dell’aviazione libica al largo delle coste tunisine, nel marzo 1980. La politica di Gheddafi rappresenta una minaccia per gli interessi di Parigi nell’area, come dimostrano i tumulti che si verificano in Tunisia e la guerra in Ciad6.
Anche le relazioni tra Libia e Usa, già in peggioramento sin dalla metà degli anni Settanta, sono nel 1980 particolarmente critiche, soprattutto dopo gli accordi di Camp David del 1978 e l’assalto dell’ambasciata americana a Tripoli da parte di un gruppo di filo-khomeinisti nel dicembre 1979. Nel giugno 1980 il governo americano annuncia l’intensificazione della cooperazione militare con l’Egitto attraverso la dislocazione di aerei Phantom tramite un apposito ponte aereo. Nel mese di agosto, in Libia si verifica un tentativo di colpo di stato nella città di Tobruk, non distante dal confine egiziano, a cui – secondo quanto si apprende dai documenti del Sismi – partecipano anche agenti provenienti dal Cairo.
Nel corso degli anni, sono state formulate diverse ipotesi sulla nazionalità degli aerei coinvolti nei fatti di Ustica. La tesi prevalente individua come aggressori gli Stati Uniti o la Francia – secondo molti, i due paesi avrebbero agito congiuntamente. Obiettivo dell’attacco sarebbe stata la Libia: secondo questa interpretazione, libico sarebbe stato l’aereo che volava in coda al DC-9 Itavia7. Il coinvolgimento del paese nordafricano nei fatti di Ustica è uno scenario alquanto probabile. A imprimere concretezza a questa interpretazione è la vicenda del MIG-23 precipitato in Calabria, conferma evidente della presenza libica nei cieli del basso Tirreno8.
Che aerei militari libici sorvolassero spesso lo spazio aereo italiano anche senza autorizzazioni è data inoltre notizia nella documentazione del Sismi relativa al “corridoio jugoslavo”, un accordo segreto in vigore all’epoca tra Libia e Jugoslavia che prevedeva l’utilizzo di aeroporti jugoslavi da parte dell’aviazione di Tripoli per addestramenti e riparazioni. Da appunti del Sismi, sequestrati nell’ambito delle indagini su Ustica, si è saputo che tali missioni aeree attraversavano il Mediterraneo centrale sfruttando le carenze del sistema di avvistamento aereo italiano, di cui i libici erano quindi al corrente.
È inoltre ampiamente documentato quanto fossero complesse e critiche le relazioni tra Italia e Libia all’epoca della strage di Ustica. Nel giugno 1980 i due paesi sono importantissimi partner commerciali e la Libia detiene il 10 per cento delle azioni della Fiat. A partire dagli anni Settanta, Roma e Tripoli avevano stretto un legame privilegiato soprattutto in materia di forniture petrolifere e scambi economici – tra il 1978 e il 1979 vengono sottoscritti contratti per la fornitura di impianti e commesse per il valore di 2.500 miliardi di lire.
Sul piano politico, però, l’intesa tra i due paesi, già storicamente difficile a causa del passato coloniale – che Gheddafi non mancava di evocare, reiterando continue richieste di risarcimento economico e morale ai governi italiani – è incrinata da diversi fattori. Nel giugno 1980, il motivo di maggiore tensione tra i due paesi è la serie di omicidi di dissidenti libici rifugiati in Europa compiuta da emissari di Gheddafi sul territorio italiano – ma anche britannico e tedesco – e che suscita accese proteste in tutta Europa9. Dalla documentazione sequestrata al Sismi si scopre che, al fine di porre fine agli omicidi indiscriminati compiuti in Italia e al contempo tutelare gli interessi economici con la Libia, il governo italiano ha optato per un certo assecondamento alle pretese di Tripoli, acconsentendo alla scarcerazione di alcuni libici detenuti in Italia.
Nello stesso periodo, le relazioni tra Italia e Libia rischiano di incrinarsi anche a causa di un importante accordo politico che Roma stipula col governo di Malta. Nella primavera-estate del 1980, il governo Cossiga mette a punto un’intesa – che verrà sottoscritta il 2 agosto dello stesso anno – con la quale l’Italia si fa garante della neutralità dell’isola, sottraendola di fatto al controllo libico. La documentazione diplomatica italiana mostra come, anche in questo caso, fosse viva la preoccupazione negli ambienti degli Affari Esteri e dei servizi italiani di “scongiurare il rischio del risentimento libico”10.
È dunque storicamente plausibile che a complicare il quadro sia intervenuta l’opacità intrinseca nella storica ambivalenza della politica estera italiana. Le relazioni politicamente scomode che l’Italia, membro della Nato, intrattiene non solo con la Libia ma anche con l’Iraq11 comprendono anche aspetti assai poco limpidi e suscettibili di controversie in seno all’Alleanza Atlantica. Riprendendo il tradizionale profilo neo-atlantico della sua politica estera, l’Italia non intende – nel 1980, così come nei due decenni precedenti – rinunciare agli enormi vantaggi economici e commerciali offerti dai mercati del Medio Oriente arabo. L’esacerbamento delle tensioni nel Mediterraneo nel 1980 giunge come ulteriore elemento di complicazione in un panorama già da tempo caratterizzato da un’ambivalenza, che da ambigua può diventare pericolosa.

3. Il caso Ustica, 1980-1986: gli anni della rimozione

Vi è poi la storia di come la verità sia stata tenuta nascosta. L’iter giudiziario ha messo in luce diversi passaggi critici nella trasmissione di informazioni cruciali dalle sfere militari a quelle politiche. L’analisi della documentazione giudiziaria e di quella recentemente declassificata dalla “direttiva Renzi” del 2014 hanno permesso di ricostruire le strategie di disinformazione messe in atto allo scopo di impedire che le reali cause della strage emergessero. Nei primi mesi successivi alla strage, l’Aeronautica Militare ha omesso di riferire al governo le informazioni di cui era in possesso sulla possibile presenza di aerei militari nei pressi del DC-9 Itavia. Specularmente, nelle comunicazioni ufficiali, i vertici della Difesa caldeggiavano apertamente la tesi del guasto tecnico dovuto all’incuria della compagnia proprietaria dell’aereo. La cosiddetta “tesi del cedimento strutturale”, benché presto scartata dalla commissione d’inchiesta ministeriale, aveva fatto breccia nell’opinione pubblica italiana, al punto che i gruppi parlamentari al Senato avevano approvato una mozione per revocarle le concessioni di volo. Stroncata da una crisi economica e dalle ingiuste accuse di aver causato la tragedia di Ustica, la compagnia fallì già alla fine del 198012.
Se oggi sappiamo cos’è accaduto a Ustica e siamo in grado di richiamare dei contesti di plausibilità storica a sostegno delle conclusioni della magistratura, è grazie a un’altra storia che si è svolta fuori dalle aule dei tribunali e in opposizione alle istituzioni dello stato. È quella che potremmo chiamare la storia di come la verità sulla strage – per quanto si tratti di una verità insoddisfacente nella sua incompletezza – sia riuscita a emergere, alla fine, nonostante tutti gli sforzi messi in campo perché ciò fosse impedito. Un esito niente affatto scontato per un caso che fin dal suo inizio è stato caratterizzato non solo dalla più totale opacità, ma anche da una conduzione delle indagini assai poco incisiva.
Fino al 1984, infatti, le analisi tecniche finalizzate a determinare le cause del disastro – la lettura dei tracciati radar e le analisi chimiche sui resti dell’aereo – sono state affidate a una commissione ministeriale d’inchiesta di nomina governativa, e non ai periti giudiziari13. Questa commissione – la “commissione Luzzatti”, dal nome del suo presidente Carlo Luzzatti, all’epoca direttore dell’aeroporto di Alghero e funzionario dell’Aviazione civile – contava al suo interno anche membri dell’Aeronautica Militare, ai cui laboratori sono state infatti affidate le analisi chimiche. Tale organismo non rispettava quindi i criteri di totale indipendenza e riservatezza che avrebbero dovuto garantire le indagini della magistratura. Spetta ai giuristi valutare l’operato della Procura di Roma con gli specifici strumenti di analisi del caso. In sede storica, registriamo come tale gestione del caso abbia portato alla mancata acquisizione di molti elementi di prova importanti, oltre che a un dannoso prolungamento dei tempi dell’istruttoria. Nella dichiarata incapacità di determinare le cause della strage, nel dicembre 1980 le indagini sono sostanzialmente entrate in una situazione di stallo che nel 1986 – a sei anni dai fatti – stava per portare all’archiviazione del fascicolo giudiziario sul caso.
Ciò stava per avvenire nella quasi totale indifferenza dell’opinione pubblica e delle istituzioni. Fino al 1986, infatti, non si era svolta nessuna discussione parlamentare sul caso Ustica, né nessun Consiglio dei Ministri aveva preso in carico la questione. A partire dalla fine del 1980, inoltre, anche l’attenzione della stampa era drasticamente calata – se pur con importanti eccezioni14. Tra il 1983 e il 1985, il numero degli articoli apparsi sui quotidiani nazionali è addirittura irrisorio. “L’Unità”, che nel 1980 si era distinta per un’inchiesta incentrata sulla tesi che la strage fosse stata provocata dallo scontro con un aereo militare statunitense, nel 1983 pubblica un solo articolo sulla vicenda, mentre nel 1845 e nel 1986, rispettivamente, solo quattro e due articoli. Similmente, “La Repubblica” pubblica sul tema tre articoli nel 1982 e nemmeno un articolo nel 1983. Questi numeri danno la misura di quanto reale fosse il rischio che la tragedia finisse rubricata come un misterioso incidente aereo non solo presso la Procura di Roma, ma anche nella memoria degli italiani.

4. La svolta del 1986. La tragedia diventa strage

A impedire questo decorso degli eventi è l’interazione di diversi soggetti che hanno svolto un ruolo cruciale nel tematizzare la questione nel dibattito pubblico e, così facendo, nel favorire in maniera decisiva i successivi sviluppi politico-giudiziari del caso. Un merito in questo senso va ad alcune testate giornalistiche di primo piano – tra tutte spicca “Il Corriere della Sera” sulle cui colonne scriveva Andrea Purgatori – che hanno continuato a portare avanti inchieste sul caso anche tra il 1981 e il 1986, quando il livello di attenzione mediatica era sceso ai minimi termini. A segnare una discontinuità, a spezzare l’indifferenza istituzionale che andava caratterizzando il caso, è però la nascita nel 1986 di un soggetto nuovo: il Comitato per la Verità su Ustica, formato da sette autorevoli personalità di varia provenienza politica e culturale. Il Comitato era presieduto dall’ex presidente della Corte Costituzionale, Francesco Paolo Bonifacio, e composto dal vicepresidente del Senato Adriano Ossicini (Sinistra Indipendente), dal senatore Pietro Scoppola (Dc), dall’ex deputato Antonio Giolitti (Psi), dai deputati Pietro Ingrao (Pci) e Stefano Rodotà (Sinistra Indipendente) e dal sociologo Franco Ferrarotti. In occasione del sesto anniversario della strage – 27 giugno 1986 – queste personalità rivolgono un accorato appello al presidente della Repubblica Francesco Cossiga chiedendogli di intervenire presso il governo che non aveva fino ad allora fatto luce sui dubbi che avvolgevano il disastro, nonostante da più parti venisse detto e scritto che l’aereo Itavia era stato abbattuto da un missile lanciato da un jet militare di nazionalità sconosciuta.
Grazie al peso politico del Comitato, l’iniziativa riesce a innescare un processo di attivazione istituzionale: Cossiga sollecita il presidente del Consiglio Bettino Craxi con una lettera in cui lo esorta a “fare piena luce” sull’incidente. Il testo della lettera viene pubblicato sulla prima pagina de “Il Corriere della Sera” del 13 agosto 1986, un segnale significativo della rilevanza politica che il caso si apprestava ad assumere15. Il governo risponde disponendo il recupero del relitto dell’aereo, che si trovava ancora nei fondali marini in cui era precipitato. Le operazioni di recupero dell’aereo, compiute tra il 1987 e il 1988, portano a galla ciò che per molti anni era stato sommerso, conferendo concretezza a un caso che non può più essere ignorato tanto facilmente.
L’iniziativa del Comitato riesce quindi a impedire l’imminente archiviazione del fascicolo giudiziario. Da quel momento in poi, ogni tentativo di affossare l’inchiesta giudiziaria è destinato a fallire, perché il caso va acquisendo sempre maggiore rilevanza nell’ambito dell’opinione pubblica italiana. Il 1986 rappresenta infatti il primo spartiacque significativo nella periodizzazione del caso Ustica. Si entra in una fase densa di novità, dinamica, fortemente polemica, che dimostra la capacità dell’opinione pubblica di incidere sull’inchiesta e di contribuire in maniera determinante al progressivo, per quanto non completo, svelamento della verità. Quello che fino a quel momento era stato trattato come un fatto di cronaca ancora da chiarire diviene a tutti gli effetti una issue, un vero e proprio caso politico. La vicenda di Ustica si fa tema autonomo e sempre più rilevante del dibattito pubblico italiano della fine degli anni Ottanta. Inizia così ad articolarsi una “campagna per la verità” che vede il ruolo attivo, non organizzato ma di fatto convergente, di diversi soggetti, tra cui un ruolo centrale è svolto dall’Associazione dei parenti delle vittime.

In difesa di una verità fragile: l’Associazione tra i famigliari delle vittime16

Il Comitato per la Verità riesce dunque a imprimere una svolta decisiva al caso, imponendolo all’attenzione del governo e dell’opinione pubblica nazionale. Inizialmente, i famigliari delle vittime aderiscono al Comitato, delegandogli di fatto il ruolo di portavoce dell’istanza per la verità. Solo successivamente, in quello spazio di inedita attenzione che si era creato sul caso, essi si costituiscono in associazione, dando vita al soggetto destinato a occupare un posto di primo piano nella fase di politicizzazione della vicenda.
Un primo fatto che colpisce è che l’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica sia stata fondata solo nel 1988, a ben otto anni di distanza dalla strage. Un lasso di tempo che gli stessi famigliari delle vittime descrivono come necessario per l’elaborazione privata del loro tremendo lutto. “I primi anni sono stati terribili, non riuscivo neanche a parlare della morte di mio fratello”17, ha dichiarato Daria Bonfietti, fondatrice e presidente dell’Associazione, che come tutti gli altri famigliari delle vittime racconta di aver vissuto i primi anni in una dimensione di dolore privato.
«È affiorato lentamente in me il bisogno di capire le cause di quella morte. Erano già passati 5 o 6 anni dalla tragedia e ho cominciato a rendermi conto che l’assenza di spiegazioni e di verità attorno alle cause del disastro non era un dato ineluttabile, ma era solo il risultato di una situazione che si era venuta a creare in quegli anni; mi appariva sempre più chiaro che coloro che lottavano contro la verità esistevano, erano esistiti fin dagli istanti successivi il disastro e operavano a vari livelli, nelle nostre istituzioni democratiche, per tenere lontana, consapevolmente, la verità.18»

Il ritardo nell’organizzazione dei parenti delle vittime rispecchia il disorientamento che la tragedia aveva provocato nel paese. Inizialmente, infatti, sembrava trattarsi dell’ennesimo, per quanto tragico, incidente aereo. Solo gradualmente era iniziata a emergere una verità diversa, ufficiosa. Da un lato la tesi del cedimento strutturale era stata scartata dalla Commissione d’inchiesta; dall’altro, però, all’Itavia erano comunque state revocate le concessioni aeree, e per il patron della compagnia aerea che aveva denunciato l’abbattimento del DC-9 da parte di un missile era stato ipotizzato il reato di diffusione di notizie esagerate e tendenziose. Sul piano della percezione pubblica del fatto, il quadro appariva confuso, e ci si assestò sull’attesa dei risultati delle indagini, nella speranza che aiutassero a chiarire le cause di quella tragedia. Ben più immediato era stato l’impatto nel paese dell’esplosione alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, avvenuta appena un mese dopo quella di Ustica. In quel caso, la percezione di trovarsi di fronte a un terribile attentato era stata chiara fin da subito. L’Associazione tra i familiari delle vittime della strage della stazione di Bologna è nata il 1° giugno 1981, a meno di un anno dall’attentato. Per i parenti delle 81 vittime della strage di Ustica, invece, sarebbero stati necessari più tempo e più sforzi. Il processo di consapevolezza dell’entità politica del caso e, quindi, di percezione di sé come soggetto potenzialmente “scomodo”, in grado di dare visibilità alla questione e di interpellare le istituzioni, è stato lento e complesso. Si trattava di prendere piena coscienza del fatto di trovarsi a fare i conti con un caso politico di rilevanza internazionale, in un contesto di pressoché totale indifferenza delle istituzioni e dell’opinione pubblica.
Precedenti tentativi di appello da parte di alcuni famigliari delle vittime, in realtà, ve ne erano stati, anche prima del 198519. Essi erano tuttavia rimasti inascoltati, dimostrando l’esigenza di un’azione più incisiva, e in tal senso l’iniziativa del Comitato per la Verità su Ustica si era rivelata determinante. È significativo che dietro alla creazione del Comitato vi fosse stato l’impulso di Daria Bonfietti. A differenza degli altri famigliari delle vittime, Bonfietti aveva un passato di impegno politico nel movimento studentesco – mentre il fratello, Alberto, morto nella strage, era militante attivo e giornalista di «Lotta Continua». Nel luglio 1986, Bonfietti contatta per la prima volta gli altri parenti delle vittime, per la maggior parte famiglie siciliane con cui mai prima di quel momento lei – che viveva a Bologna – aveva avuto a che fare. Ad essi invia una lettera asciutta ma chiara e determinata, che li informa della nascita del Comitato e li invita a prenderne parte: “Poiché ho constatato che l’azione del giudice è illegalmente ostacolata dal segreto di stato, tramite il mio legale ho chiesto ad un gruppo di personalità di mettere in moto, a livello istituzionale, un congegno operativo in grado di sbloccare questo assurdo stato di cose”20. Le adesioni sono numerose e immediate. Come primo gesto congiunto, nel settembre 1986 i famigliari inviano una lettera al presidente Cossiga. Ricordando che la vicenda era stata per lungo tempo “come dimenticata, rimossa”, a causa del “silenzio delle istituzioni”, della “indifferenza dell’opinione pubblica”, del “muro di omissis” e della “vischiosità del segreto di stato”, si riponeva la fiducia nel fatto che a partire dall’appello del Comitato per la Verità fosse nato un “interesse meno episodico” sul caso. “Qualcosa di nuovo” sembrava essere accaduto, e si auspicava ora l’emergere di “una sola verità, senza ombre, senza patteggiamenti, senza tortuosi e indecenti compromessi”21.
Per i primi tempi di questa nuova fase politica, i famigliari riconoscono il Comitato come portavoce della loro istanza, anche se presto inizia a profilarsi l’esigenza di dare vita a un soggetto nuovo. L’Associazione viene costituita a Bologna il 22 febbraio 1988 con l’obiettivo, fissato all’articolo 3 dello statuto, di “accertare la verità e quindi le responsabilità civili e penali della strage di Ustica, con tutte le iniziative possibili”. Si potrebbe dire, in un certo senso, che l’Associazione parenti delle vittime sia nata da una costola del Comitato. Ma il fatto che, sin dall’inizio, i famigliari abbiano sentito il bisogno di vedere la loro domanda di verità interpretata da un soggetto altro, che godesse di una sua autorevole autonomia, non rispecchia soltanto l’esigenza, contingente nel 1986, di acquisire maggior peso politico. Si tratta, a ben vedere, di una delle cifre distintive dell’Associazione di Ustica, che nei suoi trent’anni di attività ha sempre tenuto a coinvolgere personalità di rilievo del mondo politico e culturale, sollecitate a farsi interpreti – coi loro canali e i loro strumenti – della causa per la verità e della memoria della strage. Una scelta dipesa dal fatto che la verità sulla tragica fine del DC-9 Itavia è stata fin dall’inizio fragile, minata a messa a rischio da innumerevoli tentativi di discredito e affossamento.
La missione principale dell’Associazione di Ustica è stata di fatto proteggere gli elementi di verità che di volta in volta emergevano dall’inchiesta. Una missione portata avanti sia come parti civili nel processo, sia presso l’opinione pubblica e le istituzioni attraverso varie iniziative di coinvolgimento pubblico e pressione politica. Era un compito che le altre associazioni di stragi terroristiche non dovevano assolvere: nel loro caso, la verità sulla dinamica dei fatti era infatti sotto gli occhi di tutti, e gli sforzi sono stati tesi perlopiù all’individuazione delle responsabilità per eventi delittuosi che non potevano però essere negati. Non è mai stato così per Ustica, una strage avvenuta nei cieli, su cui erano state messe in atto efficaci strategie di disinformazione e di insabbiamento, e su cui era a lungo calato un granitico silenzio istituzionale. Una strage avvenuta nel silenzio, che per essere riconosciuta come tale ha necessitato di uno sforzo creativo ulteriore da parte dei famigliari delle vittime. Per necessità, dunque, l’Associazione di Ustica ha dovuto raddoppiare l’impegno e ricorrere a forme innovative di persuasione e di pressione.
L’Associazione di Ustica si è dunque distinta dalle altre associazioni di parenti di vittime di stragi per il suo rapporto particolarmente tormentato e difficile nei confronti della verità. Lo slogan con cui essa si appella alle autorità e all’opinione pubblica è: “La verità ha un prezzo che vogliamo pagare”. L’accento venne messo sul valore che il riconoscimento della verità – quella unica esistente, che doveva essere ufficialmente riconosciuta – avrebbe avuto non solo per i famigliari stessi, ma anche – e soprattutto – per la collettività. L’Associazione si propone come soggetto mosso da una vocazione civile:

«Ci siamo costituiti in Associazione per tentare di difendere questo diritto, il diritto di sapere, il diritto all’informazione, il diritto, cioè, di essere informati dai pubblici poteri sulle cause e perciò stesso sulle responsabilità di questa strage, consapevoli che la verità è dovuta non solo a noi, ma a tutti gli italiani, alla collettività intera.22»

C’è una separazione netta, nella prassi e nei discorsi dell’Associazione, tra dimensione privata del lutto e ruolo svolto pubblicamente. La battaglia politica trae una legittimità unica e speciale nell’identità dei loro portavoce – i parenti delle vittime, testimoni del dolore – e, al contempo, si articola attraverso un discorso pienamente politico, capace di declinare efficacemente il lutto privato in quello che l’Associazione stessa ha voluto definire come “dolore civile”23. Nel discorso portato avanti dai famigliari delle vittime, insistente è la presentazione della vicenda di Ustica come paradigma dei mali che andavano affliggendo la democrazia italiana. Nelle parole di Bonfietti, Ustica mostra “l’incapacità delle istituzioni di rappresentare il Paese e di controllare gli apparati dello Stato”24. Soprattutto, Ustica rappresenta dal punto di vista dell’Associazione la negazione del diritto di sapere, un diritto che avrebbe dovuto essere garantito dalla Costituzione, ma che era minato dal comportamento di governi che, al di là delle dichiarazioni di intenti, continuavano a rifiutarsi di fronteggiare i reticenti annidati nelle istituzioni, mantenendo, così, un illegittimo segreto.
Frequenti, negli interventi dell’Associazione, i riferimenti alla riflessione di Norberto Bobbio sul rapporto tra arcana imperii e democrazia. Il filosofo torinese aveva iniziato a interrogarsi sulla natura duale dello Stato democratico dopo la strage di piazza Fontana, che aveva ispirato la pubblicazione nel 1970 di La violenza di Stato, il primo saggio su un tema a cui Bobbio si sarebbe ampiamente dedicato negli anni successivi25. Negli anni Ottanta, diversi scandali politico-giudiziari – tra cui la scoperta dell’esistenza della loggia massonica P2 – suscitano interventi pubblici di Bobbio su organi di stampa nazionali, fino ad arrivare, nel 1984, alla pubblicazione del celebre volume Il futuro della democrazia, in cui il filosofo presenta la formulazione più completa del suo pensiero. Nel saggio, Bobbio riflette sulle trasformazioni della democrazia e in particolare sul divario tra gli ideali e la quotidianità della pratica democratica. Secondo Bobbio, tra le varie “promesse non mantenute” della democrazia italiana vi era la sopravvivenza, e la “robusta consistenza” di un potere invisibile. Di un potere, cioè, che sfuggiva al controllo dei cittadini e che di fatto faceva venire meno la natura stessa della democrazia, definita come il “governo del potere pubblico in pubblico”26. Bobbio osservava come in Italia il ricorso al segreto non fosse un’eccezione bensì una pratica sistematica dell’azione di governo. Nel 1980 scrive:

«Purtroppo, dalla strage di piazza Fontana in poi, l’atmosfera della nostra vita pubblica è stata intossicata da sospetti di connivenza del potere invisibile dello Stato con il potere invisibile dell’anti-Stato. Nonostante interminabili (e non terminati) processi le tenebre non sono state diradate. Noi, popolo sovrano secondo la Costituzione, non sappiamo ancora nulla, assolutamente nulla, di quello che è veramente successo. Ciò vuol dire che il potere è opaco. Ma l’opacità del potere è la negazione della democrazia.»27

Per Bobbio, evidentemente, la verità era un valore da perseguire, come egli stesso avrebbe affermato in un’intervista a “La Stampa” nel 1984 nell’ambito di un servizio sui confini tra scandalo e scandalismo. L’ondata di scandali di cui si parlava in Italia non dipendeva da un “eccesso di scandalismo”, quanto piuttosto dal fatto che nella vita politica italiana avvenivano “deviazioni da una corretta linea dell’agire pubblico” che non avevano confronto in altri paesi: “È bene dunque che di questo si parli a chiare lettere: in un Paese scandaloso non bisogna avere paura a rivelare la verità”28. Bobbio non interviene direttamente sul caso Ustica – anche se nel novembre 1989 aderisce all’appello «La verità ha un prezzo che vogliamo pagare», donando all’Associazione parenti delle vittime un milione di lire. Il suo pensiero ha però esercitato una forte influenza sul discorso portato avanti prima dal Comitato per la Verità e poi dall’Associazione dei famigliari delle vittime. In un editoriale apparso sulla prima pagina de “Il Corriere della Sera” nel giugno 1988, Francesco Bonifacio, presidente del Comitato, riprende apertamente il pensiero di Bobbio nel collegare la mancanza di verità sulla strage a un “oscuro malessere istituzionale”, che doveva “necessariamente pesare sull’animo” di chi credeva che la vera “essenza della democrazia” consistesse nella sua “trasparenza” e “nella capacità delle istituzioni di assicurarla e di tradurla in realtà”:

«Sappiamo tutti che i cittadini hanno diritto (confermo: diritto) a conoscere quel che accadde otto anni orsono. Sapranno le istituzioni rispondere a quell’attesa? Sapranno le istituzioni adempiere ai doveri corrispondenti a quel diritto? Nella risposta di fatto interrogativa è, senza dubbio, la risposta a domande più grandi di quella relativa allo spaventoso episodio: è la risposta alla trasparenza del regime democratico.29»

Il lessico di Bobbio compare spesso anche nei discorsi della portavoce dei famigliari delle vittime. Nei suoi interventi pubblici, Daria Bonfietti chiama sempre più spesso in causa le “forme del potere invisibile” che, in Italia, sembravano essere sempre più evidenti. La risposta al dilagare del fenomeno doveva essere collettiva: “Credo che, collettivamente, ci tocchi di dare una risposta, di pensare insieme a come muoverci in questa realtà che è sempre più difficile, pericolosa e inadeguata per chi voglia ancora difendere dei valori di democrazia sostanziale e non solo formale30.
L’Associazione lega dunque la sua rivendicazione politica al valore più alto della piena realizzazione della democrazia. Attraverso un linguaggio istituzionalmente consapevole e appropriato, essa sollecita i diversi organi dello Stato richiamandoli alle loro funzioni costituzionali. Al governo viene chiesto di essere “protagonista”, e non spettatore, del periodo di indagini, e di mostrare “senza ulteriori indugi” la sua scelta di campo, costituendosi parte civile anch’esso, accanto ai famigliari delle vittime, nei confronti di coloro che all’interno dell’amministrazione pubblica avevano avuto responsabilità precise rispetto alla triste vicenda31. Il rifiuto del governo di costituirsi parte civile veniva letto come dimostrazione dello “scarso impegno nell’accertamento della verità”. Nel 1990, nell’ambito di un convegno organizzato a Bologna, Daria Bonfietti ricorda che in dieci anni il governo non aveva mai riunito un Consiglio dei Ministri né aveva mai intrapreso una discussione collegiale sugli aspetti non chiari della vicenda; non aveva attivato i canali diplomatici necessari per richiedere informazioni agli Stati Uniti o alla Nato; per molto tempo aveva negato i fondi per il recupero del relitto dell’aereo. “Vogliamo dire che non è più giustificabile questa logica di attesa, da parte del governo, dei risultati della magistratura. Non ci pare per niente un atteggiamento neutrale, tutt’altro, ci appare proprio di parte”32.
Una forte critica è rivolta anche al Parlamento e ai gruppi parlamentari, esortati a svolgere in maniera più incisiva la loro funzione di controllo, superando i filtri delle divisioni e degli schieramenti partitici in nome di un valore – quello del bisogno di verità e trasparenza – che la “società reale” aveva mostrato di avere a cuore. In questo senso, nel 1989 e nel 1990 l’Associazione commissiona la realizzazione di un sondaggio di opinione sulla vicenda di Ustica, da cui emerge un alto tasso di sfiducia nella capacità delle istituzioni, che secondo il 58,3% degli intervistati – il campione era di mille unità – non avevano dimostrato di voler stabilire la verità sul disastro di Ustica. Una percentuale analoga (57,2%) riteneva che non si sarebbe mai arrivati a conoscere la verità sul caso. Nel 1990, l’87,4% giudicava inaccettabile che, a distanza di dieci anni, le responsabilità del disastro di Ustica non fossero ancora state accertate. Secondo il 41,1% degli intervistati, l’iniziativa più efficace per arrivare alla verità sarebbe stato un ricorso alle istituzioni comunitarie e internazionali.
Sul terreno della denuncia dell’atteggiamento conservativo del segreto da parte dello Stato, i parenti delle vittime di Ustica incontravano la rivendicazione portata avanti dai famigliari delle vittime di altre stragi. Nei primi anni di attività, l’Associazione coniuga la sua azione politica alle istanze avanzate dalle associazioni che riunivano i famigliari delle vittime delle stragi di piazza Fontana, piazza della Loggia, Italicus e stazione di Bologna. I primi ad essersi costituiti in associazione erano stati i famigliari delle vittime dell’ultima strage avvenuta, quella bolognese del 2 agosto 1980. Ciò avvenne, come abbiamo visto, nel giugno 1981, sull’onda delle reazioni suscitate dall’emissione a Catanzaro della sentenza di assoluzione per tutti gli imputati della strage di piazza Fontana (20 marzo 1981). Secondo la sociologa Gabriella Turnaturi – che al fenomeno dell’associazionismo tra famigliari delle vittime ha dedicato il bel volume Associati per amore – “quella sentenza fu per i famigliari delle vittime della stazione di Bologna come un segnale per capire che stava vincendo la cultura dell’oblio, che la verità sulla morte dei propri congiunti sarebbe stata allontanata ed occultata e che bisognava impegnarsi direttamente”33. Fu pertanto per “effetto di imitazione, d’incoraggiamento e di stimolo” che anche i famigliari delle stragi riconducibili alla strategia della tensione (1969-1974) decisero di associarsi: per tutti, l’esempio da ricalcare fu rappresentato dallo statuto dell’associazione bolognese, cui si ispirarono anche i famigliari della strage di Ustica. Queste associazioni nacquero dalla consapevolezza che della questione della verità avrebbe dovuto farsi carico un soggetto nuovo, espressione della società civile, perché le istituzioni non apparivano in grado – o non mostravano la necessaria volontà politica – di fare chiarezza sull’accaduto.
Nell’aprile 1983, le associazioni delle suddette stragi si riuniscono a formare l’Unione delle Associazioni dei familiari delle vittime delle stragi, con sede a Milano – nel 1984 vi aderiscono anche i famigliari delle vittime della strage del Rapido 904. L’Unione si prefiggeva lo scopo di “combattere contro il silenzio e l’oblio che minaccia giorno dopo giorno la ricerca della verità e delle responsabilità di tutte le stragi”. La prima azione comune fu una proposta di legge di iniziativa popolare per l’abolizione del segreto di Stato nei delitti di strage e di terrorismo, presentata in Senato, con oltre 90 mila firme, nel luglio 1984 – per l’approvazione si dovette tuttavia attendere il 1990. La denuncia verso quegli apparati dello Stato che, invece di collaborare alla ricerca della verità, avevano deviato indagini e occultato prove, caratterizzava anche l’azione dell’Associazione di Ustica, che non prese parte organica all’Unione ma che partecipò attivamente alle iniziative e alle mobilitazioni. Un primo contatto avviene nel gennaio 1987, quando il presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage della stazione di Bologna, Torquato Secci, si rivolge a Daria Bonfietti: «Cosa potremmo fare insieme?». Secci spiegava di essersi deciso a scrivere per l’analogia delle tristi vicende che li avevano colpiti. La proposta era quella di unire, fin là dove era possibile, la loro azione “per un migliore buon fine”34. L’appello viene accolto. Nell’agosto 1989, in occasione del nono anniversario della strage della stazione di Bologna, l’Associazione di Ustica partecipa alla consueta manifestazione cittadina, presenziando sul palco allestito nella piazza del capoluogo emiliano e prendendo parola nel consiglio comunale. Nel dicembre dello stesso anno, ricorre il ventennale della strage di piazza Fontana. Daria Bonfietti partecipa all’incontro svoltosi nella sede dell’amministrazione provinciale milanese, in presenza di tutti i partiti dell’arco costituzionale e dei dirigenti delle diverse associazioni dei congiunti delle stragi.
La vicenda di Ustica è diversa dalle altre stragi, che nella loro eterogeneità sono comunque accomunate dal fatto di essere state attentati terroristici di matrice neo-fascista. Il DC-9 Itavia non era rimasto vittima di un attentato terroristico. Nonostante le peculiarità che rendevano unica la strage di Ustica, nei primi anni di attività l’Associazione sceglie di insistere sui punti di contatto che essa presentava con gli altri episodi delittuosi. Per Ustica, come per le altre stragi, non si registrava solo la mancanza di una verità ufficialmente riconosciuta e, quindi, di giustizia; ciò che emergeva con forza, dalle cronache e dalle inchieste, era anche una precisa responsabilità dello Stato nella mancata individuazione dei responsabili. Le stragi erano rimaste impunite perché – si sottolineava – “settori dello Stato” si erano adoperati per ostacolare le indagini attraverso depistaggi e insabbiamenti. In tutte queste vicende, dalla strage di piazza Fontana – la “madre” di tutte le stragi – a quella della stazione di Bologna, le inchieste avevano svelato un ruolo inquietante, ambiguo e connivente dei servizi segreti militari. Da questo punto di vista, anche Ustica presentava alcuni dei tratti tipici delle cosiddette stragi di Stato. Dopo il recupero del relitto dell’aereo, che aveva impresso dinamismo a un’inchiesta statica e a rischio archiviazione, iniziano a emergere responsabilità nella condotta di diversi ufficiali dell’Aeronautica. Nel giugno 1989, 23 ufficiali dell’Aeronautica Militare, che la notte della strage erano in servizio presso le basi radar di Licola e Marsala, vengono incriminati con le accuse di falsa testimonianza, favoreggiamento personale, distruzione e occultamento di atti.
Uno dei primi obiettivi dell’Associazione fu proprio contribuire ad accreditare la vicenda di Ustica come una strage a tutti gli effetti. Ciò fu messo in atto a partire dalla questione fondamentale di come nominare il nuovo soggetto in cui i famigliari avevano deciso di riunirsi. L’articolo 2 dello statuto associativo afferma infatti: “È stato scelto di assumere la seguente denominazione: Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica”. Non si tratta di una scelta scontata, né neutrale. Non è scontata, perché almeno fino al 1988-1989 i termini maggiormente impiegati nel dibattito pubblico per riferirsi alla vicenda erano stati “tragedia” e “disastro”, parole che esprimono fatalismo ed eludono il nodo delle responsabilità e delle colpe che, invece, la parola “strage”, di per sé, evoca fortemente. Non si tratta, inoltre, di una scelta neutrale per il retaggio storico-politico che tale parola porta con sé, nell’Italia degli anni Ottanta, laddove l’accento era posto sulle responsabilità dello Stato italiano per la mancanza di verità e giustizia. Nel discorso dell’Associazione, ad essere sottolineate continuamente non erano tanto le responsabilità dirette e materiali per l’accaduto. Gli autori del reato, coloro che avevano abbattuto il DC-9 Itavia, erano ignoti e restavano indeterminati, sfuocati sullo sfondo di un discorso politico dominato invece dalla colpa, attribuita allo Stato italiano, di aver rinunciato a fare chiarezza e a pretendere giustizia per la morte di 81 suoi cittadini.
L’Associazione di Ustica ha svolto un ruolo chiave nella rappresentazione della vicenda del DC-9 Itavia attraverso il “paradigma delle stragi di Stato”, mentre la dimensione internazionale della vicenda – che era poi la sua “vera” cifra – è rimasta in secondo piano. Si è persa, forse, l’opportunità di saldare la causa per la verità su Ustica con la protesta dei movimenti transnazionali antinucleari e pacifisti, che tematizzavano il problema della sicurezza a fronte della militarizzazione crescente nell’area del Mediterraneo. Tutto il tema internazionale – il problema delle relazioni con gli Stati Uniti e la posizione dell’Italia all’interno del sistema di difesa Nato – non ha trovato spazio all’interno di un discorso politico ripiegato sul versante nazionale interno, dominato dal tema della slealtà dello Stato italiano nei confronti dei suoi cittadini. Per quanto parziale potesse risultare rispetto a una vicenda come quella di Ustica, il ricorso al paradigma delle stragi di Stato è stato comunque una strategia assai efficace dal punto di vista non solo comunicativo ma anche politico, perché ha offerto all’Associazione l’opportunità di orientare attorno a un messaggio chiaro e incisivo l’azione di diversi segmenti dell’opinione pubblica italiana:

«Possiamo proprio dire di non essere più soli. Insieme, Associazione, opinione pubblica, stampa, Comitato per la Verità su Ustica, avvocati, periti, uomini politici, di cultura, dello spettacolo, hanno spazzato via molte menzogne, hanno saputo accompagnare l’opera della giustizia, quando ha voluto decisamente puntare alla verità. Oggi la verità è senz’altro più vicina, sono chiari i contorni dell’episodio di guerra aerea che sui nostri cieli ha provocato la morte di 81 innocenti. Oltre allo scenario, oggi sono ormai chiare le responsabilità dolose o colpose degli apparati dello Stato che hanno impedito alla verità di farsi luce, come ha rilevato la Commissione parlamentare stragi nella sua relazione finale. I famigliari hanno con tenacia e testardaggine voluto credere che la verità fosse possibile, la loro lunga battaglia non è stata vana, e comunque ne è valsa la pena.35»

Note

  1. Dallo sviluppo di questo articolo è giunta la monografia Ustica. Una ricostruzione storica, Laterza, Bari, 2020.
  2. Tribunale di Roma, Ufficio Istruzione – Sezione 1, Procedimento Penale Nr. 527/84 A G.I., Ordinanza di rinvio a giudizio, caso «USTICA», 1999, Vol. 13, Sottotitolo 2, p. 3953.
  3. L’ipotesi della bomba esplosa all’interno dell’aereo è ormai residuale e sostenuta solo da alcuni ambienti vicini all’Aeronautica Militare. La tesi è stata sostenuta in ambito giudiziario per la prima volta nel 1994 dal collegio peritale Misiti nominato dal giudice Priore. Quella perizia è stata però ritenuta inattendibile e pertanto inutilizzabile dai pubblici ministeri.
  4. Per la ricerca pubblicata nel libro Ustica. Una ricostruzione storica, cit., oltre alla documentazione giudiziaria (fase istruttoria e processi), sono stati consultati i documenti della Commissione stragi, i documenti dell’amministrazione pubblica declassificati in base alla direttiva Renzi del 2014 (soprattutto quelli prodotti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero della Difesa e dal Ministero degli Esteri), il fondo dell’Associazione parenti delle vittime della strage, nonché gli atti parlamentari e le fonti a stampa. Sono inoltre state svolte interviste originali a protagonisti della vicenda.
  5. Sul contesto internazionale che ha fatto da cornice alla strage di Ustica è stato tenuto presso l’Archiginnasio di Bologna il convegno 1980. L’anno di Ustica, 29-30 ottobre 2015. Per gli atti cfr. Luca Alessandrini (a cura di), 1980. L’anno di Ustica, Mondadori Università, Milano, 2020.
  6. Teatri di tensione tra i due paesi nella prima metà del 1980 sono la Tunisia e il Ciad, due ex colonie francesi, entrambe confinanti con la Libia, i cui governi continuano a vedere nel rapporto privilegiato con Parigi una garanzia della loro stabilità.
  7. Secondo la ricostruzione della dinamica della strage, il DC-9 sarebbe stato vittima di un attacco che avrebbe avuto come obiettivo un aereo militare che, immessosi nella scia dell’aereo civile all’altezza della Toscana, volava “in coda” al DC-9, a una quota leggermente più bassa, per non essere avvistato dai radar.
  8. Nell’ambito delle indagini sul caso Ustica, molta importanza è stata data a una vicenda su cui non è mai stata fatta chiarezza e che, secondo il giudice Priore, sarebbe invece connessa alla tragedia del DC-9 Itavia. Si tratta del ritrovamento, avvenuto il 18 luglio 1980, tre settimane dopo la strage di Ustica, dei rottami di un velivolo militare libico modello MIG-23 sui monti calabresi della Sila. Secondo le versioni ufficiali fornite dalle autorità militari italiane e libiche nel 1980, si sarebbe trattato di una mera caduta incidentale avvenuta durante un’esercitazione aerea. Ma, alla luce di indagini successive, tale spiegazione dei fatti è apparsa del tutto non credibile. La vicenda è ancora oggi avvolta nel mistero, ma, dimostrando concretamente la presenza concreta di aerei libici nello spazio aereo italiano nell’estate del 1980, ha contribuito ad accreditare l’ipotesi di un coinvolgimento della Libia nei fatti di Ustica.
  9. Sono in totale nove i libici assassinati tra aprile e giugno 1980, di cui quattro commercianti a Roma, un giornalista e un avvocato a Londra, un ex diplomatico a Bonn, il proprietario di un ristorante a Beirut e un ex ufficiale della polizia ad Atene. Gli omicidi sono ampiamente documentati dalla stampa internazionale e suscitano forti proteste in tutta Europa.
  10. Per una trattazione approfondita della questione maltese, con riferimento anche al caso Ustica, si rimanda al lavoro di Mariele Merlati, Frammenti di storia internazionale. La strage di Ustica e il triangolo Italia-Malta-Libia nell’estate del 1980, in “Rivista di Studi e Ricerche sulla criminalità organizzata”, vol. 3/3, 2017, pp. 32-51.
  11. Paese verso cui nel 1980 l’Italia esportava tecnologia nucleare.
  12. È stato detto che l’Itavia è l’ottantaduesima vittima della strage di Ustica. Nel 2013, la Corte di Cassazione ha emesso la sentenza relativa al procedimento civile intentato contro i Ministeri della Difesa e dei Trasporti dagli eredi del presidente Itavia, riconoscendo che il fallimento della compagnia è stato causato dalla “riconosciuta attività di depistaggio” ad opera dell’Aeronautica Militare, “definitivamente accertato”, e dal “conseguente discredito commerciale dell’impresa”. Cfr. Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Civile, Sentenza n. 23933/2013, 2 ottobre 2013. È del 22 aprile 2020 la sentenza con cui la Corte d’Appello di Roma ha condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti a risarcire l’Itavia con 330 milioni di euro.
  13. La questione su come sono state condotte le indagini peritali nella prima fase dell’inchiesta giudiziaria è complessa. I primi periti tecnici sono stati nominati dalla Procura di Palermo, la quale però ha dovuto trasmettere le competenze per l’indagine alla Procura di Roma già il 10 luglio 1980 – ciò in base a un accordo preso ai vertici delle due procure. Con il passaggio dell’inchiesta a Roma, tuttavia, i periti palermitani sono stati di fatto gradualmente estromessi dalle indagini tecniche: anche se ufficialmente restarono in carica come periti, non vennero coinvolti negli accertamenti, che sono invece stati svolti dal magistrato in collaborazione con la Commissione ministeriale d’inchiesta Luzzatti.
  14. Oltre alle inchieste di Andrea Purgatori su “Il Corriere della Sera”, che già nel 1980 parlavano della presenza di altri aerei nei pressi del DC-9 Itavia, è da segnalare l’inchiesta realizzata nel luglio 1982 dall’emittente britannica Bbc, e ritrasmessa dalla RAI, dal titoloMurder in the Sky (Delitto nel cielo), che ipotizzava che l’aereo Itavia fosse stato colpito da un missile. Prima del 1986, queste inchieste non suscitarono comunque nessun tipo di reazione istituzionale.
  15. Su Ustica Cossiga vuole la verità: ecco la lettera a Craxi, in “Il Corriere della Sera”, 13 agosto 1986, p. 1.
  16. Questo paragrafo è tratto dal volume, a cura della stessa autrice di questo articolo, Ustica. Una ricostruzione storica, Editori Laterza, Bari-Roma, 2020.
  17. Intervista realizzata dalla sociologa Gabriella Turnaturi per il suo volume Associati per amore. L’etica degli affetti e delle relazioni quotidiane, Feltrinelli, Milano, 1991, p. 28.
  18. Flaminia Cardini (a cura di), Ustica. La via dell’ombra, Sapere 2000, Roma, 1990, p. 161.
  19. Che vi fosse bisogno di esercitare una pressione politica affinché l’inchiesta giudiziaria producesse dei risultati aveva iniziato a essere chiaro già da molto prima del 1988. Un primo appello, sottoscritto da diversi parenti delle vittime, su iniziativa del fratello del secondo pilota del DC-9, Gianfranco Fontana, era stato rivolto al presidente della Repubblica, ai presidenti delle Camere, ai capigruppo dei partiti, al magistrato inquirente Santacroce e alle principali testate nazionali già il 15 dicembre 1980: “Ci rivolgiamo alla sig. vs. affinché un caso troppo presto caduto nel silenzio riacquisti il rilievo che la sua gravità impone, sia per le vittime che ha causato sia per la sicurezza del cielo a cui ogni cittadino, fruendo di tale servizio, ha diritto. Questa nostra petizione ha lo scopo di sollecitare il vs. interessamento, un chiarimento circa le esatte cause sulla responsabilità dell’accaduto, al di là di ogni eventuale interesse economico e politico che potrebbe, complici il trascorrere del tempo e lo affievolirsi dell’emotività suscitata dalla gravità del fatto, indurre a non escludere le ipotesi più fantasiose forzando così un’archiviazione del caso per mancanza di elementi probanti”. Istituto Storico Parri di Bologna, Fondo Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, Corrispondenza, busta 1.
  20. Istituto Storico Parri di Bologna, Fondo Daria Bonfietti, Carteggio, busta 1, anno 1986.
  21. Ibidem.
  22. Istituto Storico Parri di Bologna, Fondo Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, Anniversari ed eventi, busta 1 (89-93).
  23. Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica (a cura di), Il dolore civile. La società dei cittadini dalla solidarietà all’autorganizzazione, Guerini e Associati, Milano, 1993.
  24. Ivi, p. 16.
  25. Norberto Bobbio, La violenza di Stato, in “Resistenza”, XXIV, gennaio 1970, n. 1.
  26. Cfr. Norberto Bobbio, La democrazia e il potere invisibile, in “Rivista italiana di scienza politica”, X, 1980, pp. 181-203; poi in Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1984, p. 76.
  27. Norberto Bobbio, Il potere invisibile, in “La Stampa”, 23 novembre 1980, p. 1.
  28. Ezio Mauro, Quando lo scandalo non serve, in “La Stampa”, 20 novembre 1984, p. 2.
  29. Francesco Bonifacio, La democrazia è trasparenza, in “Corriere della Sera”, 25 giugno 1988, p. 1.
  30. Istituto Storico Parri di Bologna, Fondo Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, Anniversari ed eventi, busta 1, anno 1989. Sottolineature nel testo originale dell’intervento.
  31. Ibidem.
  32. Istituto Storico Parri di Bologna, Fondo Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, Anniversari ed eventi, busta 1, anno 1990.
  33. Turnaturi, Associati per amore, cit., p. 3.
  34. Istituto Storico Parri di Bologna, Fondo Daria Bonfietti, Carteggio, busta 1, anno 1987.
  35. Istituto Storico Parri di Bologna, Fondo Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, Anniversari ed eventi, busta 1, anno 1992. Dall’intervento di Daria Bonfietti a una conferenza stampa per raccolta fondi, 3 dicembre 1992.

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2020 Cora Ranci