Luis Sepùlveda Il mondo alla fine del mondo
Stefano Cavallini, Luis Sepùlveda Il mondo alla fine del mondo, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 27, no. 7, ottobre/dicembre 2011
Ho iniziato a leggere Il mondo alla fine del mondo. L’ho trovato per caso in cantina. È venuto fuori da un vecchio scatolone ingiallito color sabbia. È sottile, non avrà più di cento pagine, penso, e posso leggerlo in due giorni, tre.
Soffio via la sottile patina di polvere che si solleva seguendo la zigrinatura. Sulla copertina c’è un porto con le barche in secca, coperte da teloni diafani come sudari. Un uomo nerovestito con cilindro e bastone passeggia solitario a riva, a qualche passo dalla linea di rilegatura. Tre bandiere rosse sventolano in lontananza sui pennoni. L’orizzonte è la ringhiera di un ponte tagliato da una piega. Il mare quasi non si vede, è in un angolo scuro a sinistra, immobile e piatto. Sotto il nome dell’autore c’è una piccola luna dai contorni sfocati, grande come la “o” di mondo. È inverno e la luce dei tramonti australi tinge d’azzurro la carta spessa e consumata. Le increspature spezzano le ali della civetta bianca di “Guanda” e innalzano dune sulla spiaggia.
Due, tre giorni dopo
Ho finito di leggere Il mondo alla fine del mondo. Centoventisette pagine di mari insidiosi, baleniere assassine, ecologisti guerrieri. L’autore è Luis Sepulveda, lo stesso scrittore de Il vecchio che leggeva romanzi d’amore. I due libri sono così simili, in quanto ad argomenti trattati, che si potrebbero considerare l’uno la continuazione dell’altro. In entrambi il tema centrale è la natura, la pericolosità e il fascino di ambienti estremi e lontani (l’Amazzonia e la Patagonia), in cui le vicende umane sfumano nel tempo e assumono i tratti del mito. I tigrilli in agguato cedono il posto alle balene, la giungla a una distesa infinita di canali, isolotti, golfi e porti. Dalle acque gelide e dalle nebbie emergono i nomi dei luoghi che saranno i contorni della tortuosa rotta narrativa: Porto Misericordia, Maledizione di Drake, Punta dell’Impiccato, Isola del Condor…
Il protagonista è un puntino di diciassette anni in un deserto primordiale d’acqua e rocce, spazzato dal vento, viene da Santiago. È il mozzo pelapatate dell’Estrella del Sur, la barca del capitano Miroslav Brandovic, conosciuto come il “polacco”. Deve i calli che ha sulle mani a suo zio Pepe, il benefattore che ha permesso al ragazzo di trascorrere le vacanze estive in Cile, convincendo i genitori e pagandogli il biglietto per Puerto Montt, dove si imbarca col “polacco”, vecchio amico dello zio. Al sesto giorno di navigazione il battello, macchine al minimo, attraversa l’infido Stretto di Magellano, passa gli scogli del faro di Ulluoa, entra nella Baia Inutil, affacciata sulla Terra del Fuoco e attracca a Punta Arenas. Il giovane saluta definitivamente l’equipaggio e vagabonda per la città cercando i Brito, una coppia senza figli amica dello zio Pepe, che lo accoglie per alcuni giorni. Un pomeriggio, davanti al camino, don Félix percepisce la mente del ragazzo vagare lontano verso il brusio sommesso del mare. L’uomo gli dice di recarsi a Porvenir e di mettersi in contatto con un suo amico proprietario di una baleniera.
“È un uomo difficile, ma se ti accetta, ragazzo, avrai l’avventura che cerchi.”
L’uomo difficile è il Basco, un marinaio enorme, cliente abituale della locanda in cui il ragazzo di Santiago, giunto per caso, sta divorando mezzo cosciotto d’agnello. Sorseggiando per la prima volta la chica, il dolcissimo liquore delle mele della Terra del Fuoco, il ragazzo chiede di far parte dell’equipaggio della baleniera. Quando gli chiedono perché, risponde con due intense ore di narrazione del Moby Dick di Melville. Stremato e con la gola secca guarda il Basco.
“Mi prendete con voi?”
“Salpiamo domattina presto.”
L’Evangelista salpa alle prime luci dell’alba. Il Basco è il capitano, Don Pancho il suo secondo, i rematori sono due marinai di Chiloé, il cuoco è argentino. Il ragazzo è subito nominato “ascoltabollettini”. A causa del suo incarico passa gran parte delle sue giornate sottocoperta, ma quando la baleniera esce in mare aperto fa in tempo a vedere un gruppo di delfini che saltano nel mare rosso tramonto, rispondendo alle grida divertite dei marinai e scortando la barca fino alla Baia Stewart. Dopo alcune ore l’Evangelista fa una sosta all’Isola Londonderry e il ragazzo ha modo di vedere la vera fine che fanno le balene. Quelli che sembravano strani tronchi grigi adagiati sulla spiaggia sono in realtà le ossa dei cetacei, la cui carcassa, dopo essere stata lavorata nell’officina e privata delle parti pregiate, viene abbandonata sotto nubi di gabbiani. Un’ora dopo l’Evangelista è già in caccia nella Baia di Cook, un marinaio avvista una balena Calderòn, Don Pancho corre al cannoncino di prua, carica l’arpione, mira, spar… No. La balena è femmina e per una tacita legge del mare non si può uccidere. Dopo quattro giorni di noia e mare piatto le balene si rifanno vive e stavolta il Basco cattura un capodoglio. Dopo il primo colpo l’animale impazzisce per il dolore, si dimena, frusta il mare con la coda, fa ondeggiare la barca, solo un secondo arpione lo calma. La sera, alla pensione Terra del Fuoco, la stessa dove si erano incontrati per la prima volta, il Basco, Don Pancho e il ragazzo si salutano.
“Forse noi siamo gli ultimi balenieri di queste acque, è ora di lasciarle in pace.”
Il protagonista è un puntino perso nel vocio dell’aeroporto di Amburgo, in mano ha un biglietto per la Patagonia, la voce dell’impiegata lo strappa dai ricordi di gioventù.
“Sarà cambiata la Terra del Fuoco?”
Tutto è iniziato il 16 giugno 1988, quattro giorni prima che l’uomo decida di lasciare Amburgo e partire nuovamente alla volta del mondo alla fine del mondo.
Il protagonista è un giornalista indipendente e divide con due colleghi olandesi e un tedesco un minuscolo appartamento di settanta metri quadrati che chiamano l’ufficio. I quattro costituiscono un’agenzia giornalistica alternativa che si occupa della salvaguardia dell’ambiente. I mezzi a loro disposizione sono un computer di seconda mano, battezzato Bromuro, e un fax dal quale ricevono notizie di associazioni ambientaliste come Greenpeace, Robin Hood, Comunidad. All’improvviso il fax vomita un messaggio dal Cile, firmato Sarita Dìaz, l’unica corrispondente dell’agenzia al mondo. La ragazza li informa che la marina militare cilena ha rimorchiato a Puerto Montt una baleniera giapponese in panne, la Nishin Maru e che il capitano Toshiro Tanifuji ha misteriosamente perso diciotto uomini.
La nave è una vecchia conoscenza di Greenpeace, che qualche anno prima ne aveva impedito l’uscita dal porto con una balena gonfiabile di dimensioni reali, perché aveva violato le leggi sulla caccia alle balene. Da allora il capitano aveva giurato vendetta. Arianne, la portavoce dell’ufficio stampa di Greenpeace, comunica ai quattro giornalisti di aver ricevuto una strana telefonata dal Cile. Un uomo che si esprime in un inglese da marinaio dice di aver visto la Nishin nel Golfo di Corcovado, si chiama Jorge Nilssen e chiede aiuto. Secondo i dati di Bromuro non dovrebbe essere lì, ma a Puerto Montt, a più di centocinquanta miglia di distanza. Il protagonista soffre di mal di testa, va alla finestra per prendere una boccata d’aria e vede una nave, la Lazarus, che sta per essere demolita. Gli viene un dubbio: telefona a un amico e gli chiede se la Nishin risulta nell’elenco delle barche demolite. Risulta. Con la scusa di essere stata demolita, ufficialmente non esiste ed è libera di massacrare le balene pilota.
Tre giorni dopo, Nilssen telefona e invita il giornalista a tornare in Cile, per rendersi conto di ciò che sta succedendo, in più avverte che Sara Dìaz è stata investita da un’auto pirata e derubata delle fotografie della Nishin. Greenpeace decide di investigare ufficialmente e invia l’invecchiato ragazzo di Santiago. Quando l’aereo atterra, gli occhi sono offuscati da trenta ore di ricordi, ma nonostante questo riconosce subito Jorge Nilssen, un canuto marinaio dall’andatura ondeggiante di un pellicano. I due si presentano. Il padre era un avventuriero danese che si era trasferito su una minuscola isola e aveva sposato una donna senza nome della Terra del Fuoco, una Ona, sopravvissuta agli sterminatori europei e a genocidi silenti. Lui era un bastardo del mare, nato sulla lancia di suo padre e per molti anni i suoi piedi non avevano conosciuto altro che roccia nuda, ponti di navi e moli. Ma soprattutto sa dove si nascondono le balene Calderòn e cos’è successo alla Nishin. Nilssen, il suo equipaggio e l’”agente” di Greenpeace decidono di recarsi sul luogo dove il capitano ha perso diciotto uomini. A bordo del Finisterre raggiungono finalmente i fiordi dove hanno trovato rifugio le balene. Sull’acqua rossa di sangue galleggiano ancora pezzi di pelle morta mentre il capitano racconta: le balene si erano lanciate all’unisono contro la nave, piegando lo scafo, l’avevano spinta contro gli scogli, furibonde avevano distrutto le scialuppe di chi cercava di scappare, poi con il capo fracassato dagli urti, si erano lasciate andare alla deriva, sulla spiaggia. La vendetta del mare.
Il nome del protagonista, nel libro come nel mio riassunto, non compare mai. Questo potrebbe far pensare a un’identificazione dell’autore col personaggio. Sepúlveda, però, non chiarisce questo punto (anche se l’autore, come il protagonista, è cileno, ha militato a lungo in Greenpeace e dedica la sua opera ad amici e associazioni ambientaliste), quindi non ho voluto scrivere cose che poi avrebbero potuto rivelarsi false.
Alla prima lettura Il mondo alla fine del mondo potrebbe sembrare solo un libro d’avventura, straripante di noiosi buoni propositi ambientalisti, invece è molto di più. È un diario di bordo della memoria individuale e collettiva di popoli del mare scomparsi, è la loro storia, nella quale sono incise le sofferenze che hanno dovuto sopportare per mano degli europei. È una carta topografica di parole, un manuale di navigazione, un compendio di leggende, un occhio sulle abitudini culinarie, marinare e sociali degli abitanti (o meglio dei viaggiatori) della Terra del Fuoco. Il tempo perde di significato fra le immutabili isole nebbiose e i mari piatti. È come se in quei luoghi si risalisse alle origini del mondo com’era nella sua desolante semplicità primordiale. Il libro è costruito sul contrasto tra la vita in città e il sopravvivere basandosi sul rapporto con la natura, cercando l’armonia con se stessi e con gli elementi. Mentre in città l’uomo vive in un appartamento minuscolo ed è soverchiato dai problemi, quando torna in Patagonia riscopre la libertà fisica e mentale dei grandi spazi e ritrova le proprie origini. Ma non si pensi a una favola fantastica. Questo è un racconto razionale basato su fatti e dati reali. Nemmeno nel finale, come potrebbe sembrare, lo scrittore si concede il lusso di calarsi totalmente nella finzione letteraria. Infatti, l’attacco delle balene, per quanto strano, è pur sempre un evento naturale possibile. In definitiva il libro è un omaggio al mare, ai suoi abitanti umani e animali, alla libertà e alle sfide che rappresenta.
Nella narrazione ci sono vari punti di contatto con la letteratura marinara europea e italiana. Gli Ona, ad esempio, ricordano la famiglia di padron ‘Ntoni ne I Malavoglia di Giovanni Verga, i paesaggi aspri e i marinai giramondo rievocano, i primi le assolate coste dell’Africa di Cuore di Tenebra, i secondi la stessa figura di Conrad, uomo di mare prima che scrittore.
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