Due Storie
Margaret Collina, Due Storie, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 40, no. 9, settembre/dicembre 2015
19 MARZO- festa del papà.
Caro Antonio mio, mio caro figlio,
non ti stupire della mia lettera né che io ti chiami in questo modo. È ora che tu sappia apertamente ciò che hai sempre sospettato, o magari immaginato. Hai l’età per sapere che lo zio debosciato, innominabile, ma che, almeno nel viso, ti somiglia tanto, è tuo padre.
Mi tranquillizza la convinzione che la memoria di tua madre è salva perché, dopo più di dieci anni, la morte rende il ricordo di chiunque impermeabile a qualsiasi malignità e cattiveria; in più, la mia irreversibile situazione ti permette di liberarti, nello stesso tempo, di un dubbio ancora irrisolto e di qualunque impegno filiale nei miei confronti.
È inutile che cerchi di abbellire la mia immagine raccontandoti favole sulla mia storia: tutto quello che ti hanno detto su di me è sordidamente vero. Sono proprio l’indegna persona che ti hanno descritto da sempre: non ho scusanti per quello che ho fatto. Ma vorrei almeno salvare ai tuoi occhi, ormai più che adulti, l’immagine del sentimento che esisteva tra tua madre e me. Il nostro rapporto, durato solo otto mesi e poi reso perpetuo dalla tua nascita, è stata l’unica cosa che in tutta la mia vita sono riuscito a non sporcare: tua madre era consenziente e ci siamo lasciati ancora innamorati, pensando che quella fosse l’unica cosa giusta da farsi. In seguito abbiamo continuato ad amarci fino alla sua morte, ma solo col pensiero, con i ricordi, con gli sguardi più accorati: finché si è potuto.
Tuo padre adottivo (ma convinto di essere tale anche nei fatti) è un brav’uomo e non deve sapere nulla. Tu adesso gli devi voler bene ancora di più: per il torto che ha subito e per l’affetto che ha sempre avuto per te.
Comunque, questa mia prima lettera da “padre”, sarà anche l’ultima e, credimi, non l’ho scritta per liberarmi la coscienza, ora che so…. No, non credo sia questo il motivo, penso sia piuttosto il bisogno di lasciare in qualcuno una traccia di me, proprio ora che hanno pronunciato la mia sentenza di morte. Cancro al polmone: inoperabile. La sentenza e la liberazione: tutto in un colpo solo.
È difficile spiegare quello che ho provato quando il medico, senza tante storie, mi ha annunciato ciò che mi aspettava. Non certo disperazione, e nemmeno paura, piuttosto sbigottimento: è così che doveva finire questa brutta storia? Doveva arrivare così improvvisa e beffarda la mia “liberazione”? Con tutte queste domande per la testa, non ho avuto nemmeno la voglia di parlare e sono rimasto perfettamente silenzioso davanti al mio ultimo giudice. Credo sia stata la prima volta per me che di giudici ne ho conosciuti parecchi, e li ho quasi tutti ingiuriati con gli epiteti più scurrili ed azzeccati che tu possa immaginare.
Ma davanti al giudice vestito di bianco, non mi è uscita neanche una parola, non mi sono ribellato, non l’ho coperto d’insulti. Me ne sono stato zitto per almeno due giorni: due giorni interi di fumate, tossite e prove generali di decesso. Poi mi sono riavuto e ho pensato che era proprio quello che mi spettava, che alla fine era giusto così. Io sono sempre riuscito a trovare un po’ di pace in questa mia impresentabile esistenza, solo dopo essermi convinto che le cose peggiori che mi stavano capitando erano solo il logico risultato delle mie pessime azioni.
E poi, in fondo, eccola lì, finalmente a due passi, l’agognata libertà, la fuga, il volo.
Adesso che ti scrivo e sto facendo una terapia a base di morfina o cose simili, sono sempre più convinto di quello che dico. Antonio, figlio ritrovato: tuo padre, appena comparso, se ne va subito, e, liberando se stesso, libera anche te da impegni troppo gravosi e inutili scrupoli. Non cercherò in nessun modo di lasciarti una lacrimevole immagine di me che serva a riscattare il mio ricordo dalle colpe che ho commesse: non chiedo la tua pietà. Voglio solo che tu sappia che, se non mi avessero arrestato due mesi esatti dopo il tuo concepimento e non m’avessero condannato all’ergastolo, avrei proposto a tua madre di lasciare suo marito e di sposarmi, e di conseguenza, tu saresti, anche legalmente, mio figlio.
Purtroppo, vent’otto anni fa ho ucciso deliberatamente due individui che, dopo avermi convinto-senza troppa difficoltà, è vero- ad entrare nel loro losco giro d’affari, appena raggiunto lo scopo, avevano organizzato per bene il modo di farmi fuori: io l’ho saputo e li ho semplicemente preceduti.
È tutta la verità. Non l’ho mai negata. Mi ribello solo al fatto che questo genere di omicidio non possa rientrare in qualche modo in un caso di legittima difesa.
Ma ora che importa più? Da anni il mio avvocato si stava impegnando per ottenere, nonostante la mia pessima condotta, la liberta condizionata, e credo mancasse ormai poco. Purtroppo nella vita c’è sempre chi s’organizza prima e ti frega: io dovrei saperne qualcosa. Ecco perché non me la prendo più di tanto: in qualche modo la libertà che cercavo, mi è stata accordata.
Domani mi trasportano sotto scorta, all’Ospedale Civile, perché qui non sono più in grado di “curarmi”, e domani sarà la prima volta, dopo questi giorni infiniti di maledetto buio, che rivedrò la luce del sole senza la costrizione di un recinto. Non m’importa se sarò legato a una barella, se andrò a morire in uno schifo d’ospedale, se il tempo sarà brutto o ci sarà il giudizio universale. Io sarò fuori da qui. Per sempre.
Spero che quando riceverai questa lettera, tenuto conto della lentezza dei controlli carcerari e del servizio postale, io possa essere ancora più lontano e più libero.
Tuo padre.
Ho pochi amici
forse uno è gay,
l’altro un clandestino,
e anche una madre
sola col suo bambino.
E un carcerato
con cui ci scriviamo
per raccontarci
come viviamo.
E poi una ragazza
che batte la via
e una vecchietta
che sta a casa mia.
Son tutti ben fatti
dipinti con cura:
la terracotta
è di buona fattura.
Stan tutti intorno
ad un ragazzino
che in giro chiamano
Gesù Bambino.
Insieme agli altri,
un po’ più lontana,
vedete?ci sono anch’ io:
chinata sul fiume
o alla fontana,
son quella che lava,
i panni di Dio.
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