Diario di un amore perduto
Licia Ambu, Diario di un amore perduto, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 51, no. 20, giugno 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.5984
Se c’è una cosa orrenda da imparare nella vita è come essere orfani. L’etimologia della parola orfano è viaggiatrice, attraversa il latino, poi il greco e arriva fino al sanscrito per risolversi nell’accezione finale di “fanciullo privo”. Si può essere privi di una guida, privi di un pezzo, di soggetto, di persona madre. Si può diventare orfani a qualsiasi età, in qualsiasi momento, persino il giorno del proprio compleanno. Come è accaduto a Eric-Emmanuel Schmitt, che nel 2017 ha perso la madre ritrovandosi immerso in un dolore straziante senza sapere come maneggiarlo.
Schmitt è un autore, saggista, drammaturgo, sceneggiatore molto prolifico e molto rappresentato a teatro. Diario di un amore perduto ( edizioni e/o, 2021, traduzione di Alberto Bracci Testasecca) in effetti si può considerare come un invito a teatro, per uno spettacolo intimo, personale, confessione e racconto insieme che nasce da una domanda precisa: «Che fare quando non si può più fare niente?». Non volendo lasciar andare la madre, Schmitt decide di tenere questo journal, una stanza intima in cui poter parlare ancora con lei, un’anticamera segreta prima di riuscire a ricombinare l’esistenza dopo una perdita profonda e disorientante, in cui una realtà interna completamente devastata si confronta con un’esistenza esterna in cui la vita maleducatamente continua,
«Prossima fermata: aeroporto Roissy-Charles-de-Gaulle. La cantilenante voce ferroviaria elenca la successione delle stazioni. La sua tranquillità mi scandalizza. Ma come? I treni circolano, i passeggeri viaggiano, l’erba cresce, il sole brilla, la Terra gira, la vita continua… Non lo sanno?»
Ricordi, accadimenti, sensazioni e pensieri molto personali costruiscono il resoconto di un nuovo orfano: un giorno ti svegli e non sei più figlio di nessuno. Un giorno ti svegli e il mondo non è più lo stesso senza quella persona e le magie che sapeva fare, quel qualcosa che rendeva speciali le tue giornate. Che fare quando non si può più fare niente? Andare avanti. Anche quando non vedi la strada. Così la sua vita procede, perché mentre la testa esplode il corpo insiste, al punto che un dato momento il cervello si domanda se non sia il caso di eliminarlo, questo corpo insolente, pervaso dalla stanchezza di un mondo vuoto di lei e perciò inutile e nefasto. Antisconfortetici?, qualcosa contro tutto questo esiste? E più si fa questa domanda meno risale dal buio e più si avvita su se stesso, lui solo con questa sua madre Jeannine, campionessa di velocità, musa ispiratrice dalle gambe perfette e rifugio a cui tornare senza mai una delusione, compagna di giochi e complice di divertimenti fino all’ultimo istante. Una Jeannine che fa tornare alla mente l’adorabile Odette della raccolta di racconti Odette Toulemonde e anche la trasposizione cinematografica diretta sempre da Schmitt con l’adorabile Catherine Frot e le sue lezioni di felicità. Vedere lei e nient’altro, mentre il suo corpo imperterrito continua a portarlo a spasso per teatri, incontri, giurie e libri da scrivere, la mente scava, scava sempre di più per ritrovare persone e ricordi d’infanzia, come il primo galeotto incontro con il teatro, dove la madre porta lui e la sorella cambiandogli per sempre la vita. O quel padre distante e sconosciuto, che lo sondava per terrore e se la prendeva troppo di fronte alle stroncature ricevute dal figlio scrittore. Un uomo in cui non si riconosceva e verso cui nutriva un decennale e ben radicato sospetto che proprio in questa circostanza troverà risposta grazie ai coniugi Solange e René Ricklin, vecchie conoscenze dei tempi di villeggiatura a Beauvallon, dove la famiglia di Schmitt si recava in vacanza nel mese di luglio durante gli anni Sessanta.
I Ricklin che compaiono dal nulla durante un firma copie sono la vita che bussa, il destino che incalza, proprio come Colombe, l’altra guerriera di casa Schmitt, la figliastra che si annuncia futura madre e al contempo lotta per la sua stessa vita, la cagnolina Fouki, i dolori al ginocchio che fanno stonare l’incedere di Schmitt fino a farlo zoppicare.
Ma a un certo punto il consumarsi si consuma. Ed è proprio lei, la madre perduta, a salvarlo, la stessa che è morta in silenzio senza nessun segnale nemmeno a quel figlio così intrecciato a lei. Proprio lei risorge attraverso le parole di un’ammiratrice affezionata, a teatro, dopo una rappresentazione. Parole che sono l’alibi per la consapevolezza che quando qualcuno non c’è più, l’unico modo per tenerselo vicino è vivere, anche per due. Schmitt si siede in platea a guardarsi diventare, scopre un altro sguardo possibile, là dove tutto pareva scritto in un modo si può invece cambiare prospettiva, fare un pic nic con i morti, leggere i gesti delle persone al contrario e mutare le smorfie di ieri in sorrisi di oggi.
«Il palcoscenico è il teatro dei miracoli: il passato diventa presente, lo zoppo non zoppica più, la morte si rimette in piedi per salutare e io ho raccontato la storia di Monsieur Ibrahim e interpretato i vari personaggi correndo da un capo all’altro della scena. Alle prime parole, ‘A undici anni ho rotto il porcellino e sono andato a puttane’, mi sono tornate le forze, il ginocchio si è come anestetizzato.»
Questo libro è un manuale d’amore per la parte di noi che gli altri, le persone che non ci sono più, hanno reso migliore. Un esercizio di salvataggio che lo porta non a preservare il salvabile come può apparire all’inizio, ma a esaltare la meraviglia, a trovare una nuova forma per vivere con lei ogni giorno nelle cose e portarla nei libri, nei viaggi, nel mondo. Sul palcoscenico, luogo elettivo in cui si realizza storicamente la messa in scena dei moti dell’animo umano, e allo spettatore è concesso entrare in rapporto con l’emotività di qualcun altro, il posto dove per la prima volta Schmitt ha pianto per i tormenti di quel Cyrano de Bergerac, qui, seduti in platea, noi piangiamo con lui per i suoi.
Questo diario, come tutto quello che Schmitt ha scritto e continuerà a scrivere, viene dalla vita e lì torna. Lui scrive per tenere la madre con sé e lei lo salva con il suo insegnamento più grande: mettiti sempre dalla parte della vita.
«Aspettate che mi torni la gioia. Se dovessi scrivere un libro sul lutto lo chiamerei così».
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