1953: calcio e politica nell’anno della “legge truffa”
Alberto Molinari, 1953: calcio e politica nell’anno della “legge truffa”, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 52, no. 8, dicembre 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.9605
1. INTRODUZIONE
Come notava Aurelio Lepre nella sua storia della prima Repubblica,
dopo la Liberazione il solo campo possibile in cui l’orgoglio nazionale si espresse senza riserve diventò quello sportivo. Sembrò che in esso potessero trovare una rivalsa anche le frustrazioni lasciate dalla sconfitta e nacquero le leggende di Coppi, di Bartali e della squadra di calcio del Torino1.
La vittoria di Bartali al Tour del France nel luglio del 1948 generò la leggenda dell’atleta che aveva salvato l’Italia dalla guerra civile dopo l’attentato a Togliatti. Secondo una rappresentazione veicolata principalmente dalla pubblicistica cattolica, con la sua impresa Bartali aveva unito gli italiani e depotenziato le tensioni politiche e sociali2.
Il 4 maggio dell’anno successivo la tragedia di Superga trasfigurò la squadra granata in un mito che fu incanalato nel processo di nation-building entrando nel «pantheon identitario della nuova Italia repubblicana3».
Nel contempo, le divisioni che caratterizzavano il contesto politico e sociale italiano tendevano a riflettersi nella sfera dello sport.
Le forze politiche cercarono di imprimere il loro segno alle vicende sportive e lo sport in alcuni casi divenne anche uno «spazio di conflitto ideologico4». In un’accurata ricerca sullo sport nel dopoguerra, pubblicata nel 1952, si sosteneva che «caduto il fascismo, scomparso cioè un regime che appariva particolarmente interessato a deviare nello sport la carica emotiva delle masse», erano «scesi in lizza a cercare di sfruttare questa parossistica passione i partiti di massa5».
Queste osservazioni si riferivano in particolare all’associazionismo sportivo collaterale alla Democrazia cristiana e ai partiti di sinistra, funzionale alle contrapposte attività di propaganda, a veicolare le rispettive visioni politico-ideologiche, sportive ed extrasportive, ad alimentare il proselitismo.
Analoghi contrasti emersero anche in occasione di grandi eventi dello sport e rispetto a scelte istituzionali di carattere politico-sportivo, evidenziando il ruolo che i fenomeni sportivi assumevano nella costruzione delle identità politiche e nell’orizzonte simbolico della società italiana all’epoca della guerra fredda.
2. VERSO ITALIA-UNGHERIA
Il 2 agosto 1952 l’Ungheria vinse il torneo calcistico alle Olimpiadi di Helsinki. Nel corso della competizione la formazione magiara si dimostrò nettamente superiore alle squadre avversarie.
Ribattezzata in patria Aranycsapat (“la squadra d’oro”), la compagine ungherese suscitò un unanime entusiasmo tra i commentatori della stampa in tutto il mondo. La formula del “dilettantismo di Stato” adottata in campo sportivo dai regimi comunisti aveva agevolato la vittoria, consentendo ai magiari di schierare nella rappresentativa olimpica i titolari della Nazionale, ma non vi erano dubbi sullo straordinario valore tecnico di una formazione che poteva contare su fuoriclasse del calibro di Puskás, Hidegkuti e Kocsis.
Anche in Italia i giornalisti sportivi non lesinarono elogi alla «formidabile Ungheria6» capace di suscitare «applausi a scena aperta» grazie ad un gioco entusiasmante7.
Le pagine sportive della stampa di sinistra diedero particolare risalto alle competizioni di Helsinki che videro per la prima volta la partecipazione dell’Urss al consesso olimpico. ”l’Unità” e l’”Avanti!” esaltarono i successi sovietici – l’Unione sovietica si classificò al secondo posto dopo gli Stati Uniti per numero di medaglie conquistate –, gli straordinari gesti atletici del ceco Emil Zatopek e le prestazioni della squadra calcistica ungherese che aveva contribuito ad arricchire l’eccezionale medagliere olimpico magiaro, superato solo da quello delle due superpotenze8. Questi risultati testimoniavano la forza del sistema sportivo del blocco orientale che faceva capo all’Urss, presentato come il riflesso della superiorità complessiva del modello politico e socio-economico comunista rispetto a quello capitalista9.
Terminate le Olimpiadi, la Federazione Italiana Giuoco Calcio (Figc) impostò la programmazione degli incontri della Nazionale per la stagione 1952-’53, in un contesto sportivo problematico.
Dopo la tragedia di Superga, che aveva lasciato un enorme vuoto umano ed emotivo e privato gli azzurri della qualità dei giocatori del Grande Torino, il mondo del football si era dovuto misurare con il difficile compito di ricostruire un’identità calcistica nazionale, sotto il profilo tecnico e nel sentire comune degli italiani.
La precoce eliminazione degli azzurri ai Mondiali brasiliani del 1950 – i primi del dopoguerra, nei quali la Nazionale si presentava come detentrice del titolo dopo le imprese del 1934 e del 1938 – aveva incrinato il prestigio sportivo dell’Italia e aperto una fase critica, certificata da una serie di alterne e spesso opache prestazioni. Questo stentato percorso metteva in luce una fragilità di fondo del calcio italiano e i limiti della sua classe dirigente, suscitando un acceso dibattito sulla stampa e nell’opinione pubblica sportiva, alla ricerca delle cause e dei rimedi per uscire dalla crisi10.
Il calendario degli incontri programmati tra l’autunno del 1952 e la primavera dell’anno successivo venne definito in settembre dal Consiglio federale della Figc. Erano previste tra l’altro due partite particolarmente importanti, contro la Cecoslovacchia e l’Ungheria, nell’ambito della Coppa Internazionale11. In base agli accordi stipulati con le rispettive Federazioni, la prima si sarebbe svolta a Praga in aprile, la seconda in maggio in Italia12.
Per Italia-Ungheria iniziò anche a circolare l’indicazione di una data precisa, il 17 maggio 195313. In vista dell’incontro la Legazione ungherese avviò la programmazione di «iniziative per allargare la propria rete di contatti nel mondo dello sport italiano», progettando «una proiezione di film sullo sport ungherese». Come avevano dimostrato le Olimpiadi, gli eventi sportivi rappresentavano un’importante occasione «per costruire un’efficiente rete relazionale nei paesi occidentali». Lo sport era «uno strumento per far conoscere le democrazie popolari e, attraverso queste ultime, i risultati che il socialismo permetteva di raggiungere14».
Si prospettava inoltre la possibilità di disputare la partita con l’Ungheria a Roma in occasione dell’inaugurazione del nuovo stadio Olimpico, prevista per la primavera del 195315.
Per i vertici politico-sportivi il completamento dell’impianto romano rivestiva un’importanza decisiva in funzione dell’assegnazione all’Italia delle Olimpiadi del 1960, punto di arrivo del percorso intrapreso nel dopoguerra dallo sport italiano verso una piena legittimazione nel consesso sportivo internazionale16. Insieme al complesso del Foro italico (piscine, campi da tennis, palestre), l’imponente stadio, chiamato “dei Centomila”, avrebbe costituito la “Città olimpica”. Il presidente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (Coni) Giulio Onesti considerava «fondata» la candidatura di Roma grazie alla realizzazione del «grandioso stadio olimpico», che aveva suscitato «l’ammirazione delle personalità sportive di tutto il mondo», e della Città olimpica con un complesso di opere che non avrebbe avuto uguali «né in Europa né altrove17».
3. UNA PARTITA SCOMODA
Nei mesi successivi la programmazione della partita con l’Ungheria fu al centro di accese polemiche alimentate dallo scontro che caratterizzava il dibattito politico. Tra forze di governo e opposizione si aprì un conflitto molto aspro legato alla scelta della Democrazia Cristiana di presentare una modifica del sistema elettorale in senso maggioritario. Per consolidare la formula politica centrista, il partito guidato da De Gasperi elaborò un disegno di legge che prevedeva l’assegnazione del 65% dei seggi della Camera al partito o alla coalizione che avesse ottenuto il 50% più uno dei voti.
La strategia degasperiana si concretizzò tra ottobre e novembre del 1952 con l’approvazione del disegno di legge in Consiglio dei ministri e la firma di un accordo tra Dc, Psdi, Pri e Pli per presentarsi con liste collegate alle elezioni previste alla scadenza della legislatura nella primavera dell’anno successivo. Il disegno di legge suscitò immediatamente durissime proteste da parte della opposizioni in Parlamento e nel Paese. La sinistra definì il progetto democristiano una “legge truffa”, che andava a solo vantaggio della Dc, un attentato alla democrazia e alla Costituzione che prefigurava una deriva autoritaria18.
In questo quadro, il 21 novembre il Consiglio federale della Figc comunicò che non era stato possibile individuare con precisione il giorno dell’incontro con l’Ungheria perché la data andava subordinata alla programmazione dei comizi per le elezioni politiche del 195319.
In realtà, nessuna disposizione vietava di organizzare partite di football ufficiali in quel frangente. La cautela della Federazione rispetto agli accordi presi con i magiari sembrava piuttosto riflettere le preoccupazioni per un incontro che comportava delicate implicazioni sul piano politico-sportivo. Come scriveva il “Corriere dello Sport”, la Figc – guidata dal presidente Ottorino Barassi, che di lì a poco si sarebbe candidato come indipendente nelle liste della Dc – aveva proposto di rinviare la partita con l’Ungheria a dopo le elezioni «per evitare un eventuale sfruttamento politico di tale avvenimento20».
La partita si sarebbe disputata nel corso di una campagna elettorale che si preannunciava incandescente.
Inaugurare l’Olimpico con una squadra considerata in quel momento la più forte sul piano internazionale significava dare visibilità e prestigio ad un evento che poteva essere utilizzato dalle forze governative nel confronto preelettorale. Ma un’eventuale e probabilmente netta sconfitta dell’Italia avrebbe minato ulteriormente la credibilità del calcio italiano, che già non godeva di buona salute, nonché dei suoi vertici, offrendo un’occasione alle sinistre per ribadire la forza del sistema sportivo comunista, un argomento da aggiungere al loro arsenale propagandistico.
Nei mesi successivi i timori del potere politico-sportivo si tradussero nella ricerca di soluzioni alternative.
Alla fine di dicembre, intervistato da Gianni Brera, Barassi accennò a trattative in corso per una partita tra Italia e Uruguay da disputarsi in occasione dell’inaugurazione dell’Olimpico, senza peraltro avanzare riserve legate alla campagna elettorale21.
Viste le eccessive pretese economiche della Federazione uruguaiana, nel gennaio del 1953 la Figc avanzò la proposta di svolgere l’incontro inaugurale dello stadio romano con l’Inghilterra. Durante una visita all’Olimpico, sir Stanley Rous, segretario della Football Association, la Federazione calcistica inglese, manifestò «la sua ammirazione per la monumentale opera» e dichiarò di appoggiare la richiesta italiana22.
Poco dopo, una corrispondenza dall’Inghilterra del “Corriere dello sport” smontava questa ipotesi mostrandone l’impraticabilità, dato che la Lega calcistica britannica era contraria ad una revisione del programma internazionale23.
In attesa della decisione inglese – e non essendo possibile prevedere una partita con altre nazionali europee, stante i calendari internazionali già definiti – la Figc riprese le trattative con la Federazione uruguaiana24.
Tramontata rapidamente anche quest’ultima ipotesi, la Federazione inglese si dichiarò disponibile ad inviare in Italia una nazionale “b” formata da giocatori di esperienza ma in età avanzata, ormai esclusi dal giro della nazionale maggiore, una proposta evidentemente irricevibile, come notarono i commentatori sportivi: vista «la grande importanza conferita dagli sportivi italiani» all’inaugurazione dell’Olimpico, non era «attuabile una manifestazione di così scarso contenuto tecnico25».
Dopo avere rifiutato la proposta inglese, alla Federazione magiara che insisteva affinché fosse mantenuto l’impegno per maggio preso l’anno precedente26 Barassi rispose adducendo argomenti tecnici sfavorevoli all’Italia, legati al migliore stato di forma degli ungheresi che avrebbero iniziato il loro campionato in primavera rispetto agli italiani reduci da un torneo logorante27. La tesi del presidente federale risultava però debole perché fondata su elementi che erano noti anche l’anno precedente quando lo stesso Barassi si era accordato con la Federazione ungherese.
4. LA SINISTRA ALL’ATTACCO
Insistendo in queste tortuose trattative e poco convincenti giustificazioni, la Figc prestava il fianco alle critiche della sinistra. Comunisti e socialisti avevano buon gioco nel sostenere che i vertici calcistici stavano facendo di tutto per evitare l’incontro con l’Ungheria, temendone i risvolti propagandistici e subendo arbitrarie interferenze politiche che condizionavano le dinamiche del mondo del calcio.
Sulla vicenda iniziò una campagna di stampa da parte degli organi di sinistra, da “l’Unità” a “Pattuglia, l’organo della Federazione dei giovani comunisti, da altre testate collaterali al Pci, come “Paese sera”, al quotidiano del Partito socialista.
Particolarmente incisivi risultarono gli interventi di Antonio Ghirelli, uno dei più autorevoli e competenti giornalisti sportivi di area comunista.
Alla fine del 1952 Barassi aveva rilasciato un’intervista al giornalista napoletano, pubblicata poi su “Pattuglia”. Evidenziando l’imbarazzo del presidente federale nel rispondere alle domande sulla programmazione della partita con l’Ungheria, Ghirelli sottolineava il suo nervosismo rispetto ad una decisione che non si prospettava semplice28.
A Barassi, e con lui ai vertici del calcio, veniva rivolta l’accusa di avere mutato atteggiamento rispetto ai paesi dell’Est europeo, passando da relazioni diplomatiche improntate alla cordialità ad un aperto anticomunismo che contraddiceva la neutralità degli organismi sportivi. In questa direzione andava anche la decisione di appoggiare una proposta volta ad escludere le nazionali dei paesi comunisti dalla Coppa Internazionale29.
Inoltre, secondo la ricostruzione di Ghirelli basata su fonti confidenziali, «onde evitare che l’inaugurazione dello Stadio dei 100 mila coincidesse con una esibizione certamente brillante di una rappresentanza dello sport socialista30», Giulio Andreotti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, era intervenuto all’inizio di gennaio facendo pressioni sulla Figc affinché venisse rivista la decisione di disputare la partita inaugurale dell’Olimpico con l’Ungheria. I «fatti» dimostravano quindi
che: 1) il governo interviene nelle faccende della Federcalcio; 2) la Federcalcio accetta questi interventi; 3) il governo si serve dell’inaugurazione dello stadio dei centomila per fini elettorali; 4) la Federazione conduce, d’accordo con il governo, una politica di ostilità alle Federazioni calcistiche di democrazia popolare; 5) nella fattispecie, Governo e Federazione hanno mirato sin dall’inizio a trovare per gli azzurri un avversario qualsiasi, che non fossero gli ungheresi, perché ritenevano che la sola presenza della nazionale olimpionica avrebbe liquidato la speculazione elettorale sullo stadio dei centomila31.
Allo stesso Ghirelli, che aveva ripreso la questione sulle pagine di “Paese sera”, rispondeva “Il Popolo”, quotidiano della Democrazia Cristiana, con un corsivo nel quale si rovesciava sui comunisti l’accusa di speculazioni elettorali, notando che il desiderio di inaugurare l’Olimpico con la partita Italia-Ungheria non era «degli sportivi» ma «dei signori di via delle Botteghe Oscure32».
5. L’INAUGURAZIONE DELLO STADIO OLIMPICO E LA SCONFITTA DELL’ITALIA
Vista l’impossibilità di trovare un avversario alternativo all’Ungheria, di fronte alla campagna della stampa di sinistra e forse in seguito a pressioni da parte di Onesti33, alla fine di febbraio la Figc comunicò che lo stadio Olimpico sarebbe stato inaugurato il 17 maggio con la partita Italia-Ungheria, seguita dall’arrivo della tappa Napoli-Roma del Giro d’Italia34.
Una decisione presa obtorto collo dalla Federazione, unica via di uscita possibile in una vicenda malamente gestita dalla dirigenza calcistica italiana.
La presenza di una squadra prestigiosa dava comunque una grande rilevanza all’inaugurazione dello stadio romano, un evento che si prestava ad assumere una valenza simbolica e politica.
Alla vigilia della partita Pio XII ricevette in udienza i dirigenti del Coni e una delegazione degli sportivi azzurri, accompagnati da Andreotti e da Luigi Gedda, presidente del Centro Sportivo Italiano, associazione sportiva d’ispirazione cattolica35. Nel suo discorso il papa evocò il nesso tra il cattolicesimo e lo sport ponendo in relazione la Cupola di San Pietro e il nuovo stadio, indice di una «armonia […] tra anima e corpo»:
il vostro stadio […] armonizza con gli edifici antichi e moderni rispondenti a vari scopi, e, se cristianamente frequentato, non sarà in disaccordo con quella sublime funzione che è prerogativa dell’Urbe, e di cui è simbolo, da tutti compreso, la grande Cupola di Michelangelo36.
Il 16 maggio Andreotti rilasciò alla radio una dichiarazione nella quale rivendicava gli sforzi fatti dal governo per costruire un impianto simbolo della rinascita nazionale, vetrina con cui l’Italia sportiva si mostrava al mondo e rafforzava «la sua posizione di prestigio internazionale, anche nel campo dello sport37».
Come ha notato Fabien Archambault, l’inaugurazione dell’Olimpico e la partita Italia-Ungheria costituirono «l’occasione per una messa in scena del potere democristiano»38. Prima dell’incontro, il “Maggio sportivo Libertas”, un’associazione sportiva collaterale alla Dc, organizzò uno «spettacolo coreografico» culminato con un discorso di Andreotti di fronte a 20.000 persone39.
Un’altra operazione propagandistica organizzata dalla Dc nei giorni in cui si trovava a Roma la squadra ungherese fu la “Mostra dell’Aldilà” nella quale erano esposti materiali provenienti dalle democrazie popolari, con l’intento di evidenziarne il basso tenore di vita e le sofferenze della popolazione. L’Aranycsapat visitò la mostra, seguita anche dalla stampa ungherese che «contrappose alla propaganda italiana quella effettuata dagli atleti magiari, considerati i migliori ambasciatori della Repubblica Popolare d’Ungheria40».
Sul versante politico opposto, nei giorni precedenti la partita il Pci distribuì un volantino che invitava i giovani a votare comunista sottolineando, con un chiaro riferimento all’arrivo della squadra magiara, la capacità dello sport di rompere la barriera tra l’Italia e i Paesi dell’Europa orientale, «creata ad arte dalla propaganda anti-comunista dettata dagli americani41».
In vista dell’incontro, la “caccia” agli ultimi biglietti disponibili provocò lunghe file e incidenti davanti allo stadio42. Il questore di Roma manifestò preoccupazioni per l’ordine pubblico, dato l’eccezionale afflusso di tifosi tra i quali si sospettava vi fossero numerosi «elementi comunisti43». Prevedendo «l’intervento di non meno di 200.000 persone» nell’area dello stadio, il questore chiese al prefetto «un largo servizio di protezione» per impedire «invasioni» di persone prive di biglietto che avrebbero causato «confusione e disordine di imprevedibile portata44».
Dopo la cerimonia inaugurale, il 17 maggio 1953 Italia e Ungheria scesero in campo nello stadio Olimpico. Alla partita assisteva anche il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, invitato dal Coni «in considerazione dell’importanza nazionale e internazionale dell’avvenimento45». Davanti a circa 90.000 spettatori, la squadra magiara vinse 3-0 dominando la partita e offrendo un grande spettacolo sportivo.
Il giorno successivo nei commenti della stampa emergeva il contrasto tra l’orgoglio per il nuovo stadio – «un’opera monumentale e formidabile insieme, […] che onora lo sport italiano […] e la Nazione che ha saputo realizzarla46» – e la delusione per la prestazione degli azzurri, umiliati sul piano calcistico dagli avversari47. Al termine dell’incontro il pubblico aveva acclamato la squadra ungherese mentre i giocatori italiani erano usciti dallo stadio sotto una «tempesta di fischi48». Sulla stampa si riapriva il dibattito sulla crisi del calcio italiano49.
Conclusi gli impegni sportivi, i giocatori magiari furono ospiti di Giuseppe Di Vittorio nella sede della Cgil e presso la sede del Comitato Centrale del Pci dove, in assenza di Palmiro Togliatti che si trovava fuori Roma, vennero ricevuti da Pietro Secchia. In quell’occasione Secchia sottolineò l’importanza della partita «per il rafforzamento dei rapporti amichevoli tra i popoli ungherese e italiano», brindando «ai successi della nazione magiara nel campo del progresso, della pace e del socialismo50».
6. IL DOPOPARTITA. LE POLEMICHE POLITICHE
Il quotidiano del Partito socialista, in un corsivo in prima pagina, prese spunto dalla vittoria ungherese per dare una lettura politica del contesto nel quale si era svolto l’evento sportivo.
Il «radiomessaggio dell’immarcescibile Andreotti» e la benedizione del papa agli atleti dimostravano il tentativo della Democrazia Cristiana di utilizzare l’inaugurazione dell’Olimpico in funzione elettorale. Ma quando «i dilettanti ungheresi» avevano «insaccato con calma tre palloni nella rete dei nostri celebrati e ricercati professionisti […] milionari», il pubblico aveva applaudito «con gioia» gli ospiti. Era «un applauso ad un’altra morale, ad un altro modo di vivere, ad un sistema che anche nello sport rivela[va] immediatamente la sua superiorità51».
D’altra parte, l’incontro con l’Ungheria divenne il pretesto per accusare la sinistra di antipatriottismo, con argomenti che riprendevano la retorica anticomunista sul Pci “partito dello straniero”, “nemico interno” al soldo di Mosca.
Il quotidiano della Democrazia Cristiana stigmatizzò l’esultanza per la vittoria dei magiari da parte di presunti «elementi infiltrati nel pubblico», – evidentemente comunisti –, uno spettacolo deplorevole che testimoniava una mancanza di «sentimento patriottico52». “Il Tempo”, quotidiano romano di orientamento conservatore, pubblicò in prima pagina una vignetta che ritraeva tre «redattori sportivi socialcomunisti» intenti a brindare per la vittoria dell’Ungheria, con questa didascalia: «I compagni patrioti: – Vittoria! Ha perduto l’Italia53».
Agli attacchi degli avversari politici replicò “l’Unità” attraverso un corsivo che respingeva l’accusa di antipatriottismo e insisteva sulle responsabilità dei vertici dello sport italiano, guidato «da forchettoni clericali come Andreotti, Barassi e compagnia», nella crisi del sistema calcistico nazionale54.
Poco prima Ghirelli aveva concluso un articolo di presentazione dell’incontro romano con queste parole:
I giovani accolgono con entusiasmo i rappresentanti di una nazione che è piccola, ma grande per civiltà di istituti, per evoluzione di coscienze e per perfezione di cultura fisica e morale. Naturalmente il nostro cuore è per gli azzurri, ma uniamo le due grandi squadre in un grido che vuole essere un grido di pace: Viva l’amicizia tra il popolo italiano e il popolo ungherese! Viva lo sport che abolisce le barriere!55
Il Pci coniugava “patriottismo”56 ed esaltazione del modello socialista d’oltrecortina anche in ambito sportivo. Si poteva sostenere la Nazionale, in sintonia con il sentimento popolare, e nel contempo difendere i valori sportivi espressi dal blocco sovietico, concepiti come alternativi e superiori a quelli dell’Occidente capitalistico.
Il nucleo della retorica sportiva comunista era il richiamo allo sport come veicolo di fratellanza tra i popoli che rientrava nell’intensa campagna propagandistica sul tema della pace, centrale nella strategia del Pci all’epoca della guerra fredda57. Nel 1953, come negli anni precedenti, le attività del settore culturale e ricreativo del Partito, comprese quelle sportive, furono ricondotte alla questione onnipresente della pace. Il Pci promosse corse ciclistiche e tornei di calcio “per la pace” e, tramite l’Unione Italiana Sport Popolare, partecipò alle manifestazione sportive indette nell’ambito del IV Festival mondiale della gioventù, organizzato a Bucarest e incentrato sulla lotta per la pace58.
Nella costruzione ideologica del discorso comunista su questo tema, “veri patrioti” erano coloro che si opponevano ai «gruppi plutocratici e reazionari» al servizio del «nuovo imperialismo» statunitense», si battevano «per il rinnovamento sociale della nazione» e si schieravano con il blocco socialista guidato dall’Urss, identificata con la causa della pace, oltre che con il progresso e la giustizia sociale59.
7. LA QUESTIONE DEI CALCIATORI STRANIERI. ESTEROFILI E AUTARCHICI
Archiviate le polemiche seguite alla partita con l’Ungheria, per il calcio italiano si aprì un altro problematico fronte politico-sportivo, legato alla presenza dei calciatori stranieri.
Dopo la chiusura autarchica del calcio voluta dal fascismo60, all’indomani del secondo conflitto mondiale gli atleti stranieri erano ritornati nel campionato italiano. La corsa al campione straniero «divenne frenetica, configurando l’assurdo di un paese stremato dal conflitto, con un cambio della valuta sfavorevolissimo, e insieme Mecca del calcio migratorio61». Era l’avvio di quella che fu chiamata «legione straniera»62, formata soprattutto da svedesi, danesi, danubiani e sudamericani.
Inizialmente alle società fu concesso di tesserare due calciatori provenienti da altre Federazioni. Convinti di elevare il tasso tecnico del calcio italiano con l’innesto di elementi di altri Paesi, nel 1947 i dirigenti federali autorizzarono i club ad ingaggiare cinque calciatori stranieri, due dei quali dovevano essere “oriundi”, giocatori nati all’estero ma figli di genitori italiani. Nel 1949 la categoria degli oriundi venne abolita; ogni società poteva ingaggiare tre stranieri63.
Tra il 1946 e il 1950 giunsero in Italia 115 calciatori stranieri. Oltre che sul piano quantitativo, «la nuova ondata di emigranti del pallone incise sul calcio italiano per l’eccellenza del gioco e per la benefica contaminazione tra scuole diverse, che avevano fatto dell’Italia, già nell’anteguerra, un crocevia del calcio mondiale64».
In breve tempo gli assi stranieri avanzarono richieste economiche sempre più esose. Con la crescita degli ingaggi, la maggior parte delle società non fu in grado di sfruttare l’apertura delle frontiere. Inoltre non pochi elementi della “legione straniera”, scelti in modo frettoloso e superficiale dai club, si rivelarono di scarsa levatura tecnica.
Nei primi anni Cinquanta le grandi società continuarono ad investire nei campioni stranieri contando su un ritorno in termini di risultati, spettatori e incassi, ma all’interno degli ambienti calcistici iniziarono ad emergere perplessità sulla loro presenza nella massima serie, considerata una delle ragioni che concorrevano alla crisi del football nazionale. Si diffuse la convinzione che un eccessivo numero di giocatori provenienti da altri Paesi aveva finito per ostacolare la valorizzazione delle nuove leve calcistiche italiane. Anche la maggior parte dei commentatori sportivi sosteneva la necessità di contenere la presenza degli atleti stranieri per favorire la formazione dei calciatori italiani in funzione della squadra nazionale65.
Dopo la deludente partecipazione della Nazionale ai Mondiali brasiliani del 1950 Barassi avanzò una proposta di riforma che prevedeva tra l’altro una limitazione graduale dei calciatori stranieri. Il tema venne discusso dal Consiglio nazionale delle Leghe calcistiche riunito a Rapallo l’8-9 dicembre 1950. In quella sede si stabilì che a partire dalla stagione 1952-1953 il numero degli stranieri sarebbe stato ridotto a due66.
La questione fu portata anche all’attenzione della Camera attraverso alcune interpellanze parlamentari.
Nell’aprile del 1952 i deputati Mario Saggin, democristiano, e Luigi Preti, socialdemocratico, presentarono due interrogazioni nelle quali denunciavano con accenti moralistici il «mercantilismo» e il «divismo» che caratterizzavano il mondo del calcio e osservavano che gli ingaggi dei calciatori stranieri avevano «depresso il tono del calcio nazionale» e depauperato la «preparazione e specializzazione tecnica degli atleti italiani». Chiedevano quindi al governo di promuovere una politica sportiva in grado di dare allo sport nazionale «un maggiore senso di responsabilità» e «una nuova e più seria disciplina allo sport calcistico». In particolare sul tema degli stranieri, Preti suggeriva di proibirne completamente l’acquisto67.
Alle interpellanze rispose Giulio Andreotti. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio considerava eccessivamente «pessimistico» il giudizio espresso dai due parlamentari sullo sport italiano e sottolineava che, su 110.000 calciatori tesserati, gli alti guadagni riguardavano un paio di centinaia di atleti. Inoltre, con l’abbassamento a due del limite dei giocatori stranieri nelle singole squadre, solo qualche decina di giocatori non italiani sarebbero scesi in campo nella serie A, un dato che non poteva essere assunto «come sintomo di notevole allarme68».
8. LA CHIUSURA DELLA FRONTIERA CALCISTICA. IL “VETO ANDREOTTI”
Il leader democristiano si riferiva alle disposizioni emanate due anni prima a Rapallo che, come previsto, entrarono in vigore per la stagione 1952-‘53.
La questione rimaneva però aperta.
Nel corso del campionato diversi club si mossero per ingaggiare nuovi atleti di altre Federazioni e nelle strutture del calcio italiano si ripropose la frattura tra le grandi società, che volevano ritornare ai tre stranieri, e quelle minori che puntavano ad un’ulteriore riduzione69.
In sede federale la discussione si trascinò tra continui rinvii e nuove polemiche alimentate dalle sconfitte dell’Italia nella Coppa Internazionale.
Mentre Barassi cercava di prendere tempo istituendo una commissione di cinque “saggi” incaricata di esprimere un parere sulla crisi del calcio italiano, dopo la partita con l’Ungheria diverse società si compattarono per chiedere una radicale riorganizzazione del sistema calcistico che prevedeva tra l’altro una netta chiusura ai giocatori stranieri70. Stando alle agenzie di stampa, questa soluzione era auspicata anche dai vertici federali71.
Subito dopo, un intervento ufficiale di Onesti a nome del Coni dava un avvallo decisivo alle tendenze “autarchiche”. Secondo il presidente del massimo organismo sportivo italiano la crisi del calcio non era «di sostanza», visto l’elevato numero di tesserati, ma «di forma, cioè di metodo, di organizzazione, di conduzione» e poteva essere superata attraverso adeguati provvedimenti. Tra questi, quello immediatamente realizzabile riguardava la chiusura della frontiera calcistica72.
A ridosso della presa di posizione di Onesti iniziarono a circolare alcune voci su un’imminente iniziativa del governo volta a bloccare l’acquisto dei calciatori stranieri, anche per frenare l’uscita di valuta dal Paese73.
L’indirizzo “nazionalistico-sportivo” fu ulteriormente avvalorato da Barassi. Il presidente della Figc propose di eliminare la norma federale secondo la quale dopo cinque anni di permanenza nel campionato italiano gli atleti stranieri venivano equiparati agli italiani, e di privilegiare invece i legami di sangue, reintroducendo la categoria degli “oriundi”, «tenuto conto dell’apporto che gli Italiani d’Oltre Atlantico hanno sempre dato al nostro calcio»74.
Barassi non era l’unico ad avventurarsi in affermazioni che contrapponevano gli oriundi agli stranieri. Sul “Corriere dello Sport” la chiusura nei confronti degli stranieri veniva giustificata attraverso un confronto tra le caratteristiche «temperamentali» degli italo-argentini degli anni Trenta, che avevano contribuito ai successi italiani, e quelle dei «nordici» «di temperamento addirittura opposto ai nostri» che, secondo il commento del quotidiano romano, non avevano portato «nessun beneficio tecnico al nostro calcio75».
L’urgenza assunta dalla questione degli stranieri dipendeva anche dalla necessità di intervenire prima dell’apertura del calcio-mercato, fissata per il 1° giugno 1953.
Per rompere l’immobilismo, risultò decisiva l’iniziativa del governo. Il 29 maggio l’agenzia A.P.E., vicina all’esecutivo, rese noto che in veste di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Andreotti aveva informato la presidenza del Coni circa la decisione di chiudere la frontiera calcistica. I «competenti organi ministeriali» avevano disposto il divieto di concedere permessi di soggiorno a stranieri che lo avessero chiesto «per svolgere l’attività di giocatore nelle squadre di campionato», con la sola eccezione dei «giocatori di provenienza estera» ma di «nazionalità italiana per essere figli di italiani76». L’intento del provvedimento era «evitare che l’eccessivo numero di stranieri compromett[esse] l’efficienza delle forze sportive nazionali77» e sanare lo squilibrio valutario, in considerazione del fatto che non esistevano esportazioni di giocatori italiani tali da «pareggiare il bilancio anche dal punto di vista economico78».
Il blocco dei calciatori stranieri era dunque maturato sull’asse Presidenza del Consiglio-Coni – anche grazie ai consolidati rapporti politici e di amicizia tra Andreotti e Onesti – per dirimere attraverso una decisione di carattere politico una questione altrimenti destinata a rimanere irrisolta a causa delle divisioni tra le società e dell’opposizione dei club più forti e influenti in termini economici e sportivi79.
Andreotti calcolava anche «gli effetti elettorali del provvedimento».80 Ad una settimana dalle elezioni, il governo guidato dalla Democrazia Cristiana si presentava come difensore degli interessi calcistici nazionali. Questo risvolto politico era evidenziato polemicamente da “l’Unità”, favorevole peraltro alla scelta “autarchica” perché la presenza dei giocatori stranieri «ostacolava lo sviluppo tecnico e quantitativo dei calciatori italiani81».
Gli addetti ai lavori e i commentatori sportivi accolsero in genere con favore la nuova norma, considerata un’inattesa quanto opportuna iniziativa che rispondeva alle aspettative di larga parte del mondo del calcio. Secondo il “Corriere dello Sport” il blocco delle importazioni calcistiche «era divenuto […] una realtà indispensabile per poter favorire una più rapida e completa ripresa del calcio italiano82». Per “Stadio”, mentre la Federazione si perdeva in «chiacchiere inutili», il governo agiva «con interventi senza dubbio efficaci83». Anche Vittorio Pozzo giudicava la misura «significativa, chiara, decisiva84».
Al di là delle valutazioni sul merito del provvedimento, con il “veto Andreotti” i vertici politici avevano preso «un’iniziativa forte, dimostrativa e, sostanzialmente, prevaricante» che «costituiva un colpo al prestigio della Federazione», ne minava l’autonomia e indeboliva di fatto Barassi85.
D’altra parte, la posizione del presidente della Figc era complicata dalla sua candidatura nelle liste della Democrazia Cristiana per le elezioni del 7 giugno. La stampa di sinistra avviò una dura campagna contro Barassi, additato come il maggiore responsabile della crisi del calcio italiano e reo di avere violato la norma che prevedeva l’apoliticità della Federazione86.
Il 7 giugno le liste dei partiti governativi – Dc, Psdi, Pri e Pli – che si presentavano apparentati ottennero alla Camera complessivamente il 49,8% dei voti, sfiorando, ma non raggiungendo, il quorum necessario per far scattare la legge maggioritaria. La “legge truffa”, che tanti sforzi era costata al governo e che si era scontrata con una dura opposizione, rimase inoperante e i seggi della Camera furono assegnati secondo la vigente legge elettorale proporzionale.
Come sottolineava con soddisfazione la stampa di sinistra, tra le bocciature eccellenti c’era anche quella di Barassi, finito ventottesimo per ordine di preferenze nella circoscrizione di Torino-Vercelli-Novara87.
Barassi continuò invece a mantenere la guida della Figc, nonostante le richieste di dimissioni che provenivano da più parti.
Nel frattempo il “veto Andreotti” aveva suscitato la reazione delle società più influenti che riuscirono ad imporre all’interno del Consiglio federale un’applicazione graduale della normativa sugli stranieri, in nome dell’autonomia della Federazione rispetto ad ingerenze esterne. Il tentativo di aggirare il “veto” venne però bloccato da un nuovo intervento della Presidenza del Consiglio88.
Alcune società che avevano continuato a lavorare sul mercato estero furono costrette a rinunciare agli ingaggi già programmati. Sui campi da gioco italiani ritornarono invece gli oriundi, con i quali si apriva un nuovo capitolo nella storia dei calciatori stranieri in Italia.
9. CONCLUSIONI
Negli anni della guerra fredda risultò evidente la funzione dello sport come “continuazione della politica con altri mezzi”.89 Lo spazio dello sport divenne
una delle innumerevoli arene in cui veniva “pacificamente combattuta” la guerra fredda […]. Attraverso le vittorie e le medaglie, tanto gli Usa quanto l’Urss potevano infatti dimostrare il valore e la vitalità non solo dei propri atleti, ma anche del loro modello socio-economico e del loro stile di vita.90
I vincoli internazionali e le tensioni che caratterizzavano lo scontro geopolitico si riverberarono all’interno dei paesi dei due blocchi, coinvolgendo la sfera dello sport.
Come si è visto nel caso analizzato in questo contributo, nei primi anni dell’Italia repubblicana furono anzitutto i due principali partiti di massa – la Democrazia cristiana e il Partito comunista – a misurarsi politicamente, in forme e con intensità diverse, con la dimensione dello sport. Anche in questo campo, il mondo cattolico e quello comunista elaborarono strategie e concezioni alternative.
Le passioni politiche e sportive si intrecciarono e si sovrapposero generando contrasti e suscitando dinamiche di identificazione. Le valenze politiche e simboliche dello sport emersero in svariati ambiti. Dai grandi eventi sportivi91 alle manifestazioni sportive minori92 il terreno dello sport, per la sua natura pubblica, popolare e fortemente emozionale, si prestò a veicolare discorsi ideologici, rappresentazioni, valori e modelli etici e pedagogici che contribuirono alla costruzione di identità e di sensi di appartenenza ad una comunità politica e alimentarono i contrapposti immaginari del mondo diviso dalla guerra fredda.
Note
- Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 146.
- Sulla decostruzione di questa leggenda cfr. Stefano Pivato, Sia lodato Bartali. Il mito di un eroe del Novecento, Roma, Castelvecchi, 2018, pp. 58-71.
- Nicola Sbetti, Giochi diplomatici. Sport e politica nell’Italia del secondo dopoguerra, Treviso-Roma, Fondazione Benetton Studi e Ricerche/Viella, 2020, p. 276. Sul mito del Grande Torino cfr. Paul Dietschy, The Superga Disaster and the Death of the “Great Torino”, in “Soccer & Society”, n. 5, 2004, pp. 298-310; Fabien Archambault, La catastrophe de Superga. Une tragédie politique italienne, in “Parlement[s]. Revue d’histoire politique”, n. 25, 2017, pp. 81-100; Daniele Serapiglia, Sia lodato il Grande Torino. La tragedia di Superga e la costruzione della comunità immaginata cattolica, in “Im@ago. A Journal of the Social Imaginary”, n. 2, 2018, pp. 44-61.
- Paul Dietschy, Storia del calcio, Vedano al Lambro (MB), Edizioni Paginauno, 2014, p. 221.
- Carlo Doglio, Lo sport in Italia, in “Comunità”, gennaio 1952, p. 27.
- Surclassata anche la Svezia dalla formidabile Ungheria (6-0), in “Corriere dello Sport”, 29 luglio 1952.
- Vittorio Pozzo, Applausi a scena aperta, in “La Stampa”, 29 luglio 1952.
- Sulle Olimpiadi di Helsinki cfr. Nicola Sbetti, Giochi di potere, Milano, Le Monnier, pp. 115-120.
- Cfr. Gianluigi Bragantin, Lo sport nell’Unione Sovietica, Roma, Edizioni di cultura sociale, 1952.
- Nicola De Ianni, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere, Soveria Mannelli, Rubettino, 2015, pp. 163-170.
- La Coppa Internazionale, che risaliva al 1927, era stata la prima competizione europea per nazioni. Vi partecipavano le squadre danubiane, la Svizzera e l’Italia, alle quali si aggiunse del dopoguerra la Jugoslavia.
- La riunione del C. F. a Roma, in “La Gazzetta dello Sport”, 13 settembre 1952.
- Leone Beccali, Indicazioni internazionali, in “Corriere dello Sport”, 26 settembre 1952.
- Lorenzo Venuti, Siamo una superpotenza sportiva. Calcio e politica in Ungheria da Horty a Kádár, Tesi di dottorato in studi storici, ciclo XXXIII, Università di Siena/Università degli Studi di Firenze, anni 2017-2020, pp. 280-81.
- In fase di compimento lo Stadio Olimpico di Roma, in “La Gazzetta dello Sport”, 17 ottobre 1952. Ideato nel 1927 e originariamente noto come stadio dei Cipressi, l’impianto venne inaugurato nel 1932 sino al primo anello. I lavori ripresero nel 1937 per poi interrompersi a causa della guerra. Il cantiere per il completamento dello stadio riaprì nel dicembre 1950.
- Cfr. Sbetti, Giochi diplomatici, cit., pp. 289-296; Tito Forcellese, L’Italia e i Giochi Olimpici. Un secolo di candidature, pp. 214-232.
- Confermato Onesti presidente, in “Corriere d’Informazione”, 30-31 ottobre 1952.
- Carla Rodotà, Storia della “legge truffa”, Roma, Edizioni Associate, 1992; Maria Serena Piretti, La legge truffa: il fallimento dell’ingegneria politica, Bologna, Il Mulino, 2004.
- Il Consiglio Federale ha deliberato, in “La Gazzetta dello Sport”, 22 novembre 1952.
- Confermato Beretta Commissario unico, in “Corriere dello Sport”, 22 novembre 1952.
- Gianni Brera, Il calcio italiano ha tre obbiettivi (più uno), in “La Gazzetta dello Sport”, 17 dicembre 1952.
- Forse nel maggio Italia-Inghilterra, in “Corriere dello Sport”, 3 gennaio 1953.
- Brian Glanville, Venti di fronda a Londra per il progettato Italia-Inghilterra, in “Corriere dello Sport”, 7 gennaio 1953.
- In Uruguay si riparla di un incontro con l’Italia, in “Corriere dello Sport”, 24 gennaio 1953.
- Che si dice a Roma? Vedremo…, in “La Gazzetta dello Sport”, 27 febbraio 1953.
- L’Ungheria vuol giocare in maggio contro l’Italia, in “La Stampa”, 3 febbraio 1953.
- Inghilterra o Ungheria allo stadio Olimpico di Roma?, in “Corriere dello Sport”, 27 febbraio 1953.
- Antonio Ghirelli, La nazionale e la cortina di cuoio, in “Pattuglia”, anno VII, n. 2, gennaio 1953, p. 4.
- Antonio Ghirelli, Proibito dal governo l’incontro con l’Ungheria, in “Pattuglia”, anno VII, n. 7, febbraio 1953, p. 10.
- Ghirelli, Proibito dal governo l’incontro con l’Ungheria, cit.
- Ghirelli, Proibito dal governo l’incontro con l’Ungheria, cit.
- L. Ant., Paradossi, in “Il popolo”, 31 gennaio 1953.
- Secondo fonti ungheresi, durante un ricevimento organizzato il 21 febbraio 1953 dalla Legazione magiara, il presidente del Coni confidò a un dirigente ungherese «di aver voluto con forza che fosse l’Ungheria la nazionale designata per l’inaugurazione dello stadio Olimpico, vincendo le forti resistenze che aveva avuto dal governo». Cfr. Venuti, Siamo una superpotenza sportiva, cit., p. 282.
- Lo Stadio Olimpico sarà inaugurato il 17 maggio con la partita Italia-Ungheria, in “Stadio”, 28 febbraio 1953.
- Atleti e dirigenti sportivi rendono omaggio al Pontefice, in “Corriere della Sera”, 17 maggio 1953.
- Il testo integrale del discorso, tenuto il 16 maggio 1953, si trova in Antonella Stelitano, Alejandro Mario Dieguez, Quirino Bortolato (a cura di), I Papi e lo sport. Oltre un secolo di incontri e interventi da San Pio X a Papa Francesco, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2015, pp. 89-92.
- La dichiarazione alla radio del sottosegretario Andreotti, in “Il popolo”, 17 maggio 1953.
- Fabien Archambault, Le contrôle du ballon. Les catholiques, les communistes et le football en Italie, Roma, École française de Rome, 2012, p. 246.
- Ibidem.
- Lorenzo Venuti, Linguaggi dell’anticomunismo nell’Italia della Guerra Fredda. La Democrazia Cristiana e la “Mostra dell’Aldilà” (1953), in “Memoria e Ricerca”, Fascicolo 2, maggio-agosto 2019, p. 345.
- Il testo del volantino è riportato in Distensione, in “La Voce Repubblicana”, 17 maggio 1953.
- Tafferugli e feriti allo Stadio per l’acquisto di biglietti per Italia-Ungheria, in “Il Messaggero”, 17 maggio 1953.
- Archivio centrale dello Stato (Acs), Ministero degli Interni, Direzione generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali, busta 107, fascicolo D14, Comunicazione del questore di Roma Saverio Polito al prefetto, 16 maggio 1953.
- Acs, Ministero degli Interni, Direzione generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali, b. 107, f. D14, Fonogramma del questore di Roma Saverio Polito al prefetto, 12 maggio 1953.
- Acs, Fondo Presidenza Consiglio dei Ministri, 1951-1954, f. 3-2-5, n. 51652, Lettera del presidente del Coni Giulio Onesti alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, 6 maggio 1953.
- Ciro Verratti, Lo spettacolo dei magiari e la delusione degli azzurri, in “Corriere della Sera”, 18 maggio 1953.
- Gianni Brera, Illudersi non basta, in “La Gazzetta dello Sport”, 18 maggio 1953; Bruno Roghi, Roma sugli spalti, in “Corriere dello Sport”, 18 maggio 1953.
- Verratti, Lo spettacolo magiaro e la delusione degli azzurri, cit.
- Aldo Bardelli, È colpa di un sistema e tutti sono colpevoli, in “Stadio”, 18 maggio 1953.
- Viva l’amicizia italo-ungherese, in “l’Unità”, 20 maggio 1953.
- Tre a zero, in “Avanti!”, 18 maggio 1953.
- Vergogna!, in “Il Popolo” (edizione di Roma), 18 maggio 1953. Sull’atteggiamento dei militanti comunisti in occasione della partita cfr. Archambault, Le contrôle du ballon, cit., p. 255.
- “Il Tempo”, 18 maggio 1953.
- Carlo Giorni, Salvare lo sport, in “l’Unità”, 19 maggio 1953.
- Antonio Ghirelli, Italia-Ungheria dal 1910 ad oggi, in “Pattuglia”, anno VII, n. 20, 17 maggio 1953, pp. 3 e 13.
- Cfr. Palmiro Togliatti, Il patriottismo dei comunisti, in “Rinascita”, anno II, n. 7-8, luglio-agosto 1945, pp. 164-166. Nella prospettiva del “partito nuovo” togliattiano, l’affermazione del socialismo nel quadro e nella tradizione nazionale conviveva con l’internazionalismo.
- Alla fine del 1948 si costituì a Roma il Movimento dei Partigiani della Pace, guidato per il Pci da Ambrogio Donini. Collegato ad un comitato mondiale, il movimento promosse numerose iniziative, a partire dalla campagna contro il Patto atlantico e dalla raccolta di firme per l’interdizione delle armi atomiche, lanciata a Stoccolma nel 1950, che raccolse in Italia oltre 16 milioni di adesioni. Sui partigiani della pace cfr. Andrea Guiso, La colomba e la spada. “Lotta per la pace” e antiamericanismo nella politica del Partito Comunista Italiano (1949-1954), Soveria Mannelli, Rubettino, 2006; Sondra Cerrai, I partigiani della pace in Italia. Tra utopia e sogno egemonico, Limena, Libreria Universitaria.it, 2011.
- Sui Festival della Gioventù organizzati nei paesi d’oltrecortina e sugli ostacoli frapposti alla partecipazione dell’Uisp dal Ministero degli Interni e dal Coni si vedano Sergio Giuntini, “L’oppio dei popoli”. Sport e sinistre in Italia (1892-1992), Canterano (RM), Aracne editore, 2018, pp. 91-93; Alberto Molinari, I sovversivi dello sport. L’Uisp nelle carte di polizia (1948-1956) in “Storia dello sport. Rivista di studi contemporanei”, Vol. 2, n.1, 2020.
- Palmiro Togliatti, Chi sono i veri patrioti?, in “Pattuglia”, anno VII, n. 13, marzo 1953, p. 3.
- La prima limitazione imposta dal fascismo all’importazione dei calciatori fu introdotta nel 1926 attraverso la Carta di Viareggio. Il provvedimento, che introduceva il girone unico del campionato, era stato elaborato da tre esperti della Figc e approvato dal Coni. Come norma transitoria veniva ammesso per un anno il tesseramento di due giocatori stranieri, con l’obbligo però di non impiegarne più di uno per partita, cfr. La nuova carta del calcio italiano promulgata a Viareggio nella riunione indetta dal C.O.N.I, in “La Gazzetta dello Sport”, 3 agosto 1926. L’anno successivo venne proibito l’ingaggio di atleti stranieri a meno che non fossero figli di italiani nati all’estero e come tali aventi diritto alla cittadinanza italiana. Giocatori con questi requisiti erano definiti “rimpatriati”.
- Antonio Papa, Guido Panico, Storia sociale del calcio in Italia. Dai campionati del dopoguerra alla Champions League (1945-2000), Bologna, Il Mulino, 2000, p. 29.
- Antonio Ghirelli, Storia del calcio in Italia, Torino, Einaudi 1972 (prima edizione 1954), p. 182.
- Era inoltre prevista la categoria dei “fuori quota”, gli stranieri tesserati da almeno cinque anni in Italia, che venivano equiparati agli italiani. Cfr. Luigi Bonizzoni, Calciatori stranieri in Italia ieri e oggi, Roma, Società Stampa Sportiva, 1989, p. 224.
- Papa, Panico, Storia sociale del calcio in Italia, cit., p. 30. I giocatori stranieri diedero un notevole contributo alla vittoria del campionato della Juventus (1949-’50; 1951-’52), del Milan (1950-’51) e dell’Inter (1952-’53). Il colpo di mercato più clamoroso venne realizzato dall’armatore Achille Lauro, presidente del Napoli. Nel giugno del 1952 Lauro spese 105 milioni, una cifra per quei tempi sbalorditiva, per acquistare il centravanti danese Hans “Hasse” Jeppson.
- Mario Zappa, La ragione e il torto di Barassi alla stregua del gioco osservato domenica, in “La Gazzetta dello Sport”, 29 agosto 1950; Ettore Berra, Campionato calcistico e squadra nazionale, in “La Stampa”, 1 ottobre 1950.
- Leo Cattini, Barassi nominato commissario della Lega, in “Stampa Sera”, 9-10 dicembre 1950.
- Portale storico-Camera dei deputati. Atti parlamentari. Discussioni, Seduta notturna del 28 aprile 1952, pp. 37.332-37.335.
- Ivi, pp. 37.335-37.338.
- Si veda ad esempio l’animata discussione al Consiglio nazionale delle Leghe riportata in Gualtiero Zanetti, Urto di opposte tendenze per il numero di stranieri tesserabili, in “La Gazzetta dello Sport”, 17 ottobre 1952.
- Previste nuove restrizioni per i giocatori stranieri, in “Corriere dello Sport”, 20 maggio 1953.
- Ritorna la questione dei giocatori stranieri, in “La Stampa”, 20 maggio 1953.
- Drastico Onesti non più stranieri!, in “La Gazzetta dello Sport”, 22 maggio 1953.
- Anche il governo contro gli stranieri?, in “La Gazzetta dello Sport”, 24 maggio 1953.
- Gianni Brera, In un discorso di Barassi al Panathlon Club. Le più urgenti riforme del calcio italiano, in “La Gazzetta dello Sport”, 30 maggio 1953.
- Confermate le dimissioni del C. U. Carlo Beretta, in “Corriere dello Sport”, 21 maggio 1952.
- Gualtiero Zanetti, Vietato il permesso di soggiorno ai calciatori di nuova importazione, in “La Gazzetta dello sport”, 30 maggio 1953.
- Realizzato il “blocco” delle importazioni calcistiche, in “Corriere dello Sport”, 30 maggio 1953.
- Zanetti, Vietato il permesso di soggiorno ai calciatori di nuova importazione, cit.
- Molti anni dopo, nella rubrica Bloc notes de “L’Europeo” (5 luglio 1986), Andreotti ricordava che Barassi gli chiese di intervenire perché «gli interessi contrapposti» non consentivano «un’adesione volontaria alla misura di rigore».
- Ghirelli, Storia del calcio in Italia, cit., p. 221.
- Ennio Palocci, Vietata l’importazione in Italia di giocatori di calcio stranieri, in “l’Unità”, 30 maggio 1953.
- Realizzato il “blocco” delle importazioni calcistiche, cit..
- Non più visti per gli stranieri, in “Stadio”, 30 maggio 1953.
- Vittorio Pozzo, Giunto come un colpo di fulmine il blocco dei calciatori stranieri, in “La Stampa”, 31 maggio 1953.
- De Ianni, Il calcio italiano 1898-1981, cit., p. 169.
- Cfr. ad esempio Ennio Palocci, Fuori Barassi, in “l’Unità”, 23 maggio 1953. Altri articoli contro Barassi furono pubblicati sul quotidiano comunista il 22,24,28 maggio, 1 giugno 1953.
- Le ambizioni deluse dei democristiani e soci, in “Avanti!”, 12 giugno 1953.
- Ribadito il “veto” governativo contro i nuovi calciatori stranieri, in “La Stampa”, 27 agosto 1953.
- Come nota Sbetti, la dimensione sportiva si configurò come «fattore di riavvicinamento e di pacificazione» oppure come «agente divisivo» rispetto a tensioni preesistenti, cfr. Sbetti, Giochi diplomatici, cit., p. 378.
- Ivi, pp. 303-304. Sullo sport nella guerra fredda la letteratura disponibile è notevole; cfr., tra gli altri, Philippe Vonnard, Nicola Sbetti, Gregory Quin (eds.), Beyond Boycotts. Sport during the Cold War in Europe, Berlin-Boston, De Gruyter, 2018; Toby C. Rider, Cold War Games. Propaganda, the Olympics, and U.S. Foreign Policy, Urbana-Chicago-Springfield, Illinois UP, 2016; David Andrews, Stephen Wagg (eds.), East Plays West. Sport and the Cold War, London-New York, Routledge, 2007; Victor Peppard, James Riordan, Playing Politics. Soviet Sport Diplomacy to 1992, Jai Press, Greenwich-London, 1993.
- Si pensi ad esempio alla gamma di significati politici, sociali e culturali che assunsero i Giochi olimpici di Roma del 1960. Cfr. Marco Impiglia, L’Olimpiade dal volto umano: tutti i Giochi di Roma 1960, Roma, Libreria Sportiva Eraclea, 2010; Le Olimpiadi del “miracolo” cinquant’anni dopo, a cura dell’Istituto romano per la storia dell’Italia dal fascismo alla resistenza, Milano, Franco Angeli, 2010; Premesse alchimie testimonianze anomalie dei Giochi di Roma ’60, numero monografico di «Lancillotto e Nausica», n. 1-2, 2010.
- Si veda il caso della stampa comunista e dell’Uisp in Toscana analizzato in Leo Goretti, “Sacrifici, sacrifici, e ancora sacrifici”. Sport, ideologia e virilità sulla stampa comunista (1945-1956), in “L’Almanacco. Rassegna di studi storici e di ricerche sulla società contemporanea”, n. 59, giugno 2012, pp. 161-187.
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