Bibliomanie

Un ricordo di Piero Buscaroli (1930-2016)
di , numero 42, luglio/dicembre 2016, Saggi e Studi,

Un ricordo di Piero Buscaroli (1930-2016)
Come citare questo articolo:
Stefano Chemelli, Un ricordo di Piero Buscaroli (1930-2016), «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 42, no. 3, luglio/dicembre 2016

Lo conoscemmo il 25 giugno 2010, all’indomani di una riuscita presentazione a Padova del suo Dalla parte dei vinti, appena edito da Mondadori. Arrivammo a casa sua senza avviso, ma ci ricevette alle 11 senza opporre alcuna resistenza. Anzi scusandosi se oltre al “rancio Buscaroli” nulla più ci si poteva aspettare per il pranzo di lì a un paio d’ore.
Reduci da una chiacchierata con Ezio Raimondi (1924-2014) sulla dolce collina bolognese prossima ai Giardini Margherita passavamo davvero a un mondo diverso. Dalla luminosa mitezza dell’italianista in possesso del miglior eloquio novecentesco alla schiettezza ruvida e generosa di uno storico della musica e organista diplomatosi con Fuser, ma soprattutto noto per le sue scorribande giornalistiche per grandi testate e indimenticato direttore del “Roma”, uomo d’azione, di lettere e di pensiero, ardente senza compromessi o condiscendenze di alcun tipo.
Non meno arditi per sfacciataggine gli dicemmo che, a pagina 28 del libro, c’era scritto che lui si offriva per fornire materiali e indicazioni di ricerca sopra autori come Gerbore, Giusso, Longanesi e molti altri.
Fu di parola. Voleva donarci addirittura il carteggio con Praz, che rifiutammo per pudore; ma il quaderno spagnolo e tedesco di Lorenzo Giusso (1900-1957) ci fu consegnato senza batter ciglio, con la preghiera di pubblicarlo in onore di un grande dimenticato della cultura europea.
Pietro Gerbore (1899-1983) poi coinvolse racconti di un’Italia ormai lontana, nella vita redazionale del giornale napoletano nobilitato dalle paginate di politica estera che l’ex ambasciatore, monarchico dal midollo alle ossa, scaraventava da Firenze con puntualità svizzera in tempi vertiginosi sotto l’impulso nervoso e filologico di eventi imprevedibili.
La casa di Piero Buscaroli di Strada Maggiore 49 era indubbiamente in stile impero: il “marchio di fabbrica” di Mario Praz era potenziato da mobili da lui stesso disegnati ad hoc per un ambiente discreto, armonioso, riccamente curato, ma con il respiro di una casa ottocentesca, inondata dalle verdi rifrazioni di un giardino interno, che la facevano diventare allo sguardo quasi periferica, pur allocata in pieno centro medievale felsineo.
Due pianoforti, moltissimi libri, una splendida sala da pranzo, ove l’agio di muoversi era dono eletto, e la passione accesa per la conversazione avrebbero aperto l’anima di ogni homme de lettres a frequentazioni più numerose e distese.
Sarebbero arrivati anche i giorni passati insieme a Molveno, ove il ricordo dell’infanzia e dell’adolescenza col padre, insigne latinista, si faceva ancor più vivo, sul filo di un intreccio familiare che rivendicava una storia più grande e pericolosa, fatta di conflitti e d’infinite amarezze per un Paese che aveva perso il proprio destino e la propria anima in una disfatta clamorosa, seppur annunciata per tempo.

Piero Buscaroli, per come l’abbiamo conosciuto, era persona generosa, senza accomodamenti, implacabile nella sua brama di verità, che poteva esser scambiata per qualcosa di eccessivo, forse di traumatizzante.
“Rischia di seppellirsi da solo” qualcuno diceva, per la veemenza delle sue posizioni, che nascevano però da una genuina rivalsa nei confronti di qualsiasi doppiezza, di quel gioco (tipicamente italiano) di rimanere a galla a prescindere dalla qualità effettiva del vivere quotidiano di tutti.
Piero non tollerava cincischiamenti. Aveva conosciuto da vicino grandi uomini e piccoli sotterfugi, venerava i maestri che coincidevano con nomi, personalità, caratteri, tratti individuali (Paratore, De Vergottini, Bianchi e diversi altri luminari di un’Alma Mater d’altri tempi). Nato ad Imola nell’agosto del ’30, è stato inviato speciale, pubblicista, scrittore, musicologo di fama internazionale, esperto (forse) ineguagliato di Bach, Mozart e Beethoven (pongo mente, anzitutto, a un librone costatogli cinque anni pressoché totalizzanti, al punto da portarlo ad un ictus, seguìto poi da una complicatissima operazione cardiaca che il centro ospedaliero milanese Niguarda si assunse responsabilmente in onere, contrariamente ai colleghi bolognesi), direttore di una collana di libri straordinari per Fògola, che ha accolto vere perle di un sapere dispensato con il gusto autentico dell’eccellenza per il lettore acuto ed esigente.
Ma Piero colpiva anche per la semplicità dei modi, che appartenevano a un’altra Italia, oramai irreversibilmente perduta: il gusto del valore delle cose minime, del particolare, del dettaglio sviscerato in maniera quasi ossessiva onde afferrare – con ogni probabilità – quella parte di verità raggiungibile, certa, sicura.
Era un bisogno di trasparenza, senza sprechi inutili, pur nel comfort caloroso di un’accoglienza essenziale, franca e senza fronzoli. La panna cotta, a esempio, era per lui il dolce socialista. Con un rigore che poteva diventare assoluto, a fronte dell’ingiustizia patente o del traffichino di turno.
Avido di letture e di libri, prediligeva i saperi che giudicava più nobili: invero, anche con battute salaci, mai mancava di sottolineare il valore incomparabile della civiltà linguistico-letteraria italiana e di quella latina, la predilezione lungamente coltivata per la cultura tedesca, l’amore assoluto della bellezza in ogni sua manifestazione.
Lo abbiamo incrociato dopo l’ictus: la sua forza era stata offesa ma non il suo spirito di uomo vulcanico, dotato di tenacia, passioni ed orgoglio pressoché invulnerabili: la musica era la classica, le donne dovevano stare al loro posto… Era peraltro orgoglioso di Beatrice, nota storica dell’arte, la figlia più vicina ai mosaici della sua cultura.
Abitava a Bologna, ma amava il buen retiro di Monteleone sul Rubicone; non aveva disdegnato Madonna di Campiglio, ma era passato a Molveno, dove, ragazzino, aveva conosciuto la vera montagna, ben guidato da figure eminenti dell’alpinismo italiano, assieme ai genitori.
A Molveno, in un piccolo appartamento, con una visione privilegiata sul lago omonimo, Buscaroli teneva alcune opere straordinarie di Soffici, Maccari, Leopoldo Longanesi (1905-57): si trattava di una marea di carte accumulate, essenzialmente, per un’ipotetica, auspicata biografia consacrata a quest’ultimo che, a suo dire, era spirato su un divano nel cuore della casa editrice, dopo un rapporto con una cocotte
Certa era la devozione per Cesare Battisti (1875-1916), ultimo eroe del Risorgimento, come fisicamente mostravano le opere complete in prima edizione, compulsate con viva ammirazione e racconti dilatatissimi in particolari, che si faceva fatica a tenere insieme, vista e considerata l’apertura mentale sui fatti, le psicologie e i ricordi che, alle volte, s’inceppavano su una parola (e qui l’ictus ci metteva del suo) per riprendere poi, more solito, impetuosi e sulfurei.
Abbiamo tesaurizzato ore e ore di registrazione audio di mémoires anche familiari, soprattutto legati alle vicende del diletto padre, il latinista Corso Buscaroli (1893-1949), dove la voce di Piero si fa affannosa ma limpida nel tono di verità, nell’esigenza di spiegare a chi è più giovane il travisamento del reale, mettendo in opera una singolare selezione di tramando, discutibile come ogni testimonianza, ma autentica nella propria tensione umana, che mira a stanare nel ricordo lo stupore del proprio Erlebnis.
La musica, per Piero Buscaroli, è stata la colonna sonora di una parabola esistenziale e poietica quanto mai piena ed intensa, lottata anche contro se stesso: in verità, essa era sovente ambiziosa ed egocentrica, nella poderosa, tracimante sua energia…

Anche quando la salute era già in bilico, era venuto in treno da solo, partendo da Bologna per scendere a Mezzocorona e salire insieme a Molveno.
Era arrivato vestito leggero, quando ormai si annunciava l’autunno, per stare poche ore con me tra le montagne, che riconosceva un po’ come le radici di presenze illustri (fra i suoi parenti c’era anche un insegnante attivo ad Harvard): erano il nucleo, presumibilmente, di estati lontane, che si possono ricostruire sulla base delle foto accolte nel libro mondadoriano del 2010; sia come sia, lo aiutavano a trovare (o a ritrovare) una pace interiore.
Il carattere forte e inflessibile, le posizioni che ricusavano compromessi di sorta lo portavano ad essere ascoltato con rispetto ma non con timore. Certo, parliamo dell’ultimo Buscaroli, quello forse più docile, accomodante, disposto perfino all’incontro di ospiti sconosciuti; era comunque un uomo che aveva pochi amici veri e moltissime conoscenze, per il semplice fatto che si era battuto per tanti, troppi decenni contro il pregiudizio di un passato che gli si addebitava senza averlo vissuto: una posizione ingrata, eppure difesa con dignità sino alla fine.
Dalla parte dei vinti comprende parecchie pagine straordinarie, che si possono, beninteso, anche non condividere affatto: lo spirito di fondo, a ogni modo, emergeva nella persona con una nettezza e una coerenza di fenomenale intensità.
In un Paese dove tutti recensiscono e pochi leggono i testi per intero, daremmo questa prima indicazione di lettura per entrare tra le pieghe del Buscaroli che abbiamo avuto l’onore di conoscere de visu dal 2010 al 2016, sino all’ultima telefonata, durante la quale si disse a più riprese preoccupato per la salute della moglie.
Sono parole, queste, stese di getto il giorno successivo alla sua scomparsa, che ci pare segnato non tanto dalla tristezza, comprensibile quanto prevedibile, bensì da una fierezza, da un orgoglio che viene da lontano, da uomini che hanno intravisto e conosciuto – magari per interposta persona – stagioni che non torneranno.
Potranno venire tempi anche peggiori, ma quell’epoca si è chiusa definitivamente e Piero Buscaroli lo sapeva come pochi, perché avvertiva da gran tempo, fra il resto, quel senso di disfacimento che richiederà alle nuove generazioni un impulso del tutto nuovo di rinascita.
Per lui, che riteneva inter alia Brahms il maggior compositore perché aveva saputo fare (bene!) di tutto, solamente un’umiltà autentica – fondamento essenziale di qualsivoglia lavoro compiuto comme il faut – avrebbe potuto ridonarci l’entusiasmo per la vita.

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2016 Stefano Chemelli