Bibliomanie

Intervista a Franco Grillini
di , numero 51, giugno 2021, Note e Riflessioni, DOI

Intervista a Franco Grillini
Come citare questo articolo:
Daniele Salerno, Intervista a Franco Grillini, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 51, no. 17, giugno 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.6920

Franco Grillini è una figura storica dell’attivismo LGBT+ italiano. Nato nel 1955 in provincia di Bologna, nel 1972 si iscrive al Partito comunista italiano per poi passare nel 1974, insieme a una parte del gruppo del manifesto, al Partito di unità proletaria. Nel 1982, ventisettenne ma già con una decennale formazione politica, inizia la sua militanza nell’attivismo LGBT+, prendendo parte all’organizzazione delle attività che precedono l’apertura del Cassero, la prima sede concessa da una pubblica amministrazione, il Comune di Bologna, a un collettivo di attivisti omosessuali.

Il prossimo anno il Cassero di Bologna, una delle più importanti realtà militanti LGBT+ in Italia e in Europa, compirà 40 anni. Si tratta di un anniversario tondo che si somma ai decennali celebrati negli ultimi anni e aperti dai cinquant’anni di Stonewall nel 2019. Ci racconti il passaggio tra anni Settanta e Ottanta e come nacque il Cassero?
Negli anni Settanta il movimento omosessuale l’ho visto dall’esterno, perché militavo nella sinistra radicale: Partito comunista italiano prima e Partito di unità proletaria dopo. Entrai nella militanza politica attiva nel 1972 e il prossimo anno compirò 50 anni di attivismo politico. Per questo agli inizi degli anni Ottanta avevo una formazione diversa rispetto a quelli che venivano dai gruppi di liberazione omosessuale. Nel 1982, dieci anni dopo la mia iscrizione al Partito comunista, entrai nella militanza omosessuale. La data spartiacque per la mia storia personale è l’8 giugno 1982, quando ci riunimmo per preparare la nostra entrata al Cassero di Porta Saragozza che il Comune di Bologna, guidato da Renato Zangheri, ci aveva concesso. Preparai slogan, percorso e manifesto per la parata… tutto. Paradossalmente quelli più impegnati politicamente non c’erano.

Chi faceva parte del gruppo?
C’era soprattutto Samuel Pinto, fondatore del movimento bolognese con il Circolo Frocialista bolognese, poi denominato Circolo di Cultura Omosessuale 28 giugno, la data di inizio dei moti di Stonewall. Samuel era un esule cileno, un militante comunista che aveva anche passato molto tempo in Argentina. Era venuto a Bologna in fuga dal regime di Pinochet, uno di quelli che si erano rifugiati nell’ambasciata italiana, la storia raccontata nel documentario di Nanni Moretti Santiago, Italia, qualche anno fa. Aveva scelto di venire a Bologna perché era una città famosa per il suo governo locale comunista, dove aveva trovato le condizioni per organizzarsi politicamente. Come mi dice ancora Samuel “meno male che quella sera sei arrivato tu”.

Cosa successe quell’8 di giugno?
In cinque minuti scrissi il volantino, proposi lo slogan che avrebbe aperto la parata e scelsi la foto per il manifesto. La parata sarebbe stata aperta dalla frase, in dialetto bolognese, «l’è mei un fiol leder che un fiol buson!», meglio un figlio ladro che un figlio busone, ovvero gay. Era una frase che conoscevano tutti i bolognesi, offensiva e omofoba, e la esibivamo come uno schiaffo.
Poi scelsi la foto per il manifesto: da 300 diapositive rivoltate sul tavolo scelsi l’immagine di due ragazzi abbracciati seduti su un piccolo marciapiede accanto al pozzo che si trovava all’ingresso di Palazzo Re Enzo al centro della città. E lo slogan: «dalla clandestinità alla liberazione, verso un nuovo alfabeto dell’amore».
Nella riunione si scatenò il putiferio perché una parte dei militanti nei movimenti di allora volevano smantellare l’idea di coppia monogama – immagine dell’ordine costituito – che quel manifesto ovviamente richiamava. La mia proposta però passò, perché portai tutti allo sfinimento, allenato com’ero alle lunghe negoziazioni politiche, i tavoli di concertazione, dove vince chi resiste di più. Il movimento all’epoca era molto concentrato sulla libertà nella pratica sessuale, mentre io – e lo penso ancora oggi – pensavo si dovesse puntare sui sentimenti.
Ci fu una sorta di Pride week con dibattiti e spettacoli, compreso un incontro tra Lidia Menapace, Anna Maria Carloni e Franco Degli Esposti. La parata e l’ingresso al Cassero quel 28 giugno 1982, data internazionale simbolica del movimento, fu un gran successo. E se vogliamo fissare un’altra data spartiacque collettiva, il 28 giugno 1982 chiude i Settanta e apre un nuovo periodo nella storia del movimento.

Qual è la differenza di prospettiva politica tra le due epoche?
Il movimento negli anni Settanta era autoreferenziale e anti-istituzionale. I militanti detestavano le istituzioni a qualunque livello. Quando arrivai dissi: però, ragazzi, con chi trattiamo allora? Le leggi si fanno in Parlamento e bisogna negoziarle con i partiti. L’obiettivo per i movimenti di quegli anni era smantellare l’ordine istituzionale e poi occuparsi di tutto il resto. Era una lettura del marxismo per cui si doveva cambiare prima la struttura – economica innanzitutto – e poi si passava alla sovrastruttura. Io pensavo di no: la rivoluzione deve essere contemporanea, diritti civili e sociali insieme.

Nel tuo libro Ecce Omo racconti un episodio molto interessante su questo punto: il discorso di un militante omosessuale agli operai in una fabbrica.
Sì, avvenne nel maggio 1982. Un militante spiegò, con una argomentazione molto acrobatica per quel momento, che liberazione sessuale e lotta operaia andavano insieme e che esistevano operai omosessuali che vivevano il doppio scacco dello sfruttamento del padrone e della repressione sociale e che per questo dovevano nascondersi. Il discorso emozionò molto. Il delegato sindacale chiosò con molta emozione e con un convinto appoggio: «Sono totalmente d’accordo con il compagno busone». Usando quindi un insulto. Era difficile far comunicare questi mondi e in un certo senso io rappresentavo una sintesi e punto di contatto tra la lotta operaia – provenendo io da una famiglia contadina e operaia oltre che dal Partito di unità proletaria – e quella per i diritti civili delle persone omosessuali.
Negli anni Settanta c’erano stati poi avvenimenti che avevano segnato delle svolte e dei passi in avanti, creando ponti tra questi due mondi. Per esempio la pubblicazione di Porci con le ali di Lidia Ravera e Marco Lombardi Radice, figlio di un dirigente di primo livello del PCI, rappresenta un momento politico e culturale importante. Si tratta di un libro che vende un milione e mezzo di copie, più quelle pirata, che pone all’attenzione di un pubblico di massa il tema della sessualità non etero.

Cosa porti nel movimento omosessuale del movimento operaio?
Il mio approccio politico, che mi veniva dalla militanza con Lidia Menapace, partigiana, che è venuta a mancare di recente a 96 anni a causa del Covid: punto di riferimento di una corrente socialista e femminista dentro il Partito di unità proletaria, poi affluita nel gruppo del manifesto e nel PCI.
Quando arrivo nel movimento omosessuale nel 1982 – che fino a quel momento avevo guardato dall’esterno, dalla mia militanza nei movimenti di sinistra radicale e operaia – mi rendo conto che hanno proprio bisogno di un esperto. Avevamo delle strategie un po’ disastrose. La prima è quella esemplificata anche dal caso dello striscione che apriva la manifestazione del giugno 1982: prendere degli insulti, frasi o parole omofobe, e ribaltarne il significato con ironia. Era divertente, ma il messaggio politico poteva essere fuorviante. Il secondo è la focalizzazione sul culturale: i circoli si chiamavano appunto “culturali” per chiamarsi fuori dalla politica più istituzionale, che si interessava della struttura in senso marxista. E questo era un grande errore che presto superammo. La strategia rivoluzionaria dell’epoca picchiava l’acqua nel mortaio, era una rivoluzione a salve, perché non intaccava per nulla il livello politico. Quando io arrivo alla riunione organizzativa dell’8 giugno 1982, con la superbia e la prosopopea di un dirigente del Partito di unità proletaria e con alle spalle anni di militanza politica, sono un professionista della politica, una qualifica che rivendico, anche se oggi è una definizione contestata e fuori moda.
E si comincia a cambiare l’approccio: dall’attesa della rivoluzione futura alla ricerca di avere ora, nel presente, i diritti riconosciuti. Subito. Se c’era una persona in difficoltà perché omosessuale doveva trovare strumenti di protezione; se una persona veniva buttata fuori casa perché omosessuale bisognava trovare un centro di accoglienza; se una persona veniva malmenata a causa del suo genere e orientamento sessuale doveva avere strumenti per denunciare e difendersi. Ovviamente per molti questo era volgare riformismo. E pensare che quarant’anni dopo di queste cose stiamo ancora discutendo con il ddl Zan.

Poi dal 1982 comincia il processo di formazione di Arcigay Nazionale e quindi l’entrata nell’arena politica dei partiti e delle istituzioni. Come si sviluppa questa fase?
Propongo il percorso politico classico: una leadership chiara a percepibile; la segreteria, il presidente, la piattaforma, gli obiettivi. Nel 1985 celebrammo ben due congressi per costituire Arcigay Nazionale, all’interno dell’Arci, e darci un profilo più politico e una rete di associazioni più capillare a livello nazionale. Non che proponessi cose straordinariamente innovative: in Nord Europa e Nord America questa era già la realtà. Se volevamo leggi a sostegno delle persone LGBT+ dovevamo preoccuparci della rappresentanza parlamentare. E occuparsi della rappresentanza parlamentare voleva dire parlare con i partiti.
Nel 1985 incontrammo due dirigenti socialisti e uno sentenziò che era impossibile legiferare sui nostri temi. Nel 1986 incontrammo Claudio Martelli, in quel periodo uno dei politici più importanti e influenti nel pentapartito. Poi in Danimarca nel 1989 approvarono la legge sulla partnership registrata, che rompe un tabù e ci permette di avere un precedente, proveniente persino da un governo conservatore. Se l’aveva fatto la Danimarca, non c’era motivo per non farlo anche in Italia.

Tu già negli anni Ottanta cerchi di entrare nel Parlamento, candidandoti con il Partito Comunista, però da una posizione indipendente. Riesci a entrarvi solo nel 2001 con L’Unione. Qual era il rapporto con il PCI-PDS-DS?
Fino alla fine degli anni Settanta, la cultura politica comunista era refrattaria verso il tema dei diritti civili. D’altra parte il Pci veniva comunque da una tradizione che considerava l’omosessualità un vizio borghese e che quindi aveva sviluppato una omofobia alla radice. L’Arcigay nazionale incontrò ufficialmente il Pci in una riunione che fu preparata molto minuziosamente sia da noi che da loro. La segretaria del Pci, con a capo Alessandro Natta, si riunì per delineare una posizione comune verso l’associazionismo gay. Quell’incontro tra Arcigay e Pci fu lungo e partecipato e si concluse positivamente. La collaborazione continuò con il gruppo interparlamentare delle donne comuniste, dove si cominciò a mettere a punto, e si licenziò, un progetto di legge per la tutela delle coppie di fatto. Fu elaborato ma mai presentato per la opposizione interna degli uomini del Pci. Io nel 1987 con molte difficoltà vengo candidato per la Camera dei Deputati nelle liste del Pci ma non vengo eletto, perché il candidato omosessuale non era apprezzato.
Una figura per noi fondamentale in questo panorama è quella di Renzo Imbeni, grande sindaco di Bologna e poi per anni vice-Presidente del Parlamento Europeo (poi con Pds e Ds), che in quella sede sostenne una raccomandazione che nel 1994 invitava gli stati a riconoscere pari diritti alle persone omosessuali. Senza queste figure interne al partito e alle istituzioni dal livello locale – Bologna – fino al livello europeo, avremmo avuto molte più difficoltà. Il rapporto tra il centro-sinistra e il movimento subisce un duro colpo durante il secondo governo Prodi: all’epoca ero deputato e lavorai per una legge sulle coppie omosessuali: il Pacs – Patto civile di solidarietà. Lo firmò tutto il gruppo parlamentare dei Ds. Si arrivò a 161 firme. Poi però arriva una proposta del governo: i Dico elaborato da Barbara Pollastrini e Rosy Bindi. Il disegno di legge era molto deficitario per il Movimento per noi. E comunque l’opposizione interna dei TeoDem fece deragliare tutto. Fu una grave ferita per il movimento e per il rapporto con il centro-sinistra. Di fatto il movimento trovò per anni le resistenze delle due chiese: il Pci da una parte e la Dc, con le forti ingerenze del Vaticano, dall’altra.
Tuttavia la parte giovanile del Pci fu invece un nostro alleato importante nella lotta all’Aids, mentre lo Stato e i partiti scomparvero e ignorarono per anni il problema. In quegli anni, anche per la visibilità che l’Aids, purtroppo, ci aveva dato, entrammo a pieno titolo nell’Arci, che era parte della galassia Pci.

Cosa significò l’Aids per l’Arcigay?
Morivano 7-8000 persone all’anno, andavamo a tre, quattro funerali a settimana. Fu un disastro da un punto di vista umano. E lo Stato per cinque anni non diede nessuna assistenza: le associazioni gay si sostituirono di fatto allo Stato. Io andavo in giro in assemblee con ottocento-novecento persone, portandomi dietro forniture di preservativi che distribuivamo gratuitamente per strada e che gonfiavo per provare che erano resistenti e proteggevano. Dal punto di vista politico e mediatico tra il 1984 e il 1985 esplode così l’interesse verso le persone omosessuali. Pur provati dai colpi che ci dava l’epidemia cercammo di invertire quel significato negativo della malattia, lo stigma, da una parte cercando di offrire assistenza lì dove lo Stato ancora non ne dava o non ne dava abbastanza, e dall’altra sfruttavamo l’inedita attenzione mediatica per porre argomenti e rivendicazioni al centro del dibattito pubblico. Convertimmo la tragedia in una opportunità di cambiamento importante. I giornalisti ci cercavano ma a quel punto il patto era: io ti rilascio l’intervista ma tu mi fai dire quello che voglio. Uscivamo dalla cronaca nera ed entravamo nelle pagine politiche e negli editoriali: prendevamo la parola, finalmente.

Finora abbiamo parlato esclusivamente di uomini e uomini gay. Qual era il ruolo delle donne lesbiche nel movimento?
C’era molta misoginia tra i maschi omosessuali in quegli anni e in parte c’è ancora. Anche il parlarsi al femminile tra maschi omosessuali è in parte un retaggio del considerare il femminile un essere meno del maschile. La L di lesbica negli anni Settanta e Ottanta era considerata alla stregua di un insulto; nelle riunioni all’inizio degli anni Ottanta eravamo tutti maschi. Per esempio nel 1980 nella rivista del Pci “Rinascita”, una dirigente sindacale di Modena – che aveva come prospettiva una grande carriera politica nella Cgil – fece un intervento come lesbica. La sua carriera fu stroncata, seppure continuò a ricoprire il suo ruolo nella Camera del Lavoro di Modena. La sinistra e il Pci avevano un familismo moralista molto forte, nonostante uno dei suoi leader fondatori, Palmiro Togliatti, sappiamo avesse una vita familiare tutt’altro che tradizionale. L’entrata delle donne in Arcigay fu una battaglia che ho portato avanti e vinto nel 1990 ma al costo persino di uno scontro fisico durante un congresso.

Qual è lo stato di salute del movimento oggi?
Negli ultimi Pride prima del Covid ho visto una grande partecipazione. Qui a Bologna nel 2019 abbiamo avuto un Pride impressionante. Quel giorno arrivò un temporale e una grandinata violenta, con chicchi di dimensioni inusitate che danneggiavano le macchine e ovviamente facevano male alle persone. Poche persone sono andate via. Quasi tutti hanno aspettato che finisse quel flagello per cominciare a muoversi per le vie della città in corteo. Quando vedi questa resistenza, questa necessità di esserci nonostante la violenza degli elementi e non muoverti da lì, se non per farti curare i bozzi che ti provoca la grandine, hai la evidenza materiale che nonostante tutto il movimento, la comunità, c’è. Sempre nel 2019 Milano, che è ormai diventato il cuore del movimento in Italia, ha fatto un Pride imponente, che mi ha impressionato. Oggi in Italia si combatte un’altra battaglia, quella della legge Zan. Una battaglia difficile, ma che rappresenta un’altra importante fase in una storia che viene da lontano e va lontano.

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