Quell’antico “traditore” Mario Luzi e Coleridge
Monica Fabbri, Quell’antico “traditore” Mario Luzi e Coleridge, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 43, no. 8, gennaio/giugno 2017
Chesterton era innamorato della sua cantina piena di depositi dimenticati, ricordi sepolti ma vivi e palpitanti, che chiedono di essere riportati alla luce o definitivamente gettati. Ognuno di noi ha la sua cantina. Dopo anni, ho riesumato la mia tesi di un’indimenticabile borsa di studio londinese con un titolo un tantino generico: Coleridge poeta e alcuni traduttori italiani.
Negli ultimi fogli sbiaditi, appoggiata distrattamente quasi come un regalo, trovo un’intervista a Mario Luzi (1914-2005) datata 4 novembre 1993.
Ricordavo di averlo incontrato a casa sua. Eravamo due universitarie con la passione della scrittura e l’assoluta ammirazione per i poeti. Guardavamo adoranti il suo viso simpatico di capra semita. Nella mia memoria è sempre viva la cordialità e la familiarità di quella splendida giornata fiorentina, ma l’intervista era proprio caduta nell’oblio.
Mario Luzi non è stato un traduttore di professione né un teorico della traduzione, ma è stato autore di significative versioni letterarie e ha espresso, in modo preciso, le sue convinzioni e idee sulla traduzione. Va detto in primis che le sue scelte traduttive sono avvenute nella maggior parte per “libere tentazioni” (di testi che lo attraevano per “affinità”) o per “inviti o richieste” (in qualche caso si potrebbe dire per “commissione”). Nel primo gruppo entrano senz’altro le traduzioni di poesie liriche (e sono la parte più consistente), dalla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge a quella sua personale antologia lirica che sono le poesie tradotte dal francese (da Pierre de Ronsard ai moderni, con una sensibile attenzione per i simbolisti); nel secondo gruppo si situano in particolare le traduzioni per il teatro.
Della Ballata del vecchio marinaio esistono, oltre a quella luziana, altre due versioni di Giovanni Giudici e – cosa ancor più interessante – del grande narratore e appassionato di inglese Beppe Fenoglio (si veda il quaderno interessantissimo delle sue traduzioni nella collana ‘bianca’ di Einaudi). Non posso nascondere la mia predilezione per la versione di Fenoglio, senza vezzi e quasi senza forma: oserei dire quasi senza letteratura.
Che cercano un poeta come Luzi e uno straordinario narratore come Fenoglio in una traduzione? Che cosa significa tradurre?
Il problema del tradurre è, in realtà, il problema stesso dello scrivere e il traduttore ne sta al centro, forse ancor più dell’autore. A lui si chiede di dominare una lingua e ciò che le sta dietro, vale a dire la cultura, un intero modo di vedere il mondo per poterlo annettere ad un altro universo, trasferendo ogni sfumatura, registro, accento, allusione, tonalità entro nuovi confini. Gli si chiede di condurre a termine questa appassionata operazione senza farsi notare. Gli si domanda infine di considerare suo massimo trionfo il fatto che il lettore non si accorga di lui.
Il traduttore è l’ultimo cavaliere errante della letteratura. O forse un Don Chisciotte? Quando uno scrittore si cimenta in una trasposizione, riesce davvero a celarsi definitivamente dentro il testo, oppure riscrive se stesso, la sua corrispondenza poetica con l’autore scelto? Significativa l’operazione linguistica di Foscolo sull’Iliade, ma non risulta ancora più efficace quella del buon Pindemonte? Il binomio tradurre-tradire risulta uno dei più consolidati paradossi, tanto che molti traduttori desiderano oltrepassare la creatività dell’autore. A tal proposito, è utile considerare l’etimologia del termine TRADURRE (dal latino TRANS DUCERE, far passare al di là – TRANS).
Tradurre significa dunque rendere un significato disponibile e, visto che i confini tra le parole non sono stabili, tradurre è un’operazione al limite fra il tradimento del significato originale e il senso che noi attribuiamo a questa parola.
Ma ora ascoltiamo Mario Luzi dal lontano 1993. Risponde a due sole domande con una semplicità disarmante, che non pretende certo di essere certo esaustiva rispetto alla questione affrontata.
Intervista a Mario Luzi
Firenze, 4-11-93
Sto affrontando Coleridge tradotto in Italia da Fenoglio e da lei. Di solito, lei si è sempre occupato di letteratura francese: volevo chiederle per quale motivo ha scelto Coleridge?
Coleridge è una personalità straordinaria, che è alla fonte della poesia moderna, di questo Romanticismo, di questa capacità di ragionare simbolicamente: quindi alla nascita di una poesia più introflessa, più interiore e molto portata a esprimere la sua simbolicità in senso totale. Vengono da lui Poe, Baudelaire, tutta una catena. Questa traduzione è casuale, nel senso che un amico, Leone Traverso – grande traduttore dal tedesco, ma anche dal greco, era quasi un glottologo oltre ad essere mio amico – mi mise sotto gli occhi una poesia di Coleridge: Kubla Khan. Io non lo conoscevo e questa immaginativa di tipo visionario e anche simbolico corrispondeva un po’ a quello che io nell’Avvento notturno avevo realizzato. Insomma era molto adiacente, era una relazione, di cui io non ero consapevole. Mi venne voglia di impadronirmene attraverso una traduzione. Questa fu la prima poesia che tradussi e poi tradussi La ballata, che è l’opera principe di Coleridge e tradussi anche delle prose. Lui era anche un teorico dell’estetica, insomma in potenza un filosofo. Ed è anche su questo piano che ha influito sul Romanticismo inglese di Shelley, Byron e Keats.
Coleridge, a livello lessicale, adopera molti arcaismi, che anche Fenoglio nella sua traduzione cerca di rendere. Mi sembra, invece, che la sua traduzione sia più attenta al contenuto simbolico.
Io cerco di inserirlo in un modo italiano. Ora quello che riguarda il metro, lo stile della ballata inglese, il canto popolare non ci sono. È un po’ un unicum, anche se non estraneo alla traduzione inglese. Io ho trovato che il nostro tono leggendario, popolare e nello stesso tempo illustre poteva ritrovarsi in certe forme della problematicità rinascimentale e soprattutto dantesca. Non è riproduzione capillare del testo (ce ne sono altre), però, per non fargli perdere quello che per me era stato un incanto, ho trovato quella soluzione lì.
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