COVID-19: al bivio della civiltà
Massimiliano Capra Casadio, COVID-19: al bivio della civiltà, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 49, no. 16, giugno 2020
Non è stata la prima volta. E con tutta probabilità nella storia dell’uomo non sarà nemmeno l’ultima. Per certi aspetti era anche prevedibile. Numerosi scienziati in tutto il mondo, figure particolarmente lungimiranti come Bill Gates, o esperti fra cui il docente di ecologia Almo Farina, avevano già lanciato l’allarme da diversi anni sul fatto che cambiamenti globali quali «l’aumento della popolazione umana, la crescita di città sempre più grandi, le condizioni igienico-sanitarie deficitarie delle grandi megalopoli e dall’altro l’aumentata vulnerabilità degli agro-ecosistemi e degli ecosistemi acquatici», sarebbero stati fattori da cui attendersi inevitabilmente l’insorgenza di pericolose «nuove malattie»1. Batteri, virus, epidemie ed infezioni pandemiche caratterizzano la vita del genere umano sulla terra fin dai suoi primi passi evolutivi e continueranno ad accompagnarci per tutta la nostra storia, fino all’ultimo, perché, se non ce ne fossimo ancora accorti, non vi è nulla delle nostre caratteristiche specifiche che esuli o che trascenda il sistema biologico di cui facciamo parte. Certo, negli ultimi anni, anestetizzati dal dominio della tecnica e dalle infinite possibilità offerte dalle scelte consumistiche del mercato mondiale o rapiti da un cellulare che nelle nostre mani è in grado di svolgere più operazioni di quanto un singolo individuo possa riuscire a compiere nella sua intera esistenza, era piuttosto difficile accorgersi che la nostra natura originaria ed irrevocabile non ha mai cessato di appartenere all’ecosistema e ad essere soggetto alle sue dinamiche di vita e di morte. D’altra parte, l’Occidente moderno, edificato sui due termini della tecnica e del mercato, ha costituito la prima civiltà della storia a generare una società, la cui cultura si è ormai impiantata stabilmente in tutto il pianeta, «priva del senso del limite, “illimitata”, anzi, propriamente, sterminata». Tuttavia, come ricorda Giorgio Ruffolo, una «civiltà che pretende di abolire il limite è perduta», soprattutto quando cessa di confrontarsi con «l’estremo limite, quello della morte», non solo «perché non riconosce i confini ecologici e sociali della sua avventura, ma perché smarrisce il senso che solo il limite può attribuirle»2. Anche per questo le immagini tremende e strazianti di dottori ed infermieri chiusi dietro a mascherine ed abiti infetti, l’irrimediabile solitudine di pazienti che potrebbero essere il padre o la madre di ognuno di noi isolati dai loro cari ed avviati ad una morte senza conforto, o quelle a tutti più famigliari dei viali di casa una volta brulicanti di chiassosa umanità ed oggi, invece, tremendamente vuoti, hanno avuto l’impatto di una terribile onda emotiva che dai primi giorni di febbraio del 2020 ha fatto naufragare tutte le superbe illusioni cullate dalla nostra società ipertecnologica sull’unicità del genere umano. È come se ogni tanto le civiltà finissero per diventare vittime delle favole consolatorie e dei grandi racconti anestetizzanti che esse stesse hanno creato, dimenticando per un attimo quel principio di realtà che solo poche culture hanno davvero saputo maneggiare, per cui il dolore, il sacrificio, la morte e persino ciò che non ha alcun senso, fanno parte, come noi, di questo grande universo. Il virus ci ha gettato in faccia senza tanti fronzoli tutta la fragilità della natura umana e dell’intera arena biologica che abitiamo, riportandoci in un attimo a quella miserevole condizione che Michel de Montaigne ha magistralmente riassunto in una celebre metafora: «Tutto il genere umano non è altro che una tenue fiammella in un vento brutale»3.
I giorni terribili del tempo sospeso del coronavirus, nella loro drammaticità, nel loro spingere l’individuo fin dentro a quel senso di paura e di angoscia che rimbomba dalle stanze degli ospedali di tutto il mondo, dalle ambulanze di New York fino al pronto soccorso dietro casa, e che resteranno confusi nella memoria per la ripetitività delle prigioni domestiche e la libertà mutilata a cui siamo inevitabilmente condannati, ci spingono però anche verso un ventaglio infinito di possibili riflessioni e di domande come realmente solo il dolore è capace di stimolare nelle menti di una civiltà altrimenti distratta dalla sua meccanica smania di acquistare e consumare oggetti. Ora che, in un certo senso, parafrasando il titolo di un film degli anni Settanta, il mondo si è fermato, possiamo cogliere finalmente l’occasione per trovare un momento per pensare, anche perché nessuno è riuscito a scendere. La realtà sospesa di un presente che assume sempre più le sembianze di un momento in attesa, però, dà l’impressione di non lasciare altro spazio per riflettere che sulle altre possibili forme del tempo: su un passato da rimpiangere o sulle incognite del futuro. Tuttavia, non potendo più cullarci nel vortice frenetico di un eterno presente, com’eravamo abituati in una società schizofrenica e cieca di fronte a quella che Hartmut Rosa ha chiamato la «logica dell’accelerazione sociale» che la muove da cima a fondo4, adesso, abbiamo di fronte a noi la grande opportunità di riprendere la trama del passato, come forse non facevamo da tempo, e di chiederci ancora una volta chi è l’uomo e dove stia andando, così come possiamo provare ad immaginare nuove vie da percorrere in un futuro carico d’inquietudine e che per molti aspetti sarà necessariamente diverso. Interrogarci su chi siamo, da dove veniamo e dove andremo, sono alcune di quelle domande scomode, per cui forse non otterremo mai una risposta, che costituiscono però il cuore pulsante del procedere filosofico, e che vale la pena comunque porsi, non solo perché chiamano in causa la nostra natura di esseri dotati d’intelligenza, di libero pensiero e d’immaginazione creativa, ma anche perché arricchiscono in ogni caso la nostra capacità di fare di noi stessi un problema oggetto d’indagine e d’interesse. John Dewey, con il suo lucido pragmatismo, era convinto che la filosofia moderna avesse in larga parte preso il posto delle illusioni soprannaturali o religiose con cui l’uomo aveva da sempre fornito delle giustificazioni metafisiche ai suoi desideri ed ai suoi fini, e che, quindi, fosse giunto il momento che l’analisi filosofica tornasse ad essere, finalmente, ciò per cui era stata creata, in quanto amore della sapienza e, dunque, della verità. La filosofia, ammonisce il pensatore statunitense, deve tornare ad essere intesa come «critica dei valori», e dunque assurgere al ruolo di critica delle critiche, nel senso che deve avere lo scopo di interpretare i fatti del mondo per fare dell’intelligenza, del pensiero e della conoscenza ottenuta, il mezzo per la verifica della gerarchia dei valori fatti propri da una data società, per evitare per quanto possibile il male ed ottenere il bene, e per realizzare i fini del genere umano5. È in questo senso che il virus può essere colto anche come un vero e proprio bivio filosofico, giacché, con le grandi trasformazioni che già adesso ha determinato, costringe a ripensare tutta una serie di paradigmi culturali con cui l’uomo postmoderno ha raccontato sé stesso e la società in cui vive. Eppure, in questi giorni frenetici di cambiamenti improvvisi e terribili che hanno intaccato il tessuto della società e della vita collettiva, sembra che in pochi abbiano compreso la necessità, per usare un’espressione di Friedrich Nietzsche, d’«inventare l’espediente alchimistico di trasformare anche questo fango in oro» per evitare di restarne soffocati6. Sugli ormai innumerevoli canali della comunicazione si offre il consueto spettacolo dell’uomo alla nevrotica ricerca di dare un senso alla presenza del male, e così si ricorre alla categoria della colpa a cui seguono spiegazioni di ogni tipo e forma che vanno dalle teorie complottiste alla ribellione della natura, fino alla formulazione di scenari metafisici che reinterpretano in chiave moderna antiche superstizioni medievali. Lo stesso confuso vociare si registra sulle previsioni del mondo che verrà, fra chi preme affinché la marcia inesorabile della produzione e del mercato riparta come prima e chi, invece, pur preoccupandosi delle inevitabili conseguenze sulla contrazione del lavoro e dei redditi, trova comunque sconfortante lo spettacolo di un mondo in cui le considerazioni e gli interessi economici appaiono inarrestabili ed intoccabili, anche a fronte del rischio della perdita di migliaia di vite umane.
L’impressione potente che si percepisce vivida nella carne e negli sguardi per la gravità del momento, è di essere di fronte ad un evento epocale, che con tutta probabilità, perlomeno per un periodo di una certa lunghezza, modificherà abitudini sociali e stili di vita, settori economici e considerazioni politiche e che, comunque sia, lascerà dei segni profondi nella psiche e nella mentalità collettiva delle generazioni che lo hanno vissuto. In questo senso, dunque, il virus in realtà è qualcosa di molto più vasto di un nemico invisibile classificato come Covid-19, perché è in primo luogo un problema filosofico. La filosofia, infatti, riflette la problematicità dell’esistenza umana e la vastità degli interessi del pensiero razionale della specie a cui apparteniamo, quell’Homo Sapiens che, come scrive Nicola Abbagnano, facendo filosofia, finalmente «si fa problema a se stesso e cerca le ragioni e il fondamento dell’essere che è suo», provando a rendere «chiara per quanto è possibile la condizione e il destino dell’uomo»7. Per Platone, inoltre, filosofare non significa soltanto aprire la propria mente alla conoscenza delle cose e cogliere la possibilità di poter contemplare «lo spettacolo della verità», ma è uno sforzo rigoroso del pensiero che ci pone in comunicazione con gli altri, con il resto degli uomini, poiché si risolve nel sapere a vantaggio dell’uomo8. Non a caso, il suo celebre mito della caverna si conclude con lo schiavo che una volta liberatosi, in nome di un senso di giustizia e di dovere morale verso coloro con cui condivide la condizione umana, sceglie comunque di tornare dai suoi compagni per tentare di liberare anche loro. Filosofia, perciò, significa cercare di comprendere il più possibile chi siamo e da dove veniamo; è analisi critica dell’essenza dell’uomo, nonché della storia dei suoi atti e delle sue idee; è un eroico tentativo del pensiero d’immaginare dove tutto questo possa condurci o inventare nuove rotte per affrontare i cambiamenti; è analisi delle relazioni e delle responsabilità che legano ogni individuo al resto della razza umana. In un certo senso, per citare Popper, «tutti gli uomini sono filosofi», dato che «in un modo o nell’altro, assumono un atteggiamento nei confronti della vita e della morte», e nulla, dal dopoguerra ad oggi, ha costretto milioni di persone, in tutto il mondo, a fermarsi a riflettere, anche solo per un istante, sulla vita e sulla morte come ha fatto la diffusione dell’infezione da Covid-19 dal gennaio del 20209.
La prima enorme frattura rispetto alla dinamica sociale a cui perlomeno la parte occidentale del mondo era abituata è percepibile, come detto sopra, nel rapporto con la categoria del tempo ed è proprio nell’ambito della dimensione temporale che il Covid-19 ci presenta il primo grande bivio filosofico. Se, come afferma ancora una volta Hartmut Rosa, sono le «strutture temporali» a determinare ed organizzare la «forma e la qualità della nostra vita», poiché sono le dinamiche della percezione del tempo a collegare «il microcosmo individuale al macrocosmo sociale», la clausura privata determinata dalle necessità della distanza sociale ai tempi del Covid-19 ci offre innanzitutto la possibilità inattesa di pensare a come «riconquistare momenti di esperienza umana non alienata»10. Friedrich Nietzsche, in Umano troppo umano, scriveva che la civiltà occidentale aveva iniziato a produrre uomini che «ronzano a sciami confusi come api e vespe», soffrendo di una «mancanza di quiete» che rischia di sfociare «in una nuova barbarie», motivo per cui egli spronava ad apportare delle «necessarie correzioni (…) al carattere dell’umanità», di cui la più urgente è senza dubbio «quella di rafforzare in larga misura l’elemento contemplativo»11. La mercificazione ossessiva di ogni aspetto dell’esistenza, lo «scatenarsi della tecnoscienza e il dispiegarsi planetario della Forma-Capitale», hanno invece inesorabilmente proiettato la civiltà occidentale e la sua cultura in quella che Alain de Benoist ha chiamato l’«era dell’illimitato» che distorce in primo luogo il rapporto con il tempo. Una società che rifiuta sistematicamente la categoria del limite, però, respinge anche ogni «punto di riferimento». Nondimeno, sono proprio i punti di riferimento – che siano l’avanzamento della conoscenza, i valori condivisi, o i principi etici – a permettere di «capire che non tutto è possibile, o che tutto ciò che virtualmente è possibile non per questo è auspicabile»12. La civiltà globale che si è improvvisamente fermata a partire dal gennaio 2020, man mano che l’infezione provocata dal Covid-19 si è estesa a macchia d’olio di continente in continente, è alimentata da una logica sempre più indiscussa ed irrinunciabile di «rapida trasformazione del mondo materiale, sociale e spirituale», secondo una «velocità crescente» che «non abbandona mai l’uomo moderno». La società globale tardo-moderna o post-moderna mostra perciò un’ossessione diffusa per l’«accelerazione tecnologica», per l’«accelerazione dei mutamenti sociali», così come per quella del «ritmo di vita»13. Così facendo, però, essa ha generato un modello culturale di esistenza esteso massicciamente in tutto il mondo dominato da quello che ancora una volta Hartmut Rosa definisce un «rigido e severo regime temporale che non si articola in termini etici», e che si configura come «per lo più invisibile, depoliticizzato, indiscusso, sottoteorizzato e inarticolato»14. Forse non ci si è ancora resi pienamente conto che questa inarrestabile corsa all’accelerazione sociale «implica scavalcare certi confini al di là dei quali gli esseri umani divengono necessariamente alienati non solo dal loro agire, dagli oggetti con cui lavorano e vivono, dalla natura, dal mondo sociale e da sé stessi, ma anche dal tempo e dallo spazio», rischiando così di allontanarsi sempre più da ogni possibilità di sviluppare una riflessione seria su quali siano gli aspetti necessari di una vita buona e cioè di un’esistenza non alienata15.
Nella sua bellissima introduzione al celebre testo di Gerd B. Achenbach, Il libro della quiete interiore, Raffaella Soldani scrive che «nella nostra epoca, in cui apparentemente non ci manca nulla, quello di cui in realtà avremmo più bisogno è proprio la tranquillità, la quiete, il tempo per pensare». Nonostante la finestra temporale aperta dalle misure restrittive adottate da un numero cospicuo di governi mondiali per tentare di arginare la diffusione del contagio avvenga ovviamente in un contesto tragico che non può che alimentare ansie e scenari futuri carichi più di minacce che di promesse, l’esistenza umana ai tempi del lockdown, obbligata a spendersi in un tempo che inaspettatamente si è arrestato, può aprire perlomeno la possibilità di un «ritorno alla riflessione sulla vita». La vita moderna, spiega la Soldani, per Achenbach è caratterizzata da due errori fondamentali, entrambi connessi ad una sostanziale distorsione del rapporto con il tempo.
«Il primo errore del Moderno, il fatto di trattare il tempo come un oggetto e una materia da accumulare e da sfruttare, sfocia in quello che Achenbach chiama il “paradosso di Momo”, cioè la condizione per cui più tempo cerchiamo di risparmiare, attraverso l’accelerazione progressiva delle nostre attività (secondo il motto: “vai più veloce!”), più tempo, nei fatti, perdiamo e ciò che va perso è il tempo esistenziale, il tempo di vita. Si scatena così un circolo vizioso, nel quale siamo sempre più incastrati, per cui il perpetuo movimento che ci coinvolge si trasforma in un “permanente scomparire” e noi viviamo, trascorriamo i nostri giorni nell’indifferenza, invecchiamo, fino a quando la nostra esistenza giunge al suo termine senza che neanche ce ne rendiamo conto»16.
Oltre alla frenesia dell’accelerazione sociale permanente teorizzata da osservatori come Rosa o Achenbach, ben visibile nella dinamica compulsiva del consumo dei tanti mezzi «risparmia tempo», dai cellulari ad internet che «tendono a velocizzare le nostre attività, e peggio, le nostre relazioni umane», l’altro errore del moderno posto in evidenza da quello che è considerato come il padre della consulenza filosofica, consiste nel soppesare ogni aspetto dell’esistere secondo il noto «principio di novità». L’idea che solamente il nuovo sia ontologicamente migliore addormenta l’uomo in un eterno presente scandito dalla martellante rincorsa di sempre nuovi bisogni: «adesso nulla è più valido solo per il fatto che così è sempre stato, nulla ha anzi più valore e stabilità, poiché tutto è rimesso al giudizio dell’oggi». La società globale messa in pausa dal Covid-19 è quindi un’epoca la cui unica logica strutturale è quella della crescita, dell’efficienza, della velocità, della novità a tutti i costi, dello sviluppo e del progresso illimitati, ma che proprio per questo non «riconosce alcun fondamento», giacché «i suoi valori, le sue credenze, i suoi giudizi vengono emessi con la “data di scadenza”, sono cioè “di oggi”, e valgono solo “per oggi”», mentre domani «apparterranno già al passato, e saranno quindi, sostituiti da nuovi valori e nuovi ideali»17. La consapevolezza di essere al cospetto di un mutamento epocale e la conseguenza di dover formulare strategie inedite per poterlo affrontare, assieme all’intrusione nelle nostre vite di una nuova relazione con il tempo a cui siamo stati costretti dai provvedimenti sanitari, consegnano forse al genere umano una delle ultime occasioni per poter ripensare l’esistenza dell’uomo e del suo rapporto con l’universo non più in termini produttivi o economici, ma secondo la categoria della vita buona, e quindi secondo una prospettiva filosofica. Come insegna Aristotele, ogni scelta, in greco eubolia, ovvero la capacità di deliberare sulle sole «cose che dipendono da noi» sulla base di valutazioni appropriate, è comunque sempre «accompagnata da ragione, cioè da pensiero», poiché l’«attitudine a deliberare bene sarà la rettitudine conforme a ciò che è utile a raggiungere il fine, di cui la saggezza è la vera apprensione»18. Aristotele, in altri termini, ci invita a considerare che esistono dei momenti, nella vita individuale e collettiva, «che hanno una tale importanza per le nostre vite», ed in questo caso anche per quelle di altri milioni di persone, «da meritare un serio investimento in termini di tempo e riflessione propositiva». La consapevolezza di essere al cospetto di un bivio epocale offre dunque l’occasione di riportare al centro del dialogo fra gli uomini una riflessione seria sulla vita buona, sia per quanto riguarda l’esistenza del singolo individuo, sia per quel che concerne la dimensione della cosa pubblica. Solo così si potrebbe ridare voce ad una prospettiva globale sul mondo che è fondamentale per ogni essere pensante e potenzialmente libero, ma che troppo spesso negli ultimi decenni è stata completamente sopravanzata dalle esigenze della crescita, della produzione, dagli interessi delle corporation, dei bilanci o della libertà di mercato. Se deliberare, in termini aristotelici, come spiega Edith Hall, concerne in primo luogo la «scelta migliore per raggiungere i nostri fini», dando luogo ad un processo decisionale che passa da una conoscenza il più ampia possibile dei fatti e dalla rettitudine del pensiero, la gravità del momento c’impone di cogliere l’opportunità di riportare l’economia ad essere un semplice mezzo per realizzare i fini dell’uomo: ovvero la vita buona19.
In altri termini, così come ha compreso Giovanni Fornero, la vita tardo-moderna, a cui ora si aggiungono le problematiche scatenate dall’infezione da Covid-19, lungi dal rendere superflua l’indagine filosofica, ha in realtà finito «per aumentarne la vitalità e per moltiplicare il numero dei suoi problemi, rendendola, per certi aspetti, ancor più indispensabile», dato che affrontare una qualsiasi questione in termini filosofici significa in primo luogo arricchire la nostra capacità di «autocomprensione e autoprogettazione stessa dell’uomo»20. Purtroppo, però, in questi giorni terribili e convulsi, alla sensazione di ansia e d’insicurezza diffuse ed a quel senso d’impotenza davanti ad una catastrofe sanitaria che ha rischiato di mettere in ginocchio il sistema ospedaliero, si sono sovrapposti, fin da subito, messaggi di altro tenore. In un primo momento, quando ancora era largamente diffuso un atteggiamento di miope sottovalutazione del rischio, i canali della comunicazione sono stati ingolfati di appelli accorati, conditi dagli immancabili selfie al momento dell’aperitivo, affinché il motore economico non potesse essere fermato. Poi, una volta compresa la gravità della situazione, ed accettate di malavoglia le conseguenti misure di sicurezza, ha iniziato a farsi sempre più forte l’isteria della ripartenza a tutti i costi del sistema di produzione e consumo, perché altrimenti la «pandemia diventerà una carestia»21. Date per assodate, ovviamente, le legittime preoccupazioni per le drammatiche conseguenze sul piano sociale ed occupazionale che la crisi del Covid-19 finirà inevitabilmente per procurare, formule e slogan come “Milano non si ferma” o “La Riviera va avanti”, gli appelli a “riaprire subito” o le assillanti pressioni sulla ripartenza, sembrano tuttavia alimentate più che altro da una mentalità di lungo corso in base alla quale non è concepibile che la marcia travolgente del sistema produttivo del capitalismo avanzato possa subire una qualche forma di ripensamento, né tantomeno d’interruzione.
Oggi più che mai, infatti, risultano evidenti quei principi strutturali della «dinamica tecnoeconomica planetaria» che Serge Latouche ha voluto elencare facendo ricorso alla categoria della megamacchina infernale, descritta come un apparato «anonim[o] e irresponsabile», che si autoalimenta e che è divenuto «praticamente incontrollabile»22. In un lungo saggio in cui vengono messi a nudo gli sviluppi storici del capitalismo e i valori che lo hanno sorretto, Luc Boltanski ed Eve Chiapello, hanno identificato la tarda modernità con l’affermazione di un capitalismo «in piena espansione e profondamente ristrutturato» che si sarebbe sviluppato alle soglie degli anni Ottanta. Questo nuovo modello di sviluppo, promotore della deregolamentazione dei «mercati finanziari e dei movimenti di fusione-acquisizione delle multinazionali in un contesto di politiche governative favorevoli in materia fiscale», di vasti processi di delocalizzazione, di privatizzazione e di «crescita delle flessibilità sul mercato del lavoro», è stato sorretto, a livello culturale, da notevoli «cambiamenti ideologici» che hanno eretto ad unico valore del motore economico l’accumulo di capitale spogliandolo di ogni corrispettivo etico e diffondendo, a livello di mentalità collettiva, un «fatalismo attualmente dominante» sul fatto che i «cambiamenti recenti sono stati presentati come delle mutazioni inevitabili ma alla fine portatori di benefici»23. Il funzionamento del sistema economico contemporaneo ha così assunto sempre più un «carattere macchinico» del tutto inarrestabile, nel senso che agisce come se fosse un processo automatico, e non frutto degli sviluppi storico-culturali delle civiltà umane, e che una volta avviato non possa più essere arrestato. Una macchina può legittimamente essere definita infernale, conclude Latouche, «quando essa sfugge al controllo di coloro i quali l’anno concepita e costruita», così come il sistema economico globale contemporaneo sfugge «a ogni regolazione politica», conduce dritto ad un «vicolo cieco», per il suo costo ecologico insostenibile, e produce in modo diffuso una situazione sociale «profondamente ingiusta»24.
Tuttavia, per il viaggiatore che voglia percorrere la «via con diligenza», come insegna un celebre detto buddhista, giungere ad un bivio offre innanzitutto l’occasione di potersi fermare per riflettere, prendersi una pausa sul cammino per ripensare al sentiero che si è percorso e comprendere ogni volta quale sia la strada giusta da imboccare con una nuova consapevolezza25. Le grida allarmate sulla necessità della ripartenza ad ogni costo, oltre ad incanalare quelle che Marx definiva le «furie dell’interesse privato», non sono solo il lato manifesto di una cultura vittima di una «perdita di senso legata al modo in cui le relazioni economiche hanno preso il posto delle relazioni sociali», ma sono anche il triste segnale di un primato valoriale dell’economia che ha ormai inghiottito ogni altro aspetto dell’esistenza, compreso il rispetto della dignità della vita umana26. Come scrive giustamente Jean Claude Michéa, dato che la logica del capitalismo di ultima generazione è quella di vendere qualunque cosa a chiunque, gli è necessario non solo trasformare ogni individuo essenzialmente in un consumatore, ma anche emanciparsi da ogni sovrastruttura culturale o etica che potrebbe impedire la mercificazione totale del mondo, motivo per cui esso ha preso le forme di un «movimento storico che, da oltre trent’anni, seppellisce l’umanità sotto un “immenso accumulo di merci” (Marx) e trasforma la natura in un deserto di cemento e acciaio»27. Un’apertura prematura delle attività commerciali e produttive, o che avvenisse senza la formulazione di un efficiente protocollo di sicurezza o senza i necessari strumenti sanitari in tutti i luoghi di lavoro, potrebbe ridare linfa vitale alla diffusione dell’infezione e generare una catastrofe ancora peggiore di quella in corso. L’impossibilità del grande ingranaggio di fermarsi, ci impone dunque di riflettere su quale sia la natura dei suoi effetti sull’effettiva opportunità per milioni di persone di poter realmente pianificare una vita buona, dato che un meccanismo irreversibile, per definizione, con contempla la possibilità del cambiamento, né del ripensamento, né tantomeno della libertà. Uno shock emotivo dalle dimensioni globali e dalla portata storica come il Covid-19, che segnerà le coscienze e la psiche di una generazione, può essere visto, perciò, esattamente come un bivio filosofico da cui trarre insegnamenti ed indicazioni magari per disegnare un nuovo modello di esistenza sociale, ma anche per riportare in primo piano i grandi problemi di natura filosofica con cui l’uomo, fin dall’antica Grecia, ha voluto rappresentare sé stesso e la relazione con il mondo che abita. Forse, però, proprio come capita allo Zarathustra di Nietzsche, per far nascere la «montagna più alta», è necessario «innanzitutto scendere in basso (…) giù nel dolore (…), fin dentro il suo flutto più nero»28.
I mutamenti che il virus innescherà, così come gli interrogativi o le valutazioni che questa tragedia può stimolare, riguardano dunque un corpo eterogeneo di questioni che da sempre hanno costituito l’oggetto d’indagine del pensiero filosofico e che attengono alle tante e complesse forme dell’esistenza umana. La tesi qui sostenuta è che l’emergenza in atto in tutto il mondo costituisca uno di quegli eventi epocali capaci di segnare a fondo gli anni a venire ed il futuro d’intere generazioni, così com’è stato, ad esempio, per le sorti della lotta di liberazione dal nazi-fascismo che ha imposto una direzione netta e precisa al mondo postbellico. Potremmo trovarci nel bel mezzo di uno di quei tanti bivi della storia, o dell’esistenza individuale e collettiva, per cui sarebbe bene approcciarsi ad esso con un atteggiamento analitico che ne possa cogliere tutte le possibili dimensioni e che, in questo senso, riesca anche a leggerlo, oltre che naturalmente nelle vesti di un’emergenza sanitaria, come un problema essenzialmente filosofico, che concerne pertanto livelli ed ambiti di conoscenza polimorfi, da cui si possa avanzare l’ipotesi di una diversa prospettiva globale sul mondo. Il bivio filosofico messo in modo dalla pandemia del Covid-19 è senza dubbio un evento di natura pluridimensionale, poiché rimette in discussione molte delle grandi rappresentazioni con cui la civiltà occidentale ha raccontato la propria cultura e la propria storia. I problemi di natura eterogena che vengono messi in campo da un evento storico di tale portata e gravità investono la sfera politica come quella sociale, il destino economico così come il rapporto dell’uomo tardo-moderno con il tempo, ed in questo senso dovrebbero essere studiati secondo una veduta accurata e profonda in grado di accrescere complessivamente il sapere dell’uomo. Questo mare nero nel quale navighiamo a vista chiama perciò in causa un approccio filosofico capace di elaborare una teoria critica multidimensionale che ne selezioni i nodi problematici fondamentali e che ne tragga le lezioni indispensabili.
Sono almeno tre le questioni più urgenti che vale la pena analizzare per far sì che la tremenda catastrofe che sta sconvolgendo l’esistenza d’intere popolazioni lasci in eredità non solo morte e dolore, ma che sia anche fonte di conoscenza e che possa condurre ad una forma di consapevolezza realmente globale dell’uomo finalmente adeguata agli interessi ed alle dinamiche di un’economia e di una finanza ormai globali da diversi anni. La prima grande questione su cui porre l’attenzione è di natura storico-economica, attraverso la quale si possa avanzare un’analisi della contemporaneità che rimetta in fila le strutture socio-economiche del mondo globale così com’è stato lasciato prima del lockdown, per provare a vedere se sia possibile uscire dalla logica del profitto e del mercato privi di ogni vincolo etico così com’erano stati proposti dall’ultimo capitalismo fiorente dell’era globalizzata. Poiché, come afferma Hegel ogni uomo è «senz’altro, figlio del suo tempo», allo stesso modo, anche la filosofia «è il proprio tempo appreso col pensiero», ed ogni sforzo filosofico serio non può prescindere dalla consapevolezza storica della propria epoca29. È dunque necessario riappropriarsi innanzitutto della conoscenza del passato più recente, riannodare le fila del presente con la propria storia, per far sì che il passato, come suggeriva Paul Ricoeur, possa farsi «amico della vita»30. Posti davanti ad un bivio, è solo la comprensione della strada percorsa che ci può aiutare a scegliere ed a tracciare la via giusta in cui avanzare i prossimi passi. Il mondo dell’uomo è modellato dalla storia ed è solo sulla base di una conoscenza adeguata dei fatti, delle idee e delle grandi narrazioni dell’uomo nel tempo che sarà possibile immaginare anche un eventuale futuro alternativo che possa fornire delle risposte alla gigantesca sfida innescata dalla pandemia e disegnare un nuovo modello di esistenza sociale in cui al centro possa essere posto l’interrogativo sulla vita buona.
La seconda questione che può essere posta al centro di una riflessione filosofica sollevata dalle impressioni legate al Covid-19, riguarda il problema dell’uomo e del suo rapporto con l’ambiente naturale di cui è parte, e sarà dunque di natura antropologico-ecologica. Una riflessione del genere, sulla base del pensiero di Feuerbach, dovrà muovere dalla volontà metodologica di mettere al centro del proprio interesse «l’intero essere dell’uomo», nel senso che dovrà seguire un approccio filosofico che poggi «sulla ragione, in effetti, ma su quella ragione la cui essenza è l’essere umano», o meglio, non una ragione che si fondi «su una ragione senza essere, senza colore e senza nome, ma sulla ragione satura del sangue dell’uomo». Oggi più che mai, di fronte ai sentimenti di paura, d’impressione e di tremendo dolore scatenati dall’impatto improvviso dell’infezione dal Covid-19 sulla vita di milioni d’individui, si avverte la necessità di una narrazione antropologica che osservi e studi l’uomo nel suo essere concreto, riportandolo alla sua appartenenza alla sfera biologica e che riconduca, quindi, la filosofia «dal regno delle “anime dei defunti”», che non ha ancora cessato di frequentare, «a quello delle anime vive e incarnate», così che possa finalmente fare i conti con la «miseria umana»31. Probabilmente Homo Sapiens ha cercato di fornire una spiegazione al male fin da quando ha formulato le prime categorie del pensiero astratto, ed anche in questi giorni dolorosi sono state indicate una lunga serie di cause all’insorgere del virus che talvolta hanno riproposto stereotipi o tradizionali miti collettivi che si credevano sepolti in epoche in cui il pensiero razionale era oscurato dalla superstizione, dall’ignoranza o dal fanatismo religioso. Alcuni interventi hanno fatto ricorso alla categoria del complotto, ritenendo che il Covid-19 fosse stato creato in qualche laboratorio e poi diffuso fra la popolazione mondiale; altri alla soluzione teologica, leggendo nella pandemia una prova dell’allontanamento delle società moderne da Dio; altri ancora hanno voluto vedervi una ribellione della natura che starebbe punendo il genere umano a causa del saccheggio ambientale perpetrato dalla civiltà del progresso. Tutte queste ipotesi, spesso formulate senza alcun serio fondamento analitico o scientifico, recano tracce di un paradigma culturale antropocentrico di lunga durata che tende a spogliare l’essere umano dalla sua appartenenza al palcoscenico biologico, per farne il nucleo della creazione ed il figlio prediletto di Dio, e quindi un essere in un certo senso distinto dal contesto naturale che abita. D’altro canto, Freud, inizia le pagine de Il disagio nella civiltà scrivendo che «è difficile sottrarsi all’impressione che gli esseri umani siano soliti applicare criteri di valutazione errati». L’uomo, infatti, continua il padre della psicanalisi, è un essere presuntuoso e quando «siamo colpiti da una disgrazia», tendiamo a pensare di non essere più amati da quel «sommo potere» surrogato dell’affetto parentale che abbiamo sperimentato nell’infanzia, tanto che ci mettiamo convulsamente in cerca di cause con cui sublimare il senso di colpa, mentre «nel destino riconosciamo solo l’espressione della volontà divina»32.
Un virus invisibile che si diffonde con una velocità spaventosa e che può attaccare duramente i polmoni di chiunque, indipendentemente dalla condizione sociale o dalla forma fisica, non può che stimolare una seria riflessione sulla fragilità dell’essere umano e su quanto sia precario il difficile equilibrio su cui si regge la vita su questo pianeta. Se non si vuole sprecare l’occasione di cogliere da questo dramma collettivo un qualche insegnamento, non si può più prescindere, da un lato, dalla considerazione del genere umano a partire dal punto di vista di un’antropologia naturalistica ed evoluzionistica, e dall’altro, da una lucida assunzione di responsabilità delle «attività umane sul clima terrestre» che hanno massicciamente influito negli ultimi anni «sui sistemi ecologici variando la fenologia delle specie, alterando le loro interazioni e quindi influenzando la distribuzione e la produttività degli ecosistemi»33. È giunto il momento, anche dal punto di vista antropologico-ecologico, di porsi di fronte ad un bivio filosofico che accetti la domanda se sia il caso di riaccendere la luce del sistema produttivo-consumistico globale come se nulla fosse successo, di modo che, appena esaurita l’emergenza, il rullo compressore della mercificazione globale possa riprendere la sua marcia selvaggia dai costi ambientali devastanti, reclamando «in maniera statuaria una libertà di manovra totale» che si «affranca da ogni regola, al di fuori di quella del profitto immediato»34. O forse, se non sia invece opportuno provare a gettare le basi di un nuovo paradigma culturale fondato in primo luogo sull’ecologia umana. L’enormità del trauma collettivo provocato dal Covid-19, ci porta a riprendere il filo di una riflessione sull’essere autentico dell’uomo che tenga in debito conto della sua storia evolutiva, e che ponga la presenza della morte e del male nella corretta dimensione di elementi strutturali della realtà, così come avevano saputo fare la cultura classica greco-latina o come fanno ancora oggi tante tradizioni contadine o native. Non per nulla, Christopher Lash ha notato come le culture cosiddette subalterne, ancora legate alla terra ed ai cicli naturali, abbiano generalmente conservato un «senso dei limiti più sviluppato», al punto da comprendere pienamente che «ci sono dei limiti al controllo dell’uomo sul corso dello sviluppo della società, sulla natura e sul corpo, sugli elementi tragici della vita e della storia umane»35. La nostra storia evolutiva, in effetti, ci ha dotato di quella che Umberto Galimberti ha chiamato una doppia natura, composta, da un lato, dal nostro io, e dall’altro, dal richiamo della specie biologica alla quale apparteniamo. L’essere umano è abitato non soltanto dall’io attuale e cosciente, cioè dall’io rinsecchito in termini freudiani, ma anche da «un’altra soggettività sotterranea, solitamente non pensata e quindi inconscia, che ci prevede come funzionari della specie, la quale, per la cui conservazione, esige la morte dei singoli individui». La grande frattura dell’esistenza, dunque, non è tanto fra la vita e la morte, che costituisce la chiave di volta su cui è stata edificata l’intera teologia cristiana, ma quella fra la vita e la vita: «la vita della natura che per la sua perpetuazione esige la morte delle singole esistenze», dando luogo ad un equilibrio universale per cui «è l’economia della specie che alla fine ha la partita vinta sull’economia dell’individuo»36.
A queste considerazioni esistenziali, per una prospettiva analitica antropologico-ecologica, si deve inevitabilmente accostare un approccio critico sullo sviluppo della tecnica e dello sfruttamento illimitato delle risorse tipico del modello capitalista tardo-moderno. Questi capisaldi essenziali della logica del progresso indefinito sono stati certamente alimentati e sorretti, nella storia delle idee e delle religioni, da un’impostazione teorica basata sulla differenziazione ontologica del genere umano dal resto dell’ambiente naturale e da una relazione uomo-mondo effettivamente distorta da un principio di dominio molto spesso giustificato per volere divino. Per ecologia umana, ricorda Almo Farina, s’intende lo «studio dei rapporti tra l’insieme dei processi che interessano la nostra biosfera ed i processi che afferiscono alla sfera dell’uomo, del suo corpo e soprattutto della sua mente»37. Per porre le basi di un nuovo paradigma culturale e di una rinnovata autorappresentazione del genere umano, che voglia dunque sganciarsi da quella «fuga in avanti, necessaria all’equilibrio dinamico del sistema», ma che inevitabilmente «viene a scontrarsi con la finitezza relativa del mondo», si dovrà perciò uscire dalla logica antropocentrica dell’unicità ontologica dell’uomo, per recuperare un racconto che contempli anche in chiave storica una prospettiva finalmente ecologica38. Per secoli, moltissime tradizioni e culture hanno fatto «di tutto per distinguerci» dall’arena biologica, facendo sì che nell’autorappresentazione della gran parte di esse sfuggisse «facilmente il significato di [un] punto di vista sul mondo umano in cui il mondo animale è così profondamente riflesso», e che, per Barry Lopez, sarebbe invece in grado di produrre un più profondo «senso di appartenenza»39. In quest’ottica, il lascito più significativo che il genere umano potrebbe trarre da questo profondo shock collettivo è forse la possibilità di riappropriarsi di una nuova narrazione di noi stessi che abbracci un pensiero filosofico ecologico, attraverso il quale si riesca finalmente a pensare Homo Sapiens come parte integrante ed inalienabile di un ecosistema, cioè di un «insieme di componenti in relazione tra loro che costituiscono un’unità», e che di conseguenza se ne assuma la piena responsabilità in quanto specie dominante e, quindi, anche quella maggiormente invasiva per l’ambiente in cui vive. In altri termini – secondo il significato semantico che Ernst Haeckel, l’ideatore del termine, ha voluto assegnare al concetto di ecologia – ragionare sulla base di una filosofia dell’uomo che renda conto delle «relazioni complesse» del mondo in base alle quali «ciascun organismo non solo risponde all’ambiente fisico, ma al tempo stesso lo modifica, determinandone alcune caratteristiche e quindi diventandone parte».
«Per ecologia intendiamo il corpo di conoscenze che riguardano l’economia della natura – l’indagine del complesso delle relazioni di un animale con il suo contesto sia inorganico sia organico; comprende soprattutto le sue relazioni positive e negative con gli animali e le piante con cui viene direttamente o indirettamente a contatto – in una parola, l’ecologia è lo studio di tutte quelle complesse relazioni alle quali Darwin fece riferimento come alle condizioni per la lotta dell’esistenza»40.
La grande quarantena e le sue regole, necessarie e severe allo stesso tempo, si costituiscono, infine, come una gigantesca esperienza collettiva che solleva una lunga serie di questioni di ambito etico-politico. La rapida diffusione dell’infezione e le possibili risposte normative a cui hanno dovuto ricorrere le istituzioni di tutto il mondo, infatti, così come i provvedimenti sanitari, le gravi mancanze o la sottovalutazione dei rischi o la stessa gestione della comunicazione, hanno innescato una serie di scenari che, anche in questo caso, non solo si aprono ad una lunga serie di considerazioni filosofico-politiche di vario tipo, ma chiamano in causa anche il problema di quale sia, in questo caso, il bene pubblico più urgente, o quali le condotte giuste da adottare, aprendosi, in tal senso, anche alla questione etica. La particolarità e la complessità della situazione sanitaria, infatti, ha imposto ai governi ed alle amministrazioni locali d’introdurre una serie d’interventi e di vincoli sociali che hanno immediatamente fatto sorgere un notevole numero d’interrogativi sulla natura delle tante relazioni etico-politiche di cui è intessuta l’esistenza dell’uomo tardo-moderno. Le dinamiche del lockdown e dell’emergenza sanitaria che in molte zone hanno seriamente rischiato di portare al collasso il sistema ospedaliero, hanno ad esempio evidenziato l’importanza fondamentale del territorio nel rispondere alle reali esigenze degli abitanti, risollevando uno dei nodi più problematici della società globale: quello del rapporto fra locale e globale. In molte zone d’Italia, è stato evidente quanto sia importante, nei termini di qualità della vita e di tutela della salute, l’affermazione di «un’economia basata sui principi del localismo» per tentare di «ricostruire il tessuto sociale» e rispondere in maniera più appropriata alle esigenze delle comunità che vi spendono la propria esistenza41. In egual modo, di fronte ad una risposta alla crisi improntata più che altro sulla sicurezza nazionale, alla mancanza di un protocollo di emergenza comune, allo spettacolo dell’insufficienza e della disunione delle politiche europee, arroccate dietro a sterili egoismi finanziari, non si può nascondere che sia sorta l’esigenza d’interrogarsi sulla natura stessa delle istituzioni comunitarie che oggi appaiono più lontane che mai dall’auspicata Europa dei popoli. Il grande tema della salute, così come quello delle eventuali risposte al baratro economico in cui potrebbero sprofondare larghe fasce della popolazione mondiale – dopo decenni in cui persino la tradizione socialista ha subito la fascinazione per l’impresa di successo e per la privatizzazione massiccia, divenendo un ibrido ideologico che Jean-Claude Michèa ha definito il «pesce-pilota del capitalismo senza frontiere»42 – hanno riportato in primo piano il ruolo centrale dello Stato e della necessità delle politiche d’intervento pubblico che per far fronte alla catastrofe dovranno oscillare fra l’urgenza del sostegno a coloro che resteranno di fatto esclusi dalla ripresa ed il rischio di precipitare in un debito senza fondo.
Per quanto riguarda lo scenario politico immediato è chiaro che l’impatto devastante del Covid-19, per tutta una serie di conseguenze che è inevitabilmente destinato a procurare – tanto sulla sfera economica quanto sul piano della psicologia collettiva o del peso che potrebbe avere nell’influenzare i futuri orientamenti dell’opinione pubblica – attiri l’attenzione, la critica e persino il probabile risentimento sociale, sulle carenze mostrate nella preparazione, sul peso e sulla natura di alcune scelte, così come sulle successive strategie con cui i vari governi hanno risposto all’emergenza. Le zone rosse, la contrazione economica e tutta un’eterogena quantità di regolamenti restrittivi, che graveranno ad esempio sugli spostamenti da paese a paese o addirittura da regione a regione, continueranno a scandire la quotidianità di milioni di persone forse per diverso tempo, provocando presumibilmente uno scenario in cui alcune categorie produttive riusciranno a restare a galla ed a ripartire lentamente, mentre altre, invece, sono probabilmente destinate ad essere sommerse. A tutto ciò, si deve aggiungere un certo senso di abbandono e di latitanza da parte delle istituzioni che ha aleggiato in buona parte della popolazione o il sentimento di vera e propria indignazione per alcuni episodi particolarmente spiacevoli. Il ricordo della colpevole impreparazione, della mancanza di mezzi e di protocolli adeguati con cui migliaia di medici ed operatori sanitari hanno dovuto svolgere il loro lavoro, pagando un prezzo terribile ed al contempo vergognoso in vite umane, sarà difficile da cancellare. A questo, si aggiunga che migliaia di cittadini hanno dovuto fare la spiacevole esperienza di ammalarsi senza che nessuno venisse a visitarli o senza che gli venisse effettuato alcun tampone. Procedimento a cui, invece, come raccontano le cronache, hanno avuto accesso decine di personalità in vista, come calciatori, esponenti politici, alti prelati o protagonisti dello spettacolo, senza magari nemmeno manifestare quel tipo di sintomatologia prevista dai protocolli. Più che sentirsi tutti «sulla stessa barca», come ha detto il pontefice Jorge Bergoglio in occasione di un «momento straordinario di preghiera in tempo di pandemia», sarebbe forse meglio dire che siamo tutti nello stesso mare, poiché il virus non fa distinzioni di sorta, ma sembra che ognuno abbia una barca diversa con cui affrontare la tempesta43.
L’agenda politica dei prossimi mesi, se non degli anni a venire, potrebbe essere caratterizzata dalla necessità di dover rispondere ad una situazione pubblica potenzialmente esplosiva, provocata dai «contraccolpi finanziari e sociali giganteschi» che il virus finirà per determinare, la cui portata, come ha avvertito Valter Veltroni, potrebbe addirittura porre in discussione la tenuta stessa delle democrazie occidentali e dei suoi caposaldi44. Come ha ricordato anche Marco Tarchi, misure restrittive così vaste adottate da svariati governi, benché senza dubbio inevitabili per limitare la diffusione del contagio, se dovessero prolungarsi per troppo tempo o se non venissero approntate misure necessarie per colmare la voragine della grande depressione che ci attende alla fine del tunnel, rischierebbero di «causare il crollo di interi settori produttivi, un aumento enorme della disoccupazione, psicosi diffuse, picchi di suicidi, anche rivolte popolari». Mentre alla scienza è demandato il compito di aumentare quanto più possibile la conoscenza di un virus che ha fatto il salto di specie solo da pochi mesi e sui cui sviluppi, dunque, è ancora piuttosto azzardato fare previsioni precise, e d’indicare i parametri per garantire la sicurezza della salute, la politica è chiamata ad immaginare i possibili «scenari d’uscita dall’emergenza»45. Bisogna pur dire, tuttavia, che almeno per ora, non si sono sentite tante voci emergere dal seno della classe politica europea che abbiano colto l’occasione della gravità del momento e che abbiano avuto il coraggio di avanzare ipotesi su una profonda revisione del sistema economico-finanziario. Le soluzioni per ora proposte, infatti, come il ricorso al MES o i cosiddetti covid-bond, invece che orientarsi su interventi strutturali straordinari di ampio respiro che possano realmente far fronte alla crisi, come fecero il Piano Marshall o il New Deal, investendo sui beni pubblici o puntando sulla possibilità di generare un lavoro stabile e dignitoso che potrebbe reggere il peso dei consumi, sembrano essere parte dell’ormai noto gigantesco meccanismo moltiplicatore del credito. I governi di mezzo mondo, in altri termini, hanno scelto di fare indebitare ulteriormente migliaia di cittadini, alimentando una bolla speculativa il cui «valore economico è sempre meno connesso a un valore che può essere reso in termini oggettivi e sempre più a una ricchezza virtuale che si suppone corrisponda al desiderio illimitato degli individui», ma che per Alain de Benoist è destinata ad implodere poiché «non potrà gonfiarsi indefinitamente»46.
Le considerazioni politiche emerse nel tempo del coronavirus, però, si spingono anche ad un livello speculativo più profondo che concerne l’essenza stessa della filosofia-politica e delle sue possibili giustificazioni, poiché chiamano in causa non solo le possibili vie d’uscita dalla condizione di crisi, ma inducono ognuno, sulla base del richiamo ad una consapevolezza sociale forse senza precedenti nelle epoche più recenti, a fare l’esperienza diretta della forte interdipendenza fra l’individuo e la collettività, fra sé e gli altri. La natura stessa del tempo speso nella quarantena e nella prigionia domestica, al pari del divieto negli spostamenti, crea, nell’immediato, una situazione emotiva, in un certo senso, surreale, perché il singolo potrebbe addirittura non comprenderne il senso, perlomeno fino al momento in cui non faccia malauguratamente l’esperienza della gravità della malattia. Il distanziamento sociale, infatti, è in primo luogo una lotta sorda contro un nemico invisibile il cui obiettivo è quello di spezzare al virus i suoi possibili canali di trasmissione e la riuscita di una tale strategia ha una ricaduta sul gregge, più che sul singolo, sulla protezione delle fasce più fragili della collettività o sull’alleggerimento degli afflussi ospedalieri per evitare di portare al collasso il sistema sanitario. Lo stesso utilizzo della più semplice mascherina chirurgica, dispositivo sanitario che per giorni è stato del tutto introvabile su tutto il territorio nazionale, ha uno scopo prevalentemente contenitivo ed ha dunque una funzione protettiva verso la società più che per chi la indossa. La comprensione di questo scenario, quindi, non solo richiede uno sforzo del pensiero ed il raggiungimento di una consapevolezza altruistica, ma si riflette, dal punto di vista speculativo, sulla stretta connessione fra etica e politica. L’essenza stessa della politica, considerata dagli antichi Greci come l’arte suprema del vivere bene e secondo virtù, per molti versi, non è altro che il tentativo delle comunità umane sublimate nello Stato di conciliare quanto più possibile la libertà del cittadino-individuo con le esigenze di giustizia ed i bisogni sociali della collettività. Non a caso, così come in Platone l’intera Repubblica è costruita sul riflettersi continuo del singolo nelle istituzioni della città, allo stesso modo, Aristotele concepisce l’etica e la politica come parti complementari dello stesso ambito, giacché, come scrive nell’Etica Nicomachea, la politica costituisce, fra tutte, «la scienza più importante, cioè (…) quella che è architettonica in massimo grado»47. Per Aristotele, come spiega Edith Hall, allo stesso modo di come «tutti gli oggetti dell’universo hanno un fine per cui esistono», ogni essere è chiamato a realizzare il proprio potenziale, a dar forma cioè a ciò che lo costituisce in essenza, e nel caso dell’uomo ciò consiste nella sua «potenzialità razionale»48. Quello che distingue la natura essenziale dell’uomo, infatti, non può essere la vita in sé, che è «comune anche alle piante», né la «vita dei sensi», che è «comune anche al cavallo, al bue e ad ogni altro animale», ma deve essere per forza di cose la «vita intesa come un certo tipo di attività della parte razionale dell’anima». Ne consegue, che lo scopo della condotta di ogni individuo, determinato dalla sua natura razionale di Homo Sapiens, non possa essere altri che la felicità, la vita buona, la quale consiste, a sua volta, in un «certo tipo di attività dell’anima conforme a virtù». Anche per Aristotele, però, la buona vita, una vita felice e conforme a virtù pienamente intesa, non può essere scissa dal contesto civile e dalla scenografia pubblica in cui si spende la propria esistenza, dato che «l’uomo è per natura un essere vivente politico» e «chi è incapace di vivere in società o non ne ha bisogno perché è autosufficiente, deve essere o una bestia o un Dio»49. L’uomo, infatti, è anche un animale sociale e le sue azioni hanno una ricaduta sull’intera comunità di cui ognuno è parte, tanto che se il «fine delle azioni da noi compiute» non può essere altri che il «bene supremo», è evidente che «se è anche il bene il medesimo per il singolo e per la città, è manifestamente qualcosa di più grande e di più perfetto perseguire e salvaguardare quello della città: infatti, ci si può, sì, contentare anche del bene di un solo individuo, ma è più bello e più divino il bene di un popolo, cioè di intere città»50. Etica e politica sono così intimamente connesse che, ricorda ancora Aristotele, generalmente «chiamiamo giusto ciò che produce e custodisce per la comunità politica la felicità e le sue componenti», poiché la giustizia «sola tra le virtù, è considerata anche “bene degli altri”, perché è diretta agli altri», ed il bene a cui dovrebbero essere indirizzati i comportamenti umani secondo un vincolo etico coincide con il bene pubblico51.
Riportare al centro del dibattito politico e culturale la questione della vita buona, non significa dunque richiamarsi esclusivamente ad una questione astratta o utopica che poteva essere presente solo nella mente di alcuni filosofi antichi appartenenti ad epoche ormai lontane, ma comporta accendere l’interesse su un tema di vasta portata che concerne la natura stessa dell’uomo e dei possibili significati dell’esistenza, le cui implicazioni sono oggi più attuali che mai. Una vita buona, cioè un’esistenza felice, come direbbe Aristotele, non è, «come alcuni pensano (…) qualcosa di visibile o appariscente, come piacere o ricchezza o onore», ma coincide con la virtù e con la giustizia, e quindi con un’etica del dovere verso le proprie scelte, per cui possiamo dire con onestà di essere rimasti fedeli a noi stessi, e nell’adempimento delle responsabilità che abbiamo nei confronti degli altri52. Ce lo mostra, nel buio di questo momento tragico e solitario, la luce che proviene dagli esempi quotidiani delle centinaia di persone che in ogni parte del mondo hanno continuato a fare il loro lavoro pur sapendo di mettere a repentaglio la propria salute, nel rispetto in primo luogo di quell’etica del dovere che accomuna culture e convinzioni personali anche profondamente diverse. Gli episodi di aiuto reciproco, di solidarietà, di rispetto per l’osservanza dei doveri contratti, di sacrificio in nome del ruolo sociale o istituzionale che si è scelto di ricoprire, così come la capacità di riconoscersi nel dolore altrui di cui ha dato straordinaria prova tutta l’Italia in questi giorni, mostrano come il vincolo etico che ci tiene tutti legati, salvo rare ed ostinate eccezioni, sia una componente trasversale nel tessuto culturale nazionale e che procede ben oltre le convinzioni ideologiche o religiose di ciascuno. Ciò che fa di una scelta il frutto di un ragionamento morale, per assumere la posizione di William K. Frankena, uno dei pensatori morali più influenti di tutto il Novecento, è l’adozione di un certo punto di vista morale che consiste nell’agire a partire da una «considerazione degli effetti delle azioni, dei motivi, dei tratti di carattere ecc. sulle vite in sé delle altre persone o degli altri esseri senzienti, includendo anche le vite degli altri oltre a quella della persona che agisce, che giudica o che viene giudicata»53. La sfera dell’etica, in questo senso, non s’inserisce in un rapporto di reciproca interrelazione solo con l’analisi della politica, in quanto s’interessa di modellare i sistemi teorici che regolino il rapporto dell’individuo con gli altri o di quale sia la natura della responsabilità sociale del singolo, ma ponendo la libertà di pensiero e l’analisi razionale a pilastro della sua indagine, si avvicina anche a campi come la scienza, la storia o la filosofia. La filosofia morale, infatti, conclude Frankena, esplora un campo che presuppone sì l’«autonomia nel senso della libertà dall’autorità, ma ciò non significa che ognuno sia libero di creare la propria scienza, storia o filosofia a piacimento: significa soltanto che si è liberi di pensare da soli in accordo con i dati rilevanti e i metodi appropriati alla scienza, alla storia o alla filosofia»54.
Come scrive Eugenio Lecaldano, la «vita ordinaria e quotidiana» di ogni essere umano, a prescindere dalla cultura in base alla quale siano stati formati i suoi valori di riferimento, «è profondamente segnata dalla nostra inclinazione a tracciare distinzioni etiche», tanto che sarebbe una vera «bizzarria sostenere che tale inclinazione non è naturale, bensì frutto di una riflessione che fa leva su comandi o rivelazioni sopraggiunti dall’esterno». Ognuno di noi, infatti, in base alla natura razionale specifica del genere Homo Sapiens, è chiamato ogni giorno ad esprimere la propria capacità, ben radicata nella «natura biologica», di «farsi guidare da distinzioni tra bene e male, giusto e ingiusto, virtuoso e vizioso». In particolar modo nell’era globale ed iper-connessa nella quale viviamo, per comprendere che molti comportamenti individuali hanno una ricaduta evidente non solo sul resto della collettività, ma anche sull’equilibrio dell’intero ecosistema e che qualsiasi sia il ruolo che ricopriamo nella società siamo comunque vincolati a delle responsabilità morali nei confronti della comunità umana e del pianeta, non serve appellarsi al comandamento di qualche remota entità divina, né fondare le nostre motivazioni sulla base di un qualche fantasioso sistema di premi e di punizioni che attenderebbero l’anima nell’aldilà, e neppure fare riferimento a vaghi modelli metafisici, ma è sufficiente il semplice ragionamento di cui la natura ci ha dotato. La riflessione etica, infatti, è guidata dai sentimenti naturali e dalla ragione umana, elementi che è possibile inquadrare pienamente «all’interno di un quadro naturalistico e secolarizzato»55. Già il filosofo scozzese David Hume pensava che fosse l’unione fra ragione e sentimento di umanità, inteso come quella facoltà tipicamente umana ed istintiva d’identificarsi nel dolore e nelle sofferenze altrui, a costituire il fondamento della morale, nel senso che la «ragione ci istruisce sulle diverse direzioni dell’azione», mentre l’«umanità ci fa stabilire la distinzione a favore di quelle che sono utili e benefiche»56. Da circa due secoli, fin da quel viaggio straordinario compiuto da Charles Darwin sul Beagle che ha definitivamente stravolto la prospettiva con cui l’essere umano può guardare a sé stesso ed alla propria storia, la comunità scientifica così come il pensiero filosofico, si sono potuti appropriare di una spiegazione del mondo su basi esclusivamente naturalistiche e biologiche che rendono pienamente conto di quel senso di compassione e di empatia che, assieme alle nostre facoltà razionali, induce tanti uomini a compiere quotidianamente gesti di straordinario valore altruistico.
«(…) nel momento in cui diventiamo consapevoli della nostra natura autonoma di esseri pienamente responsabili – spiega ancora Lecaldano – questa consapevolezza si presenta come percezione della rilevanza delle sofferenze e dei dolori altrui e si trasforma in una istintiva partecipazione all’altrui sofferenza, da alleviare o eliminare. Questo processo naturale di formazione della soggettività morale non richiede alcun appello a un nostro posto speciale nel creato e non ha alcun bisogno di trovare conforto nel riconoscimento di una nostra comune natura di creature e di figli prediletti di Dio. È sufficiente il richiamo alla naturale simpatia (intesa qui in un senso minimale e quasi biologico) con le emozioni altrui [che] si allarga a tutto il genere umano e anche al di là della specie umana, fino alla partecipazione alle sofferenze degli animali»57.
Nel vasto campo delle riflessioni su una filosofia morale laica, che non derivi cioè i suoi presupposti da una qualche fede assoluta e su cui quindi si possa organizzare l’accordo fra le tante culture umane, una «discussione filosofica matura» è possibile unicamente laddove vi sia il presupposto della libertà di pensiero e dell’autodeterminazione dei valori etici. In altri termini, ogni individuo diviene effettivamente un agente morale solamente quando impegna sé stesso in un libero esercizio del pensiero sulle proprie valutazioni e sulle proprie scelte facendo ricorso al massimo delle informazioni possibili ed alle proprie facoltà razionali. Un agente morale, infatti, per essere considerato tale, «deve avere la ragione, deve avere delle intenzioni, desideri, scopi, ecc., deve essere capace di agire volontariamente e lo si deve poter ritenere responsabile». Come spiega Frankena, per ogni uomo, un’autentica riflessione morale comincia solo «quando, come Socrate, superiamo la fase in cui siamo diretti dalle norme tradizionali ed anche la fase in cui queste norme sono così interiorizzate da poter dire che siamo internamente-diretti e, giungendo alla fase in cui pensiamo da soli in termini critici e generali (come i greci cominciavano a fare ai tempi di Socrate), raggiungiamo una sorta di autonomia come agenti morali»58. Alla libertà si aggiunge, infine, lo strumento fondamentale della ragione umana giacché la «dimensione dell’etica» viene a fondersi nelle sue determinazioni con un certo «senso di giustizia» appartenente al buon senso comune a tutti gli uomini. L’etica, perciò, trova il suo fondamento ultimo, come ricorda ancora una volta Lecaldano, «nella natura umana e nella sua storia», nel senso che la sua ragion d’essere, lungi dal derivare da una qualche rivelazione ultraterrena infusa per tocco divino nelle anime di ogni uomo, è «attingibile per mezzo della conoscenza empirica che abbiamo della natura umana e della cultura» e muove dalla semplice constatazione che la nostra esistenza viene spesa in una rete di relazioni sociali con altri esseri umani, a cui dobbiamo riconoscere la medesima libertà di autodeterminazione che riconosciamo a noi stessi, e che tutti quanti viviamo ed interagiamo all’interno di un ecosistema integrato che deve essere preservato59.
Chiedersi, a quale tipo di esistenza aspiri generalmente il genere umano e quali possano essere i capisaldi irrinunciabili di una vita buona che ogni essere umano dovrebbe avere l’opportunità di realizzare vuol dire porsi in primo luogo un problema filosofico, dato che, come ha scritto Dewey, la «ricerca dei valori che possono essere assicurati e condivisi da tutti, perché connessi ai fondamenti della vita sociale, è una ricerca in cui la filosofia troverà non rivali ma coadiutori gli uomini di buona volontà»60. Significa dunque indagine razionale del rapporto fra l’individuo e lo Stato; soppesare il concetto di giustizia o definire i limiti della libertà; domandarsi quale tipo di valore abbia la vita umana o se l’economia debba continuare ad orientare in modo univoco le scelte politiche; quale tipo di relazione debba instaurare la civiltà tecnologica con la biosfera; entro quali parametri si possa parlare di dignità del lavoro o se sia giusto il «fatto che alcuni abbiano meno affinché altri prosperino». John Rawls, filosofo statunitense probabilmente fra i più importanti della nostra epoca, ha cercato di teorizzare un modello argomentativo che delineasse i tratti di una società giusta a cui avrebbe dovuto mirare la filosofia politica e che riuscisse a trovare un equilibrio virtuoso fra la giustizia sociale e la libertà individuale. Per Rawls, infatti, il caposaldo teorico di ogni considerazione politica ed il movente primario delle istituzioni pubbliche dovrebbe essere sempre la giustizia e non l’utilità, che in molti casi potrebbe significare solamente il sacrificio degli interessi di alcune fasce di popolazione per massimizzare il vantaggio della maggior parte degli altri. Il senso di giustizia si fonda, dunque, sul diritto assoluto ed inviolabile delle libertà fondamentali di cui dovrebbe godere ogni persona – come il diritto alla vita, alla salute, alla libertà di parola o di pensiero – ed in tal senso può essere solo la giustizia quel principio attorno al quale costruire un’esistenza comune e garantire, per tutti, quelle condizioni di partenza per perseguire la realizzazione di una vita buona. È il senso di giustizia che «nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri», e che conduce alla considerazione che «le ineguaglianze economiche e sociali, come quelle di ricchezza e di potere, sono giuste soltanto se producono benefici compensativi per ciascuno, e in particolare per i membri meno avvantaggiati della società»61.
Note
- Almo Farina, Lezioni di ecologia, UTET, Torino 2004, p. 247.
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