Il tempio della filosofia di Orazio Arrighi Landini. Un insolito esempio a metà fra storia della filosofia e divulgazione scientifica nell’Italia del Settecento
Gaetano Antonio Gualtieri, Il tempio della filosofia di Orazio Arrighi Landini. Un insolito esempio a metà fra storia della filosofia e divulgazione scientifica nell’Italia del Settecento, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 41, no. 5, gennaio/giugno 2016
Nello scenario dinamico e variegato che caratterizza il secolo XVIII un’attenzione particolare dovrebbe essere rivolta a quelle figure che, pur non ricoprendo un ruolo di primo piano, svolgono tuttavia un compito “divulgativo” nella cultura del tempo. Uno dei più significativi rappresentanti di questo genere di intellettuale è il toscano Orazio Arrighi Landini (nato a Firenze nel 1718 e morto a Venezia non prima del 1770)1, che incarna, in un certo senso, il tipo dell’uomo di cultura settecentesco desideroso di ampliare continuamente i suoi orizzonti, mostrandosi incapace di soffermarsi su un ambito di interessi circoscritto2.
Da personaggio ambizioso qual è, Arrighi Landini è sempre alla ricerca di situazioni e ambienti che possano mettere in risalto le sue doti di versatilità e possano consentirgli di sfoggiare la sua erudizione3. La continua ricerca di queste condizioni congeniali al raggiungimento delle predette finalità, lo porta a girovagare un po’ dappertutto sia in Italia (lo troviamo, infatti, in Toscana, nel Regno di Napoli, nella Repubblica di Venezia ecc.) sia in altri paesi europei (in particolare, in Spagna e in Portogallo), costantemente in contatto con ambienti dell’aristocrazia4 o dell’élite culturale delle varie città in cui ha occasione di soggiornare5.
Rientra all’interno di questo modus operandi il suo ingresso nell’Accademia degli Agiati di Rovereto6, avvenuto nel 1752, in conseguenza del quale Arrighi decide di ampliare un poemetto da lui scritto l’anno prima e intitolato Il sepolcro d’Isacco Newton (1751), elogiando, nel frontespizio della nuova opera, proprio l’Accademia che lo ha accolto e presentandosi col nome che in seno ad essa gli è stato attribuito, ossia Dorinio.
La nuova opera è un poemetto in endecasillabi sciolti, dal titolo altisonante: Il tempio della Filosofia (1755)7. L’esaltazione dello scienziato inglese, già contenuta nel poemetto del 17518, è accompagnata dalla celebrazione di filosofi antichi e moderni, presentati in particolare nel secondo dei tre libri di cui l’opera si compone. Utilizzando la forma del prosimetro, consistente nell’unione del testo poetico con note ed osservazioni in prosa, atte a chiarire e spiegare contenuti che, a tutta prima, possono risultare difficilmente comprensibili9, Arrighi costruisce il suo poemetto dandogli l’aspetto di un piccolo manuale di storia della filosofia del Settecento. Senza voler andare oltre le effettive intenzioni dell’autore, si potrebbe, infatti, in un certo senso, intravedere nel Tempio della Filosofia un interessante tentativo di costruire un breve testo storico-filosofico in cui vengano tracciate le linee fondamentali riguardanti le scuole filosofiche dell’antica Grecia, del Rinascimento e dell’età moderna, fino alla metà del Settecento10.
Certo Arrighi non presume di creare un’opera che sia lontanamente paragonabile a quella che pochi anni prima ha redatto Johann Jakob Brucker (1696-1770), esemplare per acribia e precisione critica. Brucker, che nel 1756, l’anno successivo alla pubblicazione del poemetto di Arrighi, si è aggregato agli «Agiati»11, ha scritto Historia Critica Philosophiae a mundi incunabulis ad nostram usque aetatem deducta (1742-1744)12, una ponderosa opera in cinque volumi, accresciuti nella seconda edizione (1766-1767) di un sesto (costituito dalle «accessiones et observationes»), che ha la prerogativa della massima completezza possibile sull’argomento, al punto tale da inserire persino delle pagine dedicate alla filosofia asiatica, cinese, giapponese13 e riferimenti alla filosofia canadese14. In realtà, il lavoro storiografico di Brucker è iniziato già diversi anni prima e si è sostanziato, in particolare, nella pubblicazione di altri due importanti testi, Historia philosophica doctrinae de Ideis (1723) e Kurtze Fragen aus der Philosophischen Historie (1731); Historia Critica, pertanto, rappresenta il punto di arrivo di un insieme di ricerche laboriose che si sta protraendo da decenni. Brucker analizza, in primo luogo, i problemi teorici della storia della filosofia, indicandone l’articolazione, i limiti, gli strumenti e le regole metodologiche. Ciò che caratterizza gli studi compiuti dallo storico tedesco è soprattutto uno spostamento di interesse dalla storia intesa come mera erudizione ai contenuti dottrinari della storia, attraverso un accuratissimo lavoro di ricerca15. La puntigliosità di Brucker giunge al punto che egli non si accontenta di ordinare la sua storia della filosofia in senso cronologico e diacronico, ma presenta pure alcuni capitoli ordinati sincronicamente e per temi riguardanti, ad esempio, la filosofia razionale, la filosofia della natura, la filosofia morale, la filosofia civile ecc. Il quadro storiografico che Brucker propone, mostra dunque grandiosità e completezza, in quanto «nessuna manifestazione di pensiero, anche la più lontana dallo spirito filosofico contemporaneo come la sapienza adamitica, anche la più estranea alla tradizione culturale dell’occidente come le idee delle primitive popolazioni dell’America, sfugge allo sguardo indagatore e alla curiosità dello storico»16. La grandezza di Brucker consiste però pure nel fatto che la complessità degli aspetti presi in esame non risulta dispersiva, ma «ridotta entro uno schema che ne chiarisce i legami e ne facilita la comprensione. Ogni filosofo occupa un suo posto nella storia della filosofia, che gli è assegnato sulla base del paese di origine e della scuola a cui è appartenuto. Oltre a questa funzione di ordine, la periodizzazione risponde al bisogno di focalizzare in modo più appropriato la tematica di ciascun indirizzo di pensiero»17.
A confronto di sì tanta forza critica, Arrighi non tenta nemmeno un sia pur timido accostamento; il suo rimane pur sempre un poemetto che non ha la pretesa di ergersi al livello di un grosso e voluminoso lavoro critico come quello di Brucker. Va però dato atto al poligrafo italiano di aver quantomeno tentato di creare una sorta di breviario storico-filosofico sotto la veste di un poemetto18. I vari riferimenti a Giambattista Vico, poi, sono una novità che il testo di Arrighi presenta rispetto a quello dello storico tedesco; questi, infatti, nonostante sia uno studioso scrupoloso e attento, non accenna minimamente al pensatore napoletano, forse perché non è ancora riuscito a metterne a fuoco la profondità filosofica19.
Il poemetto scritto da Arrighi appare sintomatico di un’epoca di cambiamento, quale è il Settecento, in cui, sotto l’incalzare di un modello di stampo razionalistico e illuministico, alcune figure, precedentemente bandite o emarginate dalla scena culturale, vengono riabilitate e riportate in auge20. È il caso, ad esempio, di Epicuro, che Arrighi considera ingiustamente accusato di libertinaggio in conseguenza di luoghi comuni volgari e insensati21, ma è pure il caso di Niccolò Copernico, di cui l’erudito toscano intesse un’apologia, sostenendo che lo scienziato polacco «pubblicò il Sistema solare, quasi universalmente a’ nostri giorni ricevuto, e da tanti grandi Uomini sostenuto, del moto della Terra»; Copernico, secondo il poligrafo fiorentino, fu un «[u]omo veramente singolare, e che ha meritati gli elogi, che gli vengono dati dal celebre Vossio»22. Osserva giustamente Andrea Battistini che un personaggio come Arrighi, cauto e poco incline ad inimicarsi le alte sfere ecclesiastiche, difficilmente avrebbe espresso un parere così favorevole nei confronti di Copernico, se, nel frattempo, all’interno della Chiesa stessa non vi fosse stato un principio di ripensamento rispetto alle dure critiche mosse nei confronti del sistema eliocentrico fino a qualche tempo prima23.
Sperticati elogi vengono pure riservati al succitato Brucker24, mentre emerge una considerazione non del tutto lusinghiera nei confronti di Descartes, giudicato sì «un grand’uomo, ma colla scorta del quale s’impara assai poco»25. A ben guardare, Arrighi non mostra di nutrire, in generale e con le dovute eccezioni, una forte simpatia nei confronti della filosofia francese, se è vero che, anche quando parla di Voltaire, pur elogiando quest’ultimo per il ragguardevole ingegno26, se ne discosta nel momento in cui il pensatore transalpino esprime le sue idee riguardanti la religione27. Egli accenna, poi, a Malebranche e non nasconde una certa consentaneità con Gassendi, il quale «[e]bbe meno fama, che Des-Cartes, perché era più ragionevole, e non era inventore»28.
Fra gli stranieri Arrighi predilige i pensatori inglesi29 e si fa portatore degli ideali dell’empirismo, non peritandosi di affermare che «[l]’esperienza, Maestra delle cose, e paragone della verità è posta al piede dell’altare della Filosofia, per far conoscere, che poco stimabili sarebbero i Filosofici Sistemi, quando l’Esperienza non ce li comprovasse per veri»30.
Sin dall’inizio del Tempio della Filosofia il poeta si trova in una condizione trasognata, quasi in uno stato d’estasi, nel quale, dopo aver contemplato il cosmo con tutti suoi elementi, dall’aria alla luce, dal Sole alla Luna, egli vede, per l’appunto, tutti i massimi filosofi antichi e moderni31; l’apice viene toccato nel terzo libro, quando, per il tramite della Fatica, si giunge a scorgere il sepolcro di Newton, ai cui lati si trovano la Fama, «[c]he l’opre singolari, e luminose d’Isacco pubblicò», e la Gloria, «[c]he le serba, fomenta e le difende»32.
Battistini a tal proposito sostiene che in questo poemetto si nota
una più generale attitudine settecentesca per l’allegoria e per la personificazione delle qualità immanenti, positive e negative, che tendono a sostituirsi alla prospettiva trascendente dell’allegorismo codificato nel Medioevo […]. Inutile precisare, tanto è evidente, che la tecnica della prosopopea è frusta e scontata, fungendo da ausilio molto collaudato per l’ipotiposi, con cui, insegnavano i retori, diventava possibile mettere sotto gli occhi del lettore concetti altrimenti astratti33.
L’uso di una certa arte retorica, quindi, aiuta Arrighi a rendere più espliciti i meriti di Newton, espressi quasi in un crescendo che, partendo dalla Fatica e passando per la Fama e la Gloria, pervengono alla Verità, che rappresenta il raggiungimento dell’apoteosi, poiché è grazie alla sua conquista che lo scienziato britannico sarà conosciuto dalle generazioni future34.
Il tempio della Filosofia, pertanto, da un lato riprende lo schema dei poemi cosmologici atti ad illustrare in versi il sistema planetario, secondo una tendenza che trova nel Newtonianismo per le dame (1737) di Francesco Algarotti uno dei suoi modelli di riferimento, e dall’altro richiama il tema cimiteriale che godrà di una certa fortuna nel corso del Settecento e giungerà fino ai Sepolcri (1807) di Ugo Foscolo35. In un certo senso, quindi, l’opera di Arrighi ambisce ad inaugurare una nuova forma di poesia, nel contesto della quale si mescolano due sottogeneri fino a quel momento affrontati in modo separato e distinto. D’altro canto, il tema delle tombe di personaggi della statura di Newton è pienamente rispondente alla temperie culturale del XVIII secolo, per la quale i grandi uomini d’ingegno, una volta defunti, assurgono al rango di santi di una religione laica36. In un certo senso, dunque, l’esaltazione della tomba di Newton, fatta da Arrighi, anticipa, sia pure in forma superficiale, alcune questioni che saranno poi sviluppate ampiamente da un poeta come Foscolo, soprattutto per quanto riguarda la concezione del culto sepolcrale inteso come fondamento di valori collettivi e cardine di civiltà. La tomba si carica di valori educativi soprattutto perché, nel caso specifico, ricorda una figura eminente come quella di Newton, trasmettendo ai posteri la memoria dello scienziato britannico e ponendosi come raccordo fra passato, presente e futuro.
La descrizione architettonica del sepolcro, per la quale Arrighi si ispira ad un dipinto di Giambattista Pittoni e Giuseppe e Domenico Valeriani, intitolato Tomba allegorica di Isacco Newton, eseguito fra il 1727 e il 1730, per la serie dei Tombeaux des Princes, su commissione di Owen Mac Swiny, ed avente come collocazione la sala da pranzo della residenza di Lord March, duca di Richmond, a Goodwood37, è perfettamente congruente con la figura dello scienziato: «colonne adamantine» sono, infatti, atte a sottolineare le qualità morali di Newton e, al tempo stesso, con il loro splendore richiamano la sua teoria della luce, mentre la presenza, sulla cima dei capitelli, di una «[p]esante calamita»38 costituisce un’allusione alla più famosa scoperta newtoniana, la forza di gravità.
La superiorità del pensiero inglese su quello francese viene ribadita attraverso l’omaggio che viene reso allo scienziato britannico dalle figure di Fontenelle, Descartes e Maupertuis, disposte intorno al sepolcro. Mettendo a confronto Il tempio della Filosofia con Il sepolcro d’Isacco Newton, si nota come Arrighi abbia operato una sostituzione, poiché nel poemetto del 1751 Maupertuis non figura e al suo posto è collocato Leibniz. La polemica ingaggiata da quest’ultimo, proprio con Newton, sul calcolo infinitesimale e, soprattutto il crescente interesse che Arrighi, a partire dal periodo in cui viene cooptato dall’Accademia degli Agiati, prova per Maupertuis39, al punto che da lì a qualche anno pubblicherà la traduzione delle Lettere filosofiche del signore di Maupertuis (1760)40, costituiscono un valido motivo per inserire il nome dell’autore francese al posto del nome dell’autore tedesco. L’attenzione per il «bene comune» tocca, accanto a molti rappresentanti del mondo intellettuale del tempo, anche Arrighi, che viene profondamente colpito dal tema della felicità che Maupertuis, caricandolo di valori morali, affronta in quegli stessi anni. Lo scienziato e filosofo bretone, come è noto, sostiene che tutti i sistemi di legislazione debbono essere fondati su un principio di etica sociale, al fine di assicurare al maggior numero di individui la maggiore felicità possibile. Maupertuis, infatti, afferma che «il genere umano non è che una grande società, il cui stato di perfezione si raggiungerebbe qualora ciascuna società particolare sacrificasse una porzione della sua felicità per la più grande felicità della società intera»41. Non a caso, l’erudito toscano anche negli anni successivi darà prova del suo interesse per l’«utile comune», in particolare scrivendo una lettera encomiastica a Cesare Beccaria, autore del famoso trattatello Dei delitti e delle pene (1764), nella quale Arrighi sottolinea l’attenzione dell’autore milanese per «il ben pubblico e che tende a sollevare i suoi simili»42.
L’elenco non può essere completo senza che vi sia un riferimento ai pensatori italiani, fra i quali spicca Galileo Galilei, che Arrighi considera iniziatore di una corrente sulla cui scia si pone lo stesso Newton43. Scagliandosi contro quella che egli ritiene l’atavica tendenza italiana all’esterofilia, incarnata in questo contesto da un certo Gregorio Bresciani (o Bressani) di Treviso (1703-1771), autore di un libro intitolato Maniera di filosofare introdotta dal Galilei44 e irredimibile detrattore del «fiorentino» Galileo, Arrighi sottolinea i meriti dello scienziato italiano e, biasimando Bresciani, afferma:
Vi sembra questo accoglimento da farsi al povero Fiorentino, il quale ha saputo, e potuto pel corso di tanti anni, e tanti acquistarsi, e conservarsi una gloria immortale, presso tutte le colte nazioni del Mondo? Non sentono già d’esso così gli Oltramontani, i quali senza veruna esitanza scrivono, che se l’Italia non avesse avuto il Galilei, la Francia non avrebbe avuto Cartesio, e l’Inghilterra Newton, e noi Italiani siamo così poco amanti della propria gloria, che in vece di mantenerci in quell’altezza di merito, a cui ci hanno sublimato le straniere Nazioni, vogliamo abbassarci da noi medesimi ed avvilirci45.
Arrighi si inserisce, dunque, nella schiera di quegli intellettuali che, nel Settecento, in preda all’orgoglio patriottico, ricordano le glorie passate della cultura italiana e si oppongono all’autolesionismo caratteristico di buona parte del costume nazionale46. Già qualche decennio prima, del resto, il medico e naturalista Antonio Vallisneri (1661-1730) denunciava questa negativa peculiarità quasi endemica degli italiani, sostenendo che «alcuni abbiano insino vergogna di comparire a’ posteri e alle straniere nazioni per italiani»47. Galileo viene paragonato ad Amerigo Vespucci, anteposto a Cristoforo Colombo per motivi campanilistici, dal momento che Vespucci era fiorentino come Arrighi48; d’altro canto, non sfugge il fatto che, sempre per campanilismo, il pisano Galileo, nel poemetto, sia definito – come ci siamo appena accorti – «Fiorentino». In ogni caso, Galileo è visto come colui che ha trionfato sulle false credenze e su ogni forma di oscurantismo, ampliando notevolmente la conoscenza umana. La tendenza ad equiparare gli scienziati, in particolare gli astronomi, agli esploratori è una consuetudine invalsa sin dal Seicento, a causa dell’intraprendenza che caratterizza gli uni e gli altri. In particolare, proprio Galileo diventa il principale punto di riferimento di questa equivalenza, avendo egli esplorato i cieli allo stesso modo di come un Colombo o un Vespucci hanno esplorato i nuovi mondi. Il concetto dell’allargamento dei confini gnoseologici mette sullo stesso piano scienziati ed esploratori, alimentando i parallelismi fra di loro, non solo da parte dei letterati, ma anche da parte degli scienziati stessi, se è vero che lo stesso Giovanni Keplero paragona il moto della Terra a quello di una nave che solca i cieli per contemplare l’universo49.
Il pensatore italiano che, assieme a Galileo, gode di maggiore attenzione da parte di Arrighi è Giambattista Vico, da lui conosciuto personalmente durante il soggiorno napoletano. Non è escluso che in quell’occasione l’autore partenopeo abbia donato ad Arrighi una copia della Scienza nuova nell’edizione del 173050, visto che è proprio questa edizione che viene citata nelle note del primo libro del Tempio della Filosofia.
Arrighi utilizza però i riferimenti alla Scienza nuova, manipolandoli secondo i suoi propositi. Egli forza, per esempio, alcuni contenuti del capolavoro vichiano al fine di compiacere quella nobiltà alla quale lui stesso si fregia di appartenere. Il tempio della Filosofia contiene riferimenti ai primordi dell’umanità e per questo motivo risultano calzanti i rimandi alla Scienza nuova. Laddove Vico, parlando del formarsi delle famiglie, si limita a presentare il momento in cui i Forti, ossia i Padri (i nobili), accolsero gli «empi» deboli che volevano sottrarsi ai soprusi degli «empi» violenti51, Arrighi pone l’accento sull’atto di benevolenza compiuto dai nobili52 e, poco più avanti, nel presentare i primi sommovimenti della storia, evidenzia addirittura l’ingratitudine dei plebei che «[s]degnando già la Famigliar lor vita,/ E incontro a i Padri lor sorgendo ingrati,/ Mossero l’Armi, onde fu l’Odio inventare,/ Ed i Padri obbligaro in sua difesa»53; in questo modo, egli finisce col trasformare le prime giuste rivendicazioni di equità in una ribellione gratuita. Non traspare, inoltre, nell’opera di Arrighi, l’attenzione che Vico riserva alla religione, studiata dal pensatore partenopeo come fenomeno empiricamente rilevante e come basilare strumento di coesione sociale.
La comprensione del pensiero di Vico, da parte di Arrighi, risulta così alquanto limitata; riprova ne è che il concetto più originale ed importante della Scienza nuova, l’universale fantastico, viene solamente accennato dall’erudito toscano quando, nel presentare Ermete Trismegisto, egli afferma che questi fu «più che un nome indicante un particolare uomo, un carattere de’ primi fondatori della nazione egizia»54. Arrighi non mostra di aver compreso più di tanto la portata rivoluzionaria dell’universale fantastico e forse non ha nemmeno l’interesse a capirne l’effettivo significato. Un altro esempio illuminante riguardo al modo in cui l’universale fantastico è percepito dal poeta toscano è quello riportato in una nota esplicativa all’interno del poemetto in cui, parlando di Omero, Arrighi sovverte le riflessioni vichiane, poiché sostiene che «[l]a Filosofia di Omero, da alcuni posta in dubbio, è asserita, e fortificata dal lodato dottissimo P. Corsini nella citata sua Prefazione pag. XXII»55. Le favole di Prometeo e Atlante, poi, vengono citate per evidenziare l’alta sapienza filosofica degli antichi56, ignorando così il presupposto cardine dell’universale fantastico, vale a dire la bestialità dei primi uomini e l’incapacità, da parte loro, di elaborare forme mentali strutturate57. Nel Tempio della Filosofia, del resto, «non si va più in là di una parafrasi che spesso convoglia le idee singolarissime della Scienza nuova verso luoghi comuni» e quindi, più in generale, «si ha l’impressione di un volgarizzamento della Scienza nuova ottenuto restringendo le tesi antropologiche nell’orizzonte di una favola arcadica»58. D’altro canto, un po’ tutto il poemetto di Arrighi sembra pervaso da un’atmosfera arcadica, che si riscontra anche nei toni chiari che aleggiano nella descrizione dei personaggi e dei luoghi. Non è del tutto improprio delineare una sorta di parallelismo con la pittura di Tiepolo e con le teorie di Antonio Conti il quale, nello stesso periodo in cui Arrighi scrive il poemetto, sostiene la necessità di seguire anche in campo pittorico i princìpi di Newton sulla immutabilità e rifrangibilità dei raggi luminosi59. Da questo punto di vista, il poligrafo fiorentino si allinea perfettamente all’ideale oraziano dell’ut pictura poësis che sarà messo in discussione una decina d’anni più tardi da Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) nell’opera Laocoonte ovvero dei confini della pittura e della poesia (1766)60. I vari riferimenti alla Scienza nuova sono fatti, perciò, senza cogliere le novità socio-antropologiche proposte dal filosofo napoletano. Non si può nemmeno dire, poi, che Arrighi abbia colto le concatenazioni che Vico evidenzia fra linguaggio, pensiero, antropologia e storia, aventi come presupposto il fondamentale apporto della retorica; nella migliore delle ipotesi, infatti, l’intellettuale toscano si limita a ripetere (cambiando le parole, ma lasciando intatto il significato) le affermazioni di Vico61.
Probabilmente consapevole dei suoi limiti filosofico-letterari, Arrighi si prefigge come scopo ultimo quello di legittimare, in qualche modo, la sua appartenenza ad una schiera di nobili intellettuali, ostentando, con un pizzico di autocompiacimento, una sorta di propensione alla “tuttologia”, senza curarsi di approfondire gli argomenti che propone, e mostrandosi pertanto indifferente agli effettivi contenuti del capolavoro vichiano. Si spiega così il motivo per cui, pur facendo ampio uso di figure retoriche, mediante allegorie, ipotiposi, prosopopee ecc., Arrighi non mostri di aver messo a fuoco un altro profondo significato dell’universale fantastico e, più complessivamente, della Scienza nuova: l’ampliamento gnoseologico della retorica, che, da semplice disciplina deputata all’abbellimento dei discorsi, diventa una disciplina contenente una grande ampiezza di prospettive, che spaziano dall’ambito psicologico e sociologico a quello storico-antropologico, passando attraverso problematiche di tipo ermeneutico ed estetico62.
L’ansia di obbedire ad un compito di pura erudizione, consistente nell’operare grandi salti da un argomento all’altro senza indugiare su alcuno, impedisce ad Arrighi di accorgersi di un’altra importante esigenza del filosofo partenopeo: la necessità di mostrare come la retorica sia attuale e basilare per la formazione degli individui e della collettività; aspetto, questo, che porta Vico ad opporsi al pensiero moderno dominante, permeato di razionalismo e di cartesianesimo, ed influenzato fortemente dalla cultura moderna francese63.
Sarebbe, tuttavia, ingeneroso evidenziare solo i difetti del poemetto scritto da Arrighi, in quanto l’operazione portata avanti dall’erudito fiorentino ha avuto, sicuramente, l’effetto di divulgare le novità più consistenti della cultura e della ricerca scientifica del tempo. In particolare, è degno di menzione il fatto che il pensiero vichiano, per quanto possa essere assimilato solo in parte da Arrighi, venga posto sullo stesso piano del pensiero scientifico più all’avanguardia nel Settecento. L’autore fiorentino ha, dunque, intuito il grande spessore filosofico di Giambattista Vico64, ma, non avendo la caratura adeguata per presentarne le sfaccettature più profonde, si limita a citare solamente gli elementi esteriori che sostanziano la Scienza nuova.
Note
- Per le principali notizie bio-bibliografiche su Orazio Arrighi Landini, si veda A. Dolci, Arrighi-Landini, Orazio, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. IV (Arconati-Bacaredda), Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 1962, pp. 313-315.
- Scrive in proposito Andrea Battistini: «La sua attività, oscillante tra la frivolezza del poeta che nei salotti di tutta Europa improvvisa versi accompagnandosi con il mandolino e la serietà del filosofo che discetta di Vico e di Newton, che traduce Maupertuis e Voltaire, che scrive di idrologia forse a séguito di una disastrosa rotta dell’Adige e diffonde in versione italiana dei trattati in francese e in latino sulla tortura, può spiegare la natura dei suoi scritti, pieni di buone intenzioni ma viziati da una sciatteria di fondo dovuta alla smania tutta settecentesca del papillonage, dello sfarfallare da un argomento all’altro senza mai porsi su alcuno». A. Battistini, Tra Newton e Vico: Il tempio della Filosofia di Orazio Arrighi Landini, in G. Cantarutti, S. Ferrari (a cura di), L’Accademia degli Agiati nel Settecento Europeo. Irradiazioni culturali, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 11-12.
- Come abbiamo in parte accennato nella nota precedente, Arrighi, oltre che traduttore e poeta, è anche attento alle scienze e all’ingegneria delle acque. A testimoniare dell’interesse per quest’ultimo ambito è il suo libro di idrologia intitolato Riflessioni sopra un esposto piano di regolazione dell’acque dell’Adige e degli scogli del Polesine dirette alla dilucidazione della verità, In Venezia, Presso Modesto Fenso, 1773.
- Arrighi viene notato anche da alcuni aristocratici stranieri, come per esempio Madame Du Boccage, che in un suo viaggio a Venezia ha modo di conoscerne le capacità istrioniche. A.M. Du Boccage, Lettres contenant ses voyages en France, en Angleterre, en Hollande et en Italie, faits pendant les années 1750, 1757 et 1758, Dresde, chez George Conrad Walther, 1771, Lettera da Venezia del 1° giugno 1757. Sull’argomento si veda A. Battistini, Tra Newton e Vico, cit., p. 12.
- Fra le personalità del mondo letterario che Arrighi ha modo di conoscere occorre, quantomeno, ricordare Carlo Goldoni, che accenna all’intellettuale fiorentino in alcune sue opere. Si vedano C. Goldoni, La villeggiatura, I, 1, in Tutte le opere di Carlo Goldoni, a cura di G. Ortolani, Milano, Mondadori, vol. V, 1959, p. 1282; Id., Per le nozze del nobil uomo S. Marin Cavalli con la nobil donna Maria Dolfin, in Tutte le opere di Carlo Goldoni, cit., vol. XIII, 1964, p. 496
- Molto probabilmente i primi contatti fra Arrighi e l’Accademia degli Agiati sono propiziati dall’intervento della figura del mercante Amedeo Svaier, che svolge in quegli anni il compito di agente culturale degli Agiati a Venezia, città nella quale si è trasferito Arrighi. Sull’argomento si vedano A. Battistini, Tra Newton e Vico, cit., p. 13; S. Ferrari, Amedeo Svaier (1727-1791): un mercante erudito nella Venezia del Settecento, in M. Bonazza (a cura di), I «buoni ingegni della patria». L’Accademia, la cultura e la città nelle biografie di alcuni Agiati tra Settecento e Novecento, Rovereto, Accademia Roveretana degli Agiati, 2002, pp. 51-85.
- Il poemetto, dedicato al conte Giovan Battista Gallizioli, patrizio bergamasco, riceve discreti elogi da parte dei suoi contemporanei, se è vero che nelle Memorie per servire all’istoria letteraria si parla di «una novella Edizione del bel Poemetto intitolato Il Tempio della Filosofia composto già, e ora accresciuto, e di erudite Annotazioni corredato dal Ch. Sign. Orazio Arrighi Landini». P. Valvasense, F. Caraffa, «Memorie per servire all’istoria letteraria», t. V, parte quinta, In Venezia, Appresso Pietro Valvasense, In Merceria all’Insegna del Tempo. Con licenza de’ Superiori, e Privilegio, 1755, p. 19.
- «Newton era dunque à la page, protagonista di una “deificazione” che dall’àmbito scientifico si trasmise a quello poetico a partire dall’anno della sua morte, avvenuta nel 1727. Naturalmente in Italia la voga fu favorita dal Newtonianismo per le dame di Francesco Algarotti […]. Con la mediazione di quest’opera fortunatissima, del 1737, si aprì la strada ai poemetti cosmologici che, in forma di sogno o di visione, illustravano in versi la configurazione del sistema planetario. Da questo punto di vista, un altro paradigma, oltre agli Entretiens sur la pluralité des mondes (1686) di Fontenelle, che però erano in prosa, è costituito dal Globo di Venere (1733) del padovano Antonio Conti. E tra i più precoci, nel ’51, a riprendere questo genere della “visione” in endecasillabi sciolti, fu Arrighi, che anticipò di almeno una ventina d’anni il profluvio di opere analoghe, che vanno dall’Astronomia (1771) e La pluralità dei Mondi (1774) di Gaspare Cassola al Sistema dei cieli (1775) di Rezzonico e a I cieli (1784) di Giuseppe Luigi Pellegrini, per non dire degli attardati componimenti di Vincenzo Monti (Prometeo, 1797) e di Alessandro Manzoni (Urania, 1809)». A. Battistini, Tra Newton e Vico, cit., p. 15. L’attenzione per Newton percorre un po’ tutto il XVIII secolo e sarà tale che, nel 1784, ossia circa trent’anni dopo la stesura del poemetto di Arrighi, l’architetto francese Étienne-Louis Boullée (1728-1799) progetterà, con spirito visionario, il Cenotafio di Newton, consistente in una enorme sfera elevantesi su di una struttura circolare, esternamente circondata da file di alberi ed internamente vuota (se si esclude il sarcofago); piccole aperture avrebbero permesso di illuminare l’ambiente con effetti particolarmente suggestivi. Sull’argomento si vedano, fra gli altri, R. De Fusco, Mille anni d’architettura in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1999; E. Kaufmann, Tre architetti rivoluzionari. Boullé Ledoux Lequeu, Milano, Franco Angeli, 2006.
- Sulla diffusione di questo particolare tipo di opera letteraria nel corso del Settecento rimandiamo ad A. Battistini, «Ni trop sèche, ni trop badine». The Difficult Osmosis between Literature and Science in the Eighteen-Century Enlightenment, in Pp. Antonello, S.A. Gilson (a cura di), Science and Literature in Italian Culture. From Dante to Calvino. A Festschrift for Patrick Boyde, Oxford, Legenda, European Humanities Research Center, 2004, pp. 156-177, in particolare p. 167; si veda pure Id., Tra Newton e Vico, cit., p. 19, in cui Battistini rileva che «[p]er la peculiarità sintetica e allusiva della versificazione, poco compatibile con le procedure analitiche del discorso scientifico e filosofico, le “Osservazioni” in prosa, lontane discendenti delle razos dei poeti provenzali del Medioevo, assolvono il compito di sciogliere gli enunciati costipati allusivamente nei versi altrimenti indecifrabili delle poesie».
- Liliana De Venuto sostiene, al riguardo, che «[u]n tentativo interessante di storia della filosofia fu abbozzato a metà del Settecento da Orazio Arrighi Landini in un poema in versi dal titolo Il tempio della filosofia […]. In esso l’autore traccia le linee di una storia delle scuole filosofiche a cominciare dalla Grecia, passando per il Rinascimento e l’età moderna, per concludere con Newton». L. De Venuto, La Osservazione di Girolamo Tartarotti sulla Lettera in difesa della Moderna Filosofia di Giuseppe Valletta, «Atti dell’Accademia Roveretana degli Agiati», S. VIII, a. CCLX (2010), vol. X, A, fasc. 1, p. 21.
- Subito dopo la sua aggregazione all’Accademia degli Agiati, Brucker si trova coinvolto, sia pur indirettamente, nella polemica scoppiata fra la stessa Accademia roveretana ed il filosofo e pubblicista Johann Christoph Gottsched, prendendo le parti dell’Accademia. G. Piaia, L’accademico «Agiato» Johann Jacob Brucker e il mondo intellettuale italiano, in G. Cantarutti, S. Ferrari (a cura di), L’Accademia degli Agiati nel Settecento Europeo, cit., pp. 183-197, in particolare pp. 186-190.
- J.J. Brucker, Historia Critica Philosophiae a mundi incunabulis ad nostram usque aetatem deducta, tt. I-IV, Lipsiae, Literis et impensis Bern. Christoph. Breitkopf, MDCCXLII-MDCCXLIV.
- J.J. Brucker, Historia Critica, cit., t. IV, pars altera, pp. 804-919.
- J.J. Brucker, Historia Critica, cit., t. IV, pars altera, pp. 919-923.
- Sull’attività svolta da Brucker si veda, in particolare, M. Longo, Storia «critica» della filosofia e primo Illuminismo: Jakob Brucker, in G. Santinello (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. II, Dall’età cartesiana a Brucker, Brescia, La Scuola, 1979, pp. 529 ss.
- M. Longo, Storia «critica» della filosofia, cit., p. 571.
- M. Longo, Storia «critica» della filosofia, cit., pp. 571-572.
- Arrighi, infatti, «ricorre a un poema destinato a inneggiare in versi alla filosofia, in linea con una più aggiornata politica delle accademie, non più votate al solo ozio letterario, già deprecato con energia da Muratori ai primi del secolo, ma alla più utile divulgazione del sapere scientifico e antropologico, senza però rinunciare al sorvegliato edonismo della poesia, secondo un programma condiviso con gli altri Agiati». A. Battistini, Tra Newton e Vico, cit., p. 14.
- Vico, invece, apprezza molto l’attività erudita di Brucker; si veda, in merito, G. Piaia, L’accademico «Agiato» Johann Jacob Brucker e il mondo intellettuale italiano, cit., p. 195. È indicativo, in proposito, un passo della Scienza nuova in cui Vico afferma: «la qual regina delle scienze […] cominciò d’allora ch’i primi uomini cominciarono a umanamente pensare, non già da quando i filosofi cominciaron a riflettere sopra l’umane idee (come ultimamente n’è uscito alla luce un libricciuolo erudito e dotto col titolo Historia de ideis, che si conduce fin all’ultime controversie che ne hanno avuto i due primi ingegni di questa età, il Leibnizio e ’l Newtone)». G.B. Vico, Princìpi di Scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, SN 44, in A. Battistini (a cura di), G.B. Vico, Opere, Milano, Mondadori, 2007, p. 551; cpv. 347. Si veda pure G.B. Vico, L’autobiografia. Il carteggio e le poesie varie, a cura di B. Croce e F. Nicolini, Bari, Laterza, 1929, p. 256.
- I filosofi che Arrighi prende in esame sono molti; nella presente trattazione, noi ci limitiamo ad affrontare quelli che, nel Tempio della Filosofia, evidenziano maggiormente la personalità dell’autore e le sue riflessioni più significative.
- «È invalsa nel volgo ignorante la massima, che nel piacere disordinato, o nel libertinaggio consista la felicità di Epicuro, ma chiaramente si raccoglie del capo IV dell’Etica del medesimo, riportato da Stanlejo “voluptatem priorem, hoc est stabilem, seu in statu, atque idcirco non aliam, quam indolentiam corporis, et tranquillitatem mentis”». O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, In Venezia, Appresso Marco Carnioni, in Merceria all’Insegna dell’Europa. Con Pubblica Facoltà, e Privilegio, MDCCLV, p. 77. Lo Stanlejo di cui parla Arrighi sarebbe Thomas Stanley (1625-1678), autore e traduttore inglese che fu anche poeta. La sua attività prevalente fu, però, quella di storico della filosofia; The History of Philosophy containing the lives, opinions, actions and discours of the philosophers of every seet fu pubblicata in 3 volumi fra il 1655 e il 1661, con l’aggiunta di un quarto volume stampato nel 1662. Maria Assunta Del Torre afferma che «[l]a History of Philosophy di Stanley appartiene ancora a pieno titolo alla storiografia erudita di cui applica la metodologia a raccogliere e ordinare dalle fonti classiche le “vite” dei filosofi. Letterato e filologo sensibile ai motivi umanistico-rinascimentali, l’Autore concentra la sua indagine storica sull’analisi delle dottrine dei filosofi dell’Antichità. La sua History si arresta con l’esposizione dell’Epicureismo, ma, entro quel limite cronologico, considera separatamente ed ordinatamente le singole dottrine presentando una trattazione estesa a tutte le filosofie del mondo classico, organicamente disposte entro una classificazione per scuole, senza trascurare, peraltro, le filosofie orientali. La fortuna e la diffusione dell’opera fu duratura ed essa conservò a lungo un suo valore, tanto che Hegel farà iniziare proprio dalla History la rassegna di storia della storiografia posta nella Introduzione alle sue Lezioni sulla storia della filosofia». M.A. Del Torre, Le origini moderne della storiografia filosofica, Firenze, La Nuova Italia, 1976, pp. 21-22. La figura di Thomas Stanley, nel corso del Settecento, fu al centro dell’attenzione di diversi studiosi che manifestarono interesse soprattutto per la rivalutazione di Epicuro operata dallo storico inglese. Fra i testi che dimostrano questo interesse occorre almeno ricordare L’Etica di Epicuro, secondo il Gassendo e lo Stanlejo, compendiata coll’aggiunta di alcune annotazioni, dall’abate Michele Pavanello vicentino, e da lui dedicata all’egregio e studioso giovane il signor Pietro Negri, nel giorno della laurea dottorale in entrambe le leggi da lui gloriosamente riportata nel Sacro Collegio di Padova (1793).
- O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 83. Gerhard Johannes Voss (o Vossio) (1577-1649) è un filosofo e teologo olandese, per lungo tempo professore di eloquenza e cattedratico di teologia e di storia; tra suoi libri più significativi è necessario ricordare il De theologia gentili et physiologia cristiana sive de origine ac progressu idololatriae (1641).
- A. Battistini, Tra Newton e Vico, cit., p. 22.
- «Fortunata, e ben cento volte fortunata la Città di Augusta, che nel suo grembo ha l’invidiabil forte di accogliere un talento così vasto, così ammirevole, così profondo, come quello del tante volte da me nominato Giacomo Brukero». O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 101.
- O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 87.
- «L’ingegnosissimo signor Voltaire». O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 102.
- «Una vivacità singolare spicca nelle molteplici Opere del signor Voltaire, le quali se non ci rendessero dubbia la religione di chi scrive, si fariano meritate ancora una gloria maggiore». O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 102.
- O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 87.
- «Poiché la luce della buona Filosofia ha incominciato a diffondersi per il Mondo, molti valorosi Ingegni, particolarmente fra gl’Inglesi, sonosi posti a seguitarne validamente le traccie, pubblicando i loro studi, e le loro Opere per sempre più stabilire la verità». O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 103.
- O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 111.
- La rappresentazione del sistema planetario se, da un lato, è una valida premessa alla figura di Newton, dall’altro costituisce, secondo l’autore toscano, il pretesto per prendere le distanze dall’ateismo, poiché una così mirabile costruzione, quale è appunto l’universo, non può non avere avuto un suo mirabile Creatore; Arrighi, infatti, sostiene che «nel tutto,/ E nel visibil Mondo in ogni parte/ Spicca a mostrar, che vi presiede un Dio». O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 14.
- O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 113.
- A. Battistini, Tra Newton e Vico, cit., pp. 16-17.
- «La Verità, che il fondamento appresta/ All’alta mole, onde sapran ch’io vissi/ Nell’etadi a venir tardi Nipoti». O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 114.
- A. Battistini, Tra Newton e Vico, cit., pp. 15-16. Come si sa, nel XVIII secolo la poesia britannica è in parte rappresentata da un filone detto “cimiteriale” che ispirò il pre-romanticismo. La fugacità dell’esistenza e le atmosfere crepuscolari appaiono fra le principali caratteristiche di questa tendenza che ebbe in Thomas Parnell (1679-1718), autore dell’opera A Night-Piece on Death (1721), e in Thomas Gray (1716-1771), noto per aver scritto Elegy written in a Country Churchyard (1751) i suoi più significativi esponenti. In Italia sono soprattutto Ippolito Pindemonte (1753-1828), che molto si ispira proprio a Gray, e Melchiorre Cesarotti (1730-1808), che addirittura traduce l’Elegia di Gray, a trasportare l’interesse per questo genere di poesia. L’anglomania, in quegli anni, toccò comunque vari autori, compresi Vittorio Alfieri e Vincenzo Monti. Si vedano, fra gli altri, W. Binni, Preromanticismo italiano, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1947; D. Daiches, Storia della Letteratura Inglese, vol. II, Milano, Garzanti, 1986, pp. 119-126.
- A. Battistini, Tra Newton e Vico, cit., p. 16.
- B. Mazza, Algarotti e lo spirito cosmopolita di Tiepolo, in L. Puppi (a cura di), Giambattista Tiepolo nel terzo centenario della nascita, Padova, Il Poligrafo, 1998, pp. 411-419, in particolare pp. 412-413. Riferimento riportato anche in A. Battistini, Tra Newton e Vico, cit., p. 16.
- O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 115. Stando ad un aneddoto, Newton avrebbe lasciato per testamento al matematico scozzese Colin Maclaurin (1698-1746) proprio una calamita, che sarebbe poi passata nelle mani di Maupertuis e da questi legata, morendo, al suo amico La Condamine. Risulta, tuttavia, che Newton sia morto senza aver fatto testamento, che non abbia mai mostrato un interesse così spiccato per gli esperimenti magnetici da giustificare la presenza di una tal calamita tra i suoi oggetti da lavoro, che la sua amicizia con Maclaurin non fosse tra le più calorose. L’intero aneddoto della calamita lasciata in testamento dal sommo scienziato inglese a Maclaurin è ripreso, fra gli altri, da Francesco Algarotti: cfr. F. Algarotti, Pensieri diversi [1765, postumo], a cura di G. Ruozzi, Milano, Franco Angeli, 1987, p. 136 (“pensiero” n° 221).
- Nel contesto dell’Accademia degli Agiati, Arrighi dà vita, insieme con altri uomini di lettere, ad una intensa riflessione sull’Essai de philosophie morale (1749) di Maupertuis, soprattutto riguardo alla polemica sulla felicità. Si veda S. Ferrari, Una società «confinante»: la vicenda storica dell’Accademia Roveretana degli Agiati (1750-1795), in Id. (a cura di), Cultura letteraria e sapere scientifico nelle Accademie tedesche e italiane del Settecento, Rovereto, Accademia Roveretana degli Agiati, 2003, p. 110; sulla problematica aperta dalla pubblicazione dell’Essai de philosophie morale di Maupertuis, interessanti argomentazioni sono svolte in F. Venturi, Settecento riformatore, 5 voll., Torino, Einaudi, 1969-1990, vol. I [Da Muratori a Beccaria, 1969], pp. 390-410.
- O. Arrighi Landini, Lettere filosofiche del signore di Maupertuis, In Venezia, Presso Antonio Zatta, MDCCLX.
- P.-L. Moreau de Maupertuis, Elogio di Montesquieu, a cura di D. Felice e P. Venturelli, con un saggio di C. Rosso, Napoli, Liguori, 2012, p. 38. L’importanza di questa teoria nella storia del pensiero etico-politico moderno è nota: un analogo principio, avanzato poco tempo prima di Maupertuis dallo scozzese Francis Hutcheson, viene discusso – negli anni Sessanta del Settecento – all’interno del circolo illuminista lombardo (in particolare, da Pietro Verri) e – sul finire del XVIII secolo – in terra inglese da Jeremy Bentham.
- O. Arrighi Landini, Lettera del 3 gennaio 1769 a Cesare Beccaria, in C. Beccaria, Carteggio. Parte II. 1769-1794, a cura di C. Capra, R. Pasta e F. Pino Pongolini, Milano, Mediobanca, 1996 (vol. V dell’Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, diretta dapprima dal solo L. Firpo e poi da L. Firpo e G. Francioni), p. 19. Cfr. A. Battistini, Tra Newton e Vico, cit., pp. 17-18.
- «L’inarrivabil tua mente profonda,/ L’Orme segnando, architetti quell’Opra,/ Che fu la prisca empia Ignoranza oppressa,/ Il famoso Britanno eresse al Vero». O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 115.
- G. Bresciani, Maniera di filosofare introdotta dal Galilei e ragguagliata al Saggio di Platone e di Aristotile, Padova, Comino, 1753.
- O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 127. Nel testo, in realtà, Arrighi, sempre per la cautela che lo contraddistingue e per la paura di inimicarsi le alte sfere del mondo ecclesiastico e gli ambienti più conservatori del tempo, sostiene di riferire le parole di un anonimo professore di filosofia. Egli, infatti, prima del passo citato sopra aveva affermato: «Non posso però dispensarmi dal mettergli sotto l’occhio ciò, che da un Professore di Filosofia di una rinomata Città mi viene scritto in risposta dal libro medesimo da me inviatogli». La figura di Arrighi è, come già intravisto, quella di un personaggio che vuole mostrarsi all’avanguardia, senza tuttavia esporsi più di tanto nelle dichiarazioni.
- G. Costa, Vico e l’Europa. Contro la «boria delle nazioni», Milano, Guerini, 1996, pp. 22-24. Battistini afferma che «[n]el Settecento le diagnosi degli intellettuali oscillavano in modo quasi schizofrenico tra la deprecazione per un primato perduto dopo il Rinascimento, il riconoscimento di una decadenza in atto e le rivendicazioni di una grandezza che non va dimenticata». A. Battistini, La lingua italiana sotto assedio, «Laboratorio dell’ISPF», XI, 2014, p. 4
- A. Vallisneri, Che ogni italiano debba scrivere in lingua purgata italiana [1722], a cura di D. Generali, Firenze, Olschki, 2013, p. 30. Citazione riportata anche in A. Battistini, La lingua italiana sotto assedio, cit., p. 3.
- Va però precisato che nel poemetto Arrighi inserisce sempre, accanto ad un certo campanilismo, anche l’ossequio per i suoi mecenati, di origine veneziana, e per ingraziarseli assegna la scoperta dell’America non a Colombo o a Vespucci, ma al veneziano Antonio Zeno. Si veda O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 125.
- Su questo argomento è illuminante quanto si legge in A. Battistini, Galileo e i Gesuiti. Miti letterari e retorica della scienza, Milano, Vita e Pensiero, 2000, pp. 61-85. Sull’equivalenza fra navigazione e volo, fra remi e ali nella tradizione letteraria, si veda E. Raimondi, Metafora e storia, Torino, Einaudi, 1970, pp. 31-37.
- A. Battistini, Tra Newton e Vico, cit., p. 25.
- «Perché finalmente a capo di lunga età de’ giganti empj rimasti nell’infame comunion delle cose, e delle donne, nelle risse, che quella produceva, com’i Giureconsulti pur dicono, i deboli di Pufendorfio per salvarsi da’ violenti di Obbes, come le fiere cacciate dall’intenso freddo vanno talor’ a salvarsi dentro a’ luoghi abitati, ricorsero all’Are de’ Forti, e quivi questi feroci, ed uniti in società di famiglie uccidevano i violenti, che violarono le lor’ arate terre, e ricevevano in protezione i miseri da essolor rifuggiti». G.B. Vico, La Scienza nuova 1730, a cura di P. Cristofolini, con la collaborazione di M. Sanna, Napoli, Guida, 2004, p. 207.
- «E difesi dai Forti, e in dolce accolti/ Benigna protezion, poiché null’altro/ Che la Vita portaro, ond’esser grati,/ In qualità di Famoli servili». O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 19.
- O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 23.
- O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 58.
- O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 58. Nel passo appena riportato, nonostante i frequenti richiami a Vico, Arrighi mostra di volerlo mettere da parte, preferendo richiamare P. Corsini, che continua a sostenere la sapienza filosofica di Omero (dall’ampia citazione che segue all’interno del Tempio della Filosofia, si deduce che il personaggio in questione è il padre Edoardo – o, alla toscana, Odoardo, ma al secolo Silvestro – Corsini, scolopio e celebre erudito assai interessato alla lingua, alla storia, alla storia della filosofia e alla civiltà greca, che gode pure di una certa fama come cultore delle matematiche e dell’ingegneria idraulica; nato nel Frignano – territorio estense – nel 1702, dimora e opera a Pisa dal 1736 al 1754 e dal 1760 alla morte; per i primi dieci anni di docenza universitaria, ricopre l’incarico di lettore di Logica; dal 1746 al 1752, insegna Metafisica ed Etica; successivamente, nel 1752-1754 e nel 1760-1765, tiene la cattedra di Lettere Umane; negli ultimi anni, ha anche la carica di storiografo dell’Ateneo di Pisa; in questa stessa città, muore nel 1765. Arrighi cita il libro di Corsini intitolato Institutiones philosophicae, ac mathematicae ad usum Scholarum piarum [1731-1737], 6 voll, ed in particolare il tomo I, incentrato sulla logica, che si apre con una prefazione e con una introduzione generale alla filosofia, avente per titolo In universam philosophiam Praefatio, de nomine, origine, incremento, partibus ac praestantia Philosophiae; atque de methodo, qua comparari illa debet, divisa in 49 paragrafi, cui fa seguito la Historiae philosophicae Synopsis, in qua sectarum omnium divisio, ac series demonstratur). Lodovico Antonio Muratori elogia Edoardo Corsini, riferendo quanto segue: «Mi rallegrai, dunque, allorché vidi uscire anche in Italia qualche logica e metafisica di buon metallo, come de’ padri Corsini e Fortunato da Brescia, Soria ecc». L.A. Muratori, Lettera ad Antonio Genovesi in Napoli del 18 maggio 1747, in G. Falco – F. Forti (a cura di), Opere di Lodovico Antonio Muratori, vol. II, Milano-Napoli, Ricciardi, 1964, pp. 1998-1999. Gregorio Piaia afferma che Corsini fu «una delle maggiori personalità culturali del Settecento italiano»; G. Piaia, Edoardo Corsini, in G. Santinello (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. II, cit., p. 321. Non così Battistini, che, riferendosi alla questione di cui stiamo discutendo, relativamente a Corsini parla di un «oscuro amico, docente all’università di Pisa, da cui invece la sapienza filosofica di Omero “è asserita e fortificata”»; A. Battistini, Tra Newton e Vico, cit., p. 33. Come è noto, Vico afferma che Omero non fu filosofo, ma «Carattere Eroico di huomini Greci, in quanto essi narravano cantando le loro Storie». G.B. Vico, La Scienza nuova 1730, cit., p. 310. Poco più avanti, poi, nel presentare Esopo, Arrighi sostiene che «Esopo Frigio, che scrisse la sua Filosofia sotto il velo delle Favole fiorì circa la LII Olymp.». O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 64. A giudizio di Vico, invece, Esopo è carattere poetico dei plebei e non un filosofo che nascose il suo pensiero sotto il velame delle favole, come invece vuole Arrighi.
- «Sono notissime le favole di Prometeo, e Atlante, sotto le quali però si nascondono due grandi Verità relative alla Filosofia, e alle scoperte di questi due antichissimi Uomini, che si trovano descritte in Ovidio, e in altri Autori di nome». O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 58.
- «Da si fatti Primi Huomini stupidi, insensati, goffi, balordi scempj, e bestioni tutt’i Filosofi, e Filologi dovevano incominciar’a ragionar la Sapienza degli Antichi […] e la natura umana, in quanto ella è comune con le bestie, la quale dee supporsi di tai primi huomini, porta seco questa propietà, che i sensi sieno le prime, e sole vie, ond’ella conosca le cose, sicchè i sensi in lei si faccian prima sentir, ch’esse cose. Adunque la Sapienza Poetica dovette cominciare da una Metafisica, non ragionata, ed astratta, qual’or’ è quella degli Addottrinati, ma sentita ed immaginata, quale dovett’essere di tai primi huomini; siccome quelli, ch’erano di niuno raziocinio, tutti robusti sensi, e vigorosissime fantasie, com’è stato nelle Degnità stabilito». G.B. Vico, La Scienza nuova 1730, cit., p. 142.
- A. Battistini, Tra Newton e Vico, cit., p. 27.
- B. Mazza, Algarotti e lo spirito cosmopolita di Tiepolo, cit., p. 413.
- Come è noto, Lessing, discutendo intorno alla celebre scultura ellenistica del Laocoonte e opponendosi alle tesi di Winckelmann, atte a mescolare le arti con gli ideali etici espressi dai Greci, afferma sia l’autonomia dell’arte rispetto a valori extra-estetici sia l’irriducibilità dell’arte visiva alla poesia. Quest’ultima, infatti, ha per oggetto le azioni e si contraddistingue per l’estrinsecazione della temporalità, ossia la dimensione nella quale le azioni si svolgono; le arti figurative, invece, hanno come loro caratteristica la rappresentazione dei luoghi e la loro prerogativa è quella di mettere in evidenza la dimensione spaziale. Arrighi sembra ancora molto distante dall’intraprendere osservazioni e riflessioni come quelle di cui si sarebbe reso protagonista Lessing e, perciò, si attiene ancora all’impronta tradizionale di stampo oraziano. G.E. Lessing, Laocoonte ovvero dei confini della pittura e della poesia [1766], a cura di M. Cometa, Palermo, Aesthetica, 1991.
- Si pensi, ad esempio, ai luoghi in cui Vico e Arrighi parlano della «curiosità». In proposito, si veda A. Battistini, Tra Newton e Vico, cit. pp. 27-28. I passi in questione sono in G.B. Vico, La Scienza nuova 1730, cit., p. 144; O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 24. Sull’importanza della «curiosità» intesa come valore epistemologico ed estetico in Vico ci permettiamo di rimandare a G.A. Gualtieri, «…la naturale curiosità, ch’è figliuola dell’ignoranza e madre della scienza»: la fondazione antropologica dell’estetica di Vico, «Montesquieu.it», n° 7 (2015).
- Sul fondamentale ruolo che la retorica riveste nella filosofia di Vico vi è una vasta letteratura: si vedano, fra gli altri A. Battistini, La degnità della retorica. Studi su G.B. Vico, Pisa, Pacini, 1975; Id., La sapienza retorica di G.B. Vico, Milano, Guerini, 1995; M. Mooney, Vico e la tradizione della retorica, Bologna, il Mulino, 1991; A. Sorrentino, La Retorica e la Poetica di G.B. Vico, Torino, Bocca, 1927; D.P. Verene, Vico. La scienza della fantasia, Roma, Armando, 1984.
- Ci si permetta di rimandare, al riguardo, a G.A. Gualtieri, La concezione del linguaggio di Giambattista Vico e l’opposizione alla cultura francese, «Bibliomanie», n° 37, settembre/dicembre 2014. Si veda, pure, fra gli altri, A. Battistini, E. Raimondi, Le figure della retorica. Una storia letteraria italiana, Torino, Einaudi, 1990, pp. 197-215.
- «Il profondo Gio: Battista Vico Napolitano soggetto degno di eterna ricordanza, e ricco di gloria immortale, a cui, nella mia dimora a Napoli, tributai una vera stima, una sincera amicizia, e quel rispetto, che conviene a così detto, e sublime talento, e di cui, dopocchè gli avversi miei avvenimenti mi hanno da lui, e da quella fortunata Città a forza divelto, ho confermato un estremo e tenero desiderio». O. Arrighi Landini, Il tempio della Filosofia, cit., p. 38.
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