Identità e clausura
Magda Indiveri, Identità e clausura, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 51, no. 19, giugno 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.5980
Nel lungo anno di pandemia e di clausura, in una quarta superiore avvezza a leggere romanzi del Novecento in versione integrale, è stata proposta una duplice lettura ed un confronto.
I due racconti lunghi I beati anni del castigo di Fleur Jaeggy (Adelphi, 2015) e Un anno di scuola di Giani Stuparich (Quodlibet, 2017) stanno inscritti dentro a luoghi chiusi come un collegio, un’aula scolastica. Conficcati, potremmo dire, nei perimetro limitante e asfittico di un inizio/metà novecento che già sente o che sente ancora odore di guerra; serrati nei confini del corpo e del genere, essere donne, essere uomini.
Al tempo stesso, specie nel romanzo della scrittrice Fleur Jaeggy, compare un cerchio radioso (cerchio nel cerchio) di sorellanza, di affinità, di legame tra pari che sembra offrire solidarietà e riparo; mentre in realtà soffoca e fa soffocare.
Infine la chiusura, nei luoghi e nel modo di comportarsi, avviene in un tempo, quello dell’adolescenza, che per sua natura è smangiato, senza margini o confini netti, senza definizioni; le ragazze e i ragazzi si atteggiano, cercano modelli, disperatamente tendono a strutture composte che in realtà li limitano, li imprigionano e risultano alla fin fine mortali. Il passaggio da adolescente ad adulto cristallizza quei comportamenti, sutura i margini, e la ricerca di forme chiuse diventa sopportato o insopportabile destino.
I beati anni del castigo racconta l’ossimorico legame di alcune collegiali all’interno del Collegio femminile “Bausler Institut”a Teufel, nel nord est della Svizzera. L’io narrante di cui non si dà nome giunge al Bausler con l’esperienza di altri collegi precedenti e mette in atto le sue tattiche di sopravvivenza – non studia eppure ha buoni risultati, si alza all’alba per passeggiare, sopporta i dettami delle monache – mal accettando la consolidata geometria di dinamiche tra coppie: ragazze piccole che adorano le grandi, ponendosi in condizione di “protette” ; coetanee che si uniscono per affinità, come amiche del cuore; gruppi che scelgono collettivamente singole educande (ma spesso Fleur le chiama “internate” ) o le rifiutano marchiandole come “reiette”. La protagonista sta a sé, fino all’ incontro fatidico e fatale con la “perfetta” Frederique.
Poiché sappiamo che la biografia di Fleur Jaeggy ricalca gli stessi avvenimenti, possiamo intuire di trovarci nella seconda metà degli anni cinquanta: diabolicamente la scrittrice ce lo sussurra nelle prime righe del romanzo facendo cenno alla morte di Robert Walser su quelle montagne, in quella neve, avvenuta nel 1956.
La relazione che si instaura tra la narratrice e Frederique è quanto di più perturbante ed ambiguo. Non si sfiorano mai, ma i due corpi sono spesso insieme e vicini, pur racchiusi nell’ordine, nella freddezza. “Un ristagno tropicale, un lussureggiare tenuto alla briglia [ ….] Qualcosa di serenamente fosco“ sono le formule usate dalla Jaeggy per descrivere quel rapporto.
L’ammirazione per Frederique, il non nominato amore, si sublima nell’imitazione della calligrafia. La narratrice è attirata dalla sua perfezione (l’ordine della sua stanza, della sua scrittura) e al tempo stesso, secondo le regole della contraddittorietà tipica dell’adolescenza, dalla espansività di un’altra educanda, la radiosa M.
Giorgio Manganelli scrisse di Fleur che “dispone le parole con frigida e perversa intelligenza, un disamore da maestro lapidario”: in effetti possiede uno stile capace di esprimere lo sguardo senza filtri, senza censure, come di vetro. Non a caso il collegio nel finale del romanzo, quando la narratrice adulta torna a Teufer, sarà sparito come il castello di Atlante; al suo posto, una clinica per ciechi.
Fleur scrisse: “Noi siamo forse esperte di donne, noi che abbiamo passato gli anni migliori nei collegi femminili.”
Un anno di scuola del triestino Giani Stuparich inscrive un personaggio femminile all’interno di una classe terminale completamente maschile. Edda Marty ottiene eccezionalmente l’inserimento in una classe di 20 studenti, tappa necessaria per iscriversi poi all’università, su imitazione della sorella, più grande ed emancipata, che vive a Vienna. Le poche pagine del libro (meritoriamente ristampato da Quodlibet nel 2017) sono racchiuse in un anno scolastico, a partire da settembre, ma non in relazioni algide e concettuali. Nei rapporti tra i compagni di classe ha la meglio la corporeità, la passione strabordante, l’ansia febbrile, un disordine che si oppone alla scultura del vuoto del collegio svizzero. L’ingresso della giovane scatena passioni e sofferenze, ai ragazzi in primo luogo, perché tutti si innamorano di lei, ma alla fine la vittima è Edda, costretta ad assumere la parte che la società del tempo le riserva, nei suoi opposti coincidenti: la donna seduttiva, la futura sposa. Così quell’anno di scuola è un mare agitato, un crescere di pulsioni, di lutto e di crudeltà. La libertà agognata da Edda diventa prigione, e il suo desiderio di “liberarsi dall’ambiente gretto delle femmine, come lo chiamava lei”, questo voler uscire da sé, dal proprio sesso, la ricaccia invece nello stereotipo e nel senso di colpa e di sacrificio.
La rottura del cerchio è in questi casi la follia o la malattia: Frederique la perfetta esce da questo ciclo di perfezione bruciando la casa e tornando in reclusione istituzionale in un manicomio; Edda rompe la promessa di matrimonio col giovane che si era sparato per lei cadendo in una lunga malattia e poi partendo per l’Oriente. Resta in città la chiacchera, le maldicenze: “Lei lo ha fatto soffrire abbastanza” l’accuserà la madre di Antero, colui che aveva intrecciato con Edda una relazione amorosa fatta di baci forsennati, ma dal “sapore di morte”; “Lei è una donna maledetta” le dirà la sorella di Pasini, il quasi suicida. L’ospedale in cui Edda va a trovarlo, le sembra un convento “in cui viene spinta da una mano inesorabile”.
Un’atmosfera tragica e claustrofobica aleggia in tutto il romanzo, ma non è semplicemente il risultato di un atteggiamento decadente, postdannunziano. Sono rivelatrici di un nuovo approccio le parole che Edda rivolge alla fine della storia ai suoi compagni, accusandoli di non averla mai capita:
“Io volli essere semplicemente un vostro compagno, e voi m’avete sempre respinto e ricacciato nel mio sesso, mi avete costretto ad esser donna perché vi facessi del male.”
Una donna che voleva essere uomo, godere delle libertà maschili, e di quella solidarietà alla pari che ancora oggi si fatica in ogni ambiente a trovare. Una frase che colpisce giovani lettori e lettrici, feriti dall’emergenza clausura, che ci fa affacciare con crudezza al nostro essere più intimo e profondo.
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