La Marcia su Roma e dintorni nelle memorie di Emilio Lussu
Salvatore Pugliese, La Marcia su Roma e dintorni nelle memorie di Emilio Lussu, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 52, no. 12, dicembre 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.9629
31 ottobre 1926. Attacco fascista a casa di Gino Alfani, sindaco comunista di Torre Annunziata, provincia di Napoli. Un testimone racconta: “Dopo aver sfasciato a colpi di manganello e di calcio di moschetto tutto quanto aveva l’apparenza di politico o culturale, gli incursori si trovarono di fronte al busto di Marx. Attimi di perplessità, poi la storica sentenza del caposquadra: “Questo lasciatelo stare. Garibaldi non si tocca!”.
Emilio Lussu (Armungia, 1890- Roma, 1975), scrittore brillante e ironico e politico di primo piano, ha vissuto da protagonista i momenti più importanti del cosiddetto «secolo breve»: la Grande Guerra; le lotte contadine nella sua Sardegna; l’attività parlamentare nel ’21-‘24 per il Partito Sardo d’Azione; l’antifascismo militante che l’ha portato in carcere, al confino e infine in esilio; la guerra civile spagnola, la Resistenza italiana; di nuovo l’incarico parlamentare nel secondo dopoguerra con la partecipazione alla «Commissione dei 75» per l’elaborazione della Costituzione repubblicana; ministro sotto il governo Parri e di De Gasperi. Si ritirò dalla vita politica nel ’68.
In Sardegna, il mito di Lussu è ben radicato nella memoria storica popolare non solo per i suoi atti eroici in guerra, che gli valsero ben quattro medaglie al valore, ma anche per la sua attività politica in difesa dei diritti dei reduci e del proletariato rurale sardo.
Lussu rappresenta l’uomo simbolo di riscossa sociale per l’intera Sardegna, ma egli incarna altresì l’immagine di uomo coerente, che non rinnega le proprie idee democratiche; è inoltre un uomo d’azione che rifugge l’attendismo e la vigliaccheria ed è pronto a battersi in prima persona contro ogni forma di autoritarismo.
La sua militanza politica è intrecciata alla sua attività letteraria, i suoi libri, purtroppo pochi1, scandiscono la sua singolare vicenda biografica, rappresentano delle testimonianze sicuramente utili allo storico, ma sono soprattutto delle opere propriamente letterarie di indiscusso valore che hanno attirato l’interesse di numerosi studiosi e che l’hanno consacrato tra i «classici» della Letteratura italiana.
La sua fama è legata a Un anno sull’altipiano, uno dei capolavori della letteratura antimilitarista italiana ed europea, un libro apprezzato dalla critica e finalmente praticato anche negli ambienti scolastici, sia per la sua coraggiosa denuncia della maniera scriteriata in cui fu condotta la Grande Guerra dai nostri Comandi Militari, sia per la sua qualità stilistico-letteraria. Ma egli ha scritto un altro grande romanzo che meriterebbe pari riconoscimento: Marcia su Roma e dintorni, un testo fondamentale per conoscere gli eventi e le dinamiche che hanno caratterizzato gli anni tempestosi dell’ascesa al potere di Mussolini e delle sue camicie nere. Il critico letterario Luigi Russo lo definì «un libro bellissimo», ed espresse una certa irritazione col ministro dell’Istruzione del tempo, Arangio Ruiz, perché non lo segnalò ai presidi delle scuole italiane per farlo studiare ai giovani liceali2.
Composto tra il 1931 ed il 1932 e pubblicato l’anno dopo in Francia, dove l’autore si trovava in esilio, Marcia su Roma e dintorni è un romanzo autobiografico che narra in particolare del sorgere e del dilagare del fascismo in Sardegna, ultima regione italiana a capitolare davanti alla forza d’urto delle violenze squadristiche e di subdole manovre politiche.
È strutturato in ventidue capitoli brevi, dal ritmo narrativo rapido e incisivo come un pamphlet, e ripercorre le vicende occorse all’autore dal 1919, l’anno di ritorno dal fronte, al 1929, quando riesce a fuggire dal confino di Lipari assieme a Carlo Rosselli e Fausto Francesco Nitti. Alla sua uscita, Marcia su Roma e dintorni preoccupò non poco gli ambienti fascisti se è vero che il 18 giugno 1933, dall’Ambasciata italiana a Parigi, che spiava per conto di Mussolini i movimenti degli esuli italiani antifascisti, fu inviata un’informativa diretta al Ministero dell’Interno in cui si dichiarava che il libro dell’esule Lussu «ha avuto un grande successo e se ne prevede la ristampa.3»
La marcia su Roma e i suoi dintorni fu molto apprezzato: nel ’35 l’editore Gallimard ne pubblicò una versione francese, La marche sur Rome et autres lieux. L’anno dopo furono pubblicate due edizioni in inglese, una a Londra e una a New York, e in seguito in tedesco, in spagnolo e in portoghese. Dopo il folgorante esordio, la fortuna critica della Marcia calerà, evidentemente il Paese vuole dimenticare fascismo e antifascismo e queste letture appesantiscono il morale.
Il libro non ha alcuna pretesa storiografica, l’autore rinuncia all’oggettività storica a favore di una dimensione soggettiva, come egli stesso dichiarerà nella Prefazione: «non pretendo di scrivere la storia del fascismo: io narro solo alcuni episodi legati alla mia vita»4, tuttavia la sua ricostruzione storica non presenta alcuna distorsione della realtà: «Io mi sono preoccupato di non inserirvi un solo episodio che non possa essere documentato. La sostanza dei fatti che io rievoco non può essere smentita.5»
Marcia su Roma e dintorni non è un’opera neutra, ma “engagée”, militante e antifascista: il libro vuole dare alle opinioni pubbliche dei paesi occidentali, principali destinatarie dell’opera, un’idea del fascismo italiano con lo scopo di suscitare sdegno e prevenire il suo espandersi.
Nessuna ambizione letteraria presiede dunque alla redazione dei suoi libri, egli non scrive per diletto, i suoi intenti sono esclusivamente politici e propagandistici nel senso che i suoi scritti dovevano fungere da denuncia e da incitamento alla lotta. Concetto questo riportato nel suo libro d’esordio, La Catena6: «Io non avrei scritto queste pagine, se non pensassi a trarne delle conclusioni politiche e presentarle al lettore. Confesso che tutto il resto mi interessa assai poco7.»
Ma per quanto egli si schermisca, bisogna riconoscere che Lussu ha avuto in dote una felice vena narrativa, come testimoniano le elogiative recensioni di critici dal calibro di Croce, Russo, Montale, Varese, Salinari. L’analisi che lo scrittore sardo ci presenta non si rifà all’approccio marxista, teso cioè ad individuare le forze che permisero al fascismo di impadronirsi della macchina dello Stato, ossia il grande capitale, sebbene esse non gli siano ignote come si può notarlo in vari scritti8. A Lussu interessa invece mettere in luce le conseguenze morali dell’affermarsi del fascismo: il «crollo delle coscienze», ovvero la capitolazione di singoli individui e di gruppi politici che per viltà o per opportunismo abiurarono le proprie idee per salire sul carro dei vincitori. Siamo dunque di fronte all’eterna vicenda del trasformismo italiano, un malcostume nato all’indomani dell’Unità d’Italia e che caratterizza ancora oggi la classe politica italiana.
1. ESEMPI POCO EDIFICANTI DI VOLTAGABBANA
La Marcia è una «rappresentazione amaramente satirica»9 del fenomeno del trasformismo, lo scrittore guarda con ironia, piuttosto che con indignazione, alle bassezze umane, ai cedimenti dei suoi ex compagni di partito (il Partito sardo d’azione, di cui Lussu fu il leader indiscusso) e di tanti altri voltagabbana – prefetti, questori, giornalisti, deputati, professori, sindacalisti, ecc. – una moltitudine senza dignità che merita la più severa riprovazione da parte dello scrittore.
Un esempio di questa «umanità povera e avvilita»10 è quello del prefetto di Cagliari il quale, davanti a un corteo di camicie nere che si era portato sotto il palazzo della prefettura per dileggiarlo, si mostra deferente nonostante le plateali offese ricevute:
«Dopo vane trattative, il prefetto, finalmente, apparve ad un balcone. Aveva il cappello in testa. – Giù il cappello! – Levati il cappello, svergognato! – Saluta la rivoluzione fascista!
Il prefetto si levò il cappello e, con un sorriso ospitale, incominciò: – Signori fascisti! …- Canaglia! – risposero in coro i fascisti. [….] – Signori fascisti!… – Becco! – interruppe ancora una voce.
Seguì una risata generale. La polizia assisteva allibita. Il prefetto non batté ciglio e riprese, tutto d’un fiato:
– Signori fascisti! fedele sostenitore dello Stato, io sono con voi con tutto il mio cuore. Viva il fascismo! Viva Sua Eccellenza Benito Mussolini!
I fascisti non si aspettavano tanto, sicché si trovarono in grande imbarazzo. Qualcuno applaudì. Il prefetto si ritenne soddisfatto e si ritirò dal balcone.»11
Altrettanto sorprendente è la “conversione” dell’onorevole Alberto Beneduce, il quale si reca dal presidente del Consiglio Facta per sollecitarlo a contrastare, manu militari, la marcia su Roma:
«Bisogna preparare una contromarcia, sostiene con fredda calma l’onorevole Beneduce, democratico irriducibile, ex ministro del Lavoro col ministero Nitti. – Ogni veleno reclama il suo antidoto. A insurrezione, insurrezione; a colpo di stato, colpo di stato.
E faceva la spoletta fra generali e uomini politici, fra industriali e banchieri e organizzazioni proletarie, reclamando mezzi, denari e uomini per l’impresa. E, sempre facendo la spoletta, non si è mai perduto d’animo. Adesso è fascista, e di grande autorità.»12[il corsivo è nostro]
Il giudizio politico del narratore si limita a questa chiosa finale rude e caustica che ritorna in maniera ossessiva quasi in ogni capitolo. Un ulteriore e significativo esempio dell’utilizzo di questa «sorta di ritornello sinistro»13, lo si ritrova al termine del discorso tra Lussu e un suo ex- amico parlamentare, Pietro Lissia, lo stesso a cui un mese dopo Mussolini affiderà l’incarico di negoziare una pace con i sardisti. Nel suo discorso, Lissia manifesta, enfaticamente, la sua netta avversione a Mussolini sino a sostenere la legittimità del tirannicidio.
« [Lissia] era stato nettamente avverso al fascismo fin dalla sua prima ora. Aveva anche fatto parte di alcuni comitati parlamentari che avevano tentato, attraverso un’intesa tra partiti, di costituire un fronte unico, disposto a combattere il fascismo con tutti i mezzi legali e violenti. Durante il suo ultimo soggiorno a Roma, a metà ottobre, mi aveva avvicinato per propormi una stretta collaborazione in Sardegna.
-È assolutamente necessario – mi disse – che noi stiamo a contatto di gomito. […]. Dobbiamo dimenticare le nostre discordie e diventare soldati dello stesso esercito. Se il fascismo trionfa, la civiltà del nostro paese rincula di venti secoli. […]
-Noi abbiamo il dovere di batterci fino all’ultima goccia di sangue. Se non lo faremo, sarà l’onta per noi e per i nostri figli. Dico per modo di dire, perché, in verità, io non ho figli. […].
– Sai tu che ne farei io se fossi al governo? Se fossi al posto di quel somaro che osa ricoprire il posto di presidente del Consiglio? Io lo metterei fuori legge, come fece il Senato romano per Catilina. […]
-Mussolini è un brigante. […] Ogni cittadino dovrebbe considerarsi in istato di legittima difesa e poterlo sopprimere impunemente. […]
Quale fu la mia meraviglia nell’apprendere, subito dopo la «Marcia su Roma», che egli faceva parte del ministero Mussolini, come sottosegretario alle Finanze.»14
2. L’UMORISMO LUSSIANO
Questo accorgimento retorico dell’epigramma finale nasce su consiglio di Gaetano Salvemini, il quale aveva raccomandato ai fuorusciti italiani che si apprestavano a scrivere per il pubblico anglo-americano, oltre che francese, di colpire l’attenzione dell’ascoltatore con un’affermazione che fosse sia immediata nella sua verità che venata d’ironia nella formulazione. Difatti Luigi Russo ha colto questo aspetto nella prosa lussiana caratterizzata da una moderazione dello stile oratorio tipicamente nostrano; secondo il critico Lussu ha inventato
«Una nuova forma di umorismo politico, ignoto a noi italiani che, in libri del genere, preferiamo le escandescenze, il tono scandalistico, e le clausole dei discorsi da comizio. Benedetti gli stranieri che ci abituano a contenere il nostro gesticolare […] e ci abituano alla satira contegnosa e sibilata e masticata tra i denti!»15
Le evoluzioni politiche che Lussu ci presenta nella Marcia sono tutt’altro che rare in quell’epoca e si spiegano con la tesi di Gobetti, che Lussu dimostra di conoscere, del fascismo come «autobiografia della nazione»: il Paese è antropologicamente fascista, è saldamente radicato nell’animo degli italiani che sono privi di una cultura liberal – democratica.
Gobetti non scarica esclusivamente la colpa su Mussolini o sul re, ma sugli italiani stessi che si sono dimostrati democraticamente analfabeti: «né Mussolini né Vittorio Emanuele hanno virtù da padroni, ma gli italiani hanno bene animo di schiavi.»16
C’è un episodio nel romanzo che chiarisce bene questo assunto gobettiano.
Lussu incontra a Roma un importante esponente politico popolare, il quale «nella lotta contro il fascismo, era stato di una grande intransigenza e sostenitore delle tesi più estreme»17. I due si trovano a passeggiare all’aperto e discorrono della maniera più efficace per combattere la tirannide, a un tratto passa un autocarro pieno di squadristi. Il capo fascista, vedendoli, fece il saluto romano. Il collega di Lussu rispose con deferenza. Lussu allora gli chiede chiarimenti, la sua spiegazione è illuminante:
«Egli aveva appena finito di parlare […] che un grosso autocarro carico di squadristi in camicia nera, armati di tutto punto, sopraggiunse veloce. Il capo fascista che lo comandava, passando di fronte a noi, salutò alla romana e gridò:
– A chi Roma imperiale?
– A noi! – rispose il convoglio.
Il mio collega ebbe un attimo di perplessità, e rispose al saluto, levandosi il cappello.
Perché saluti? – chiesi io.
Il mio collega si trovò imbarazzato a rispondermi. Si fece rosso in viso, e mi disse stentatamente:
La verità è che, senza accorgercene, incominciamo a formarci una psicologia da schiavi.»18
Lussu è attento al rapporto tra morale e politica, ed auspica un rinnovamento della classe dirigente, il suo obiettivo è rinforzare la coscienza civica collettiva; pertanto egli polemizza duramente contro chi professa con molta leggerezza il trasformismo. Secondo Simonetta Salvestroni ad essere evidenti in questi personaggi
«non sono tanto le qualità temibili di un’intelligenza volta al male, come la malvagità, l’astuzia, la crudeltà, ma altre inferiori, la vigliaccheria, l’opportunismo l’assenza di qualunque fede, espressioni di un’umanità povera e meschina da contemplare più con disgusto che con timore.»19
Un degno esempio di un personaggio senza alcuna coerenza politica né alcuna remora nel rivendicarlo, è quello di un avvocato ex amico di Lussu, che in soli cinque minuti prese la sua decisione di passare dalla parte dei fascisti ottenendo per questo un posto come gerarca. Alle domande di chiarimento di Lussu sul suo voltafaccia politico, egli non rispose ma gli mostrò un libro del XVI secolo dal titolo eloquente: «Ultima professione di fede di Simon Sinai, da Lucca, prima cattolico-romano, poi calvinista, poi luterano, di nuovo cattolico, ma sempre ateo»20.
Il passaggio dalle file antifasciste e democratiche a quelle del movimento di Mussolini rappresenta dunque il nucleo tematico di Marcia su Roma e dintorni, in esso osserviamo sfilare un’infinità di personaggi che hanno cambiato casacca per opportunismo o vigliaccheria, o molto più semplicemente perché si obbediva al detto popolare, cinico e sarcastico, «in Italia si corre sempre in soccorso dei vincitori».
3. LO STILE DI LUSSU SECONDO I CRITICI
Le pagine della Marcia riescono a ricostruire il clima di quell’epoca, esse sono una sconsolata contemplazione di una società in disfacimento, una puntuale «cronaca di una disfatta», come titolerà la sua breve nota su Marcia su Roma e dintorni Eugenio Montale:
«Il suo libro è la cronaca, nuda, asciutta, quasi impersonale dei fatti […]. Forse sorprenderanno le note di sottile umorismo che tramano tutta la confessione del Lussu. Là dove uno spirito più retorico avrebbe visto soltanto pianti e tragedia, questo italiano di nobile stampo […] si ribella ad ogni amplificazione e registra i fatti con assoluta fedeltà di testimone. Ci dà così la realtà di quel tempo; la realtà di un vaudeville. […] e non è colpa sua se molte pagine del suo libro hanno sapore di farsa e di farsa tipicamente italiana.»21
Il futuro Nobel per la Letteratura mette l’accento anche sull’aspetto stilistico della prosa lussiana, egli rimarcherà l’essenzialità della sua scrittura e la fedeltà, nell’esposizione dei fatti, al canone dell’impersonalità. È un giudizio su cui concordano altri critici, come Luigi Russo e Benedetto Croce, i quali, all’uscita di Un anno sull’Altipiano e Marcia su Roma e dintorni, nel ’45, in un’Italia finalmente libera dal giogo nazi-fascista, individueranno proprio nelle caratteristiche stilistiche, oltre che nel contenuto, il valore delle due opere. Il suo è un racconto «vivo, rapido, semplice, tutto cose […]: spoglio di espressioni personali, lamenti, imprecazioni, ira»22, dirà Croce a proposito della Marcia. Lussu si rivela dunque uno scrittore di «cose», concreto, dotato di una straordinaria capacità di rappresentazione. Per Luigi Russo, Lussu ha il merito di aver trasformato il tessuto documentario in materia artistica:
«Il Lussu non è scrittore libresco, non è storico o dottrinario nel senso proverbiale della parola; ha bisogno di vedere, soffrire e narrare. E allora sa essere artista. Ma le sue pagine comunque sofferte, suggeriscono sempre molteplicità di pensieri e di impressioni nel lettore che non sia tardo e opaco.»23
Anche Simonetta Salvestroni ha notato che il narratore è solo apparentemente distaccato e impersonale, egli in realtà è fortemente coinvolto dal punto di vista emotivo e la prova risiede proprio nel ricorso a quelle espressioni ironiche e sarcastiche che sono
«la spia di una partecipazione compressa, ma sempre risorgente ed esprimono spesso una sofferenza maggiore anche di quella che appare nella denuncia diretta, perché testimoniano uno stato d’animo meno limpido, più contorto e turbato. »24
Lussu adotta un tono leggero, quasi scanzonato, si serve di una prosa allegra capace di suscitare il riso e l’ilarità nel lettore, ma molto opportunamente Paola Sanna, autrice del primo studio letterario di un certo respiro sull’autore, ci mette in guardia perché quella di Lussu è
«una comicità che si sottrae alla risata perché è sempre originata da un’intenzione ironica e che ha quindi il suo vero fine nella frustata morale, nella denuncia di pavidità, di cedimento all’opportunismo avvilente. »25
La scrittura di Lussu non è affatto priva di pathos, è sofferta, priva di ogni retorica, lontana anni luce dai moduli dell’eloquenza estetizzante, degli autocompiacimenti letterari che avevano conquistato non pochi scrittori ma che sarebbero stati certamente fuori luogo in testi che si propongono uno scopo di testimonianza su temi peraltro drammatici come la guerra e le violenze fasciste.
Il registro narrativo che Lussu adopera è dunque segnato dall’ironia e dal sarcasmo, un tono molto difficile da dominare secondo Giovanni De Luna in quanto esposto al rischio del narcisismo e dell’esibizionismo. Tuttavia Lussu non cade in queste tentazioni perché
«la sua ironia è sofferta, il suo sarcasmo amaro: pure quando le sue descrizioni sembrano riecheggiare i canovacci dell’opera buffa, c’è sempre uno sguardo dolente, triste che si posa sui suoi personaggi, anche i più sgradevoli.»26
Quello di Lussu è uno stile di raccontare che commuove, ma che non è mai patetico «La Musa di Lussu è tragica, ma egli ha un modo suo per rincalzarne gli effetti: con l’ironia, col sarcasmo. L’equilibrio tra i due toni è quasi perfetto»27, scriverà Franco Antonicelli nella sua recensione sul quotidiano torinese.
4. QUANDO IL TRAGICO INCONTRA IL GROTTESCO
In Marcia su Roma e dintorni si ritrova spesso l’intreccio di comico e tragico: nel famoso “discorso del bivacco” di Mussolini, del 16 novembre 1922, il narratore trasforma un freddo discorso politico in una sequenza ritmata, alternando frammenti del discorso del duce con commenti comici se non fosse per suoi risvolti drammatici: la morte della democrazia parlamentare. Il tempo della storia viene dilatato per dare spazio al tempo del racconto che perciò s’impreziosisce di descrizioni che non potrebbero essere registrate in un asettico verbale stenografico. Il risultato dal punto di vista stilistico-letterario è pregevole.
« – Io sono qui per difendere e potenziare al massimo la rivoluzione delle camicie nere». La Camera dette visibili segni di agitazione e molti deputati, istintivamente, levarono gli occhi preoccupati verso le tribune colme di squadristi plaudenti. – Mi sono rifiutato di stravincere e potevo stravincere». Un certo senso di sollievo invase l’aula. […] – Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento». Il presidente abbassò lo sguardo. Il ghiaccio scese nell’aula. […] La costernazione schiacciò i cuori degli indefessi amanti dell’ordine e della quiete pubblica e privata. Lunga pausa. – Potevo, ma non l’ho voluto». Un sollievo entrò nell’aula e si diffuse malinconico. Altri segni di consentimento sui banchi. Il «Duce» si divertiva. Come un gatto che abbia fra le zampe un topo […] così il «Duce» con la Camera. E aggiunse, subito dopo, con tutto un sarcasmo e un dire e non dire di promesse e di minacce per il futuro: – Almeno per questo momento». La desolazione ripiombò nell’aula»28.
Anche nella scena che segue, il narratore realizza un’efficace concatenazione di ironia e riso amaro: bersaglio polemico saranno le guardie della Milizia fascista di stanza a Lipari, l’isola in cui Lussu fu deportato per scontare i cinque anni di confino, “autoridotti” a due grazie alla famosa evasione assieme a Rosselli e Nitti.
Il narratore vuole evidenziare la stoltezza e dappocaggine delle guardie della Milizia che cominciano a sparare come forsennati per lo starnuto… di una capra.
«Per il Natale del 1929, verso il tramonto, sulla linea di sbarramento, una capra starnutì.
A Lipari, le capre passeggiano in mezzo agli uomini. Le sentinelle fasciste più vicine trasalirono. Non era questo, per caso, un segnale convenuto dai congiurati per l’insurrezione? A cuore fermo spianarono i moschetti e dettero il «chi va là!». La capra non rispose. Subitamente, aprirono il fuoco. Tutte le altre sentinelle e le pattuglie si credettero in pericolo e, pancia a terra, spararono anch’esse, furiosamente. La tromba del Castello suonò l’«allarmi». Tutti i militi accorsero alle armi: anch’essi spararono. Come avviene nei combattimenti accaniti, il frastuono delle armi eccitò i combattenti. La battaglia divenne furiosa. Tutti i motoscafi levarono le ancore e solcarono il mare: anch’essi aprirono il fuoco. Per incitare alla resistenza, il cannone del canotto da guerra sparò qualche colpo sull’orizzonte. Il fuoco cessò quando finirono le cartucce. La pugna era stata lunga ma la vittoria aveva arriso ai fascisti. La sera si contarono trentacinque feriti fra i deportati e sedici fra la popolazione civile. Sorpresi dalla fucileria mentre erano a passeggio, gli abitanti non avevano avuto il tempo di rifugiarsi nelle case29.
Davanti a questo episodio tragicomico è difficile trattenere la risata, che però si smorza se si considera l’epilogo finale, ossia che il putiferio scatenato dalla Milizia provoca una cinquantina di feriti tra deportati e civili.
C’è dunque nella scrittura di Lussu una sistematica alternanza del comico e del tragico nello svolgimento della narrazione. In Marcia su Roma e dintorni, come pure in Un anno sull’Altipiano prevale la tragedia ma essa non è esclusiva, c’è spazio per momenti di comicità. Lussu gioca su questi due livelli.
L’arte umoristica di Emilio Lussu si dispiega in tutta la sua forza nell’esilarante passo della famosa “danza del sigaro” (la felice espressione è di Mimmo Bua)30. Ha per protagonista ancora una volta l’onorevole Lissia, che il narratore elegge a uomo-simbolo della schiera dei voltagabbana pronti a barattare la propria fede politica per un posto di comando nel regime di Mussolini, Lissia sarà infatti nominato vice ministro delle Finanze. Viene inviato a Cagliari con lo scopo di trovare un accordo con i sardisti. Nell’aula del Consiglio provinciale tiene un discorso alla presenza delle massime autorità cittadine. La vicenda di Lissia è esposta con tono leggero e divertente ma il motivo di fondo si rivela ugualmente serio e grave: con l’esempio di Lissia e di quanti percorreranno la sua identica parabola del cambiare casacca, lo scrittore vuole invitarci a riflettere sul triste fenomeno del trasformismo, del voltafaccia politico, del «crollo delle coscienze».
«Bisogna premettere che il mio collega era un gran fumatore e amava avere i suoi sigari sempre a portata di mano. Infilati nel taschino della giubba, bene allineati, essi stavano in mostra come le decorazioni sul petto dei militari. Egli, anche quando parlava, aveva bisogno di sigari. […] Tutte le volte che doveva esprimere un concetto con precisione e con forza, dal taschino egli estraeva un sigaro. E ora lo avvicinava alla bocca, ora lo scostava, ora lo faceva roteare come, con la spada, fanno gli schermidori. […] Il pubblico rimase colpito nel vedere tanti sigari allineati nello stesso taschino. E più colpito allorquando, alle prime parole, un primo sigaro, nervosamente impugnato e manovrato, incominciò ad eseguire spostamenti complessi e acrobatici. L’ilarità serpeggiò nell’aula, prima insinuante e prudente, poi si levò rumorosa. Quanto più i presenti si sforzavano di reprimere il riso, tanto più questo assumeva proporzioni imbarazzanti.
Il ministro […] reagì con estrema violenza:
-Signori, – gridò, – il tempo del carnevale democratico è finito. Il governo di Benito Mussolini non è un governo di paglia. La legge è la forza …
Egli trascurava di tener presente che parlava ad un’assemblea dominata da uno spirito prevalentemente ostile.
Un mormorio prolungato commentò il discorso.
-Istrione! – cantò una voce bianca nel settore riservato al pubblico.
Il ministro tacque. Il pubblico applaudì. Gran parte dei presenti si levarono in piedi. Ora ridevano tutti. Non rideva il prefetto. […]
Il ministro riprese a parlare. Il sigaro roteava di fronte all’uditorio e vertiginosamente passava dal taschino alla mano, dalla mano alla bocca. […]
-Signori, – riprese l’on. Lissia – la «marcia su Roma» non si tocca. Non per noi, ma per la grandezza della patria noi l’abbiamo fatta.
-Sorvolate su questo particolare, – interruppe un’altra voce.»31
La risata del pubblico è istintiva, spontanea, è innescata dal comportamento gigionesco del ministro, dalla sua pomposa retorica e dai suoi gesti. Egli si è esposto al dileggio del pubblico senza avvedersene. Il pubblico non si lascia incantare, sa che è insincero, e qualcuno ha l’ardire di rinfacciarglielo: «Istrione!». Il termine ferisce il ministro, lo zittisce, «istrione» è infatti un attore mediocre che conosce i trucchi dell’arte declamatoria, detto a un politico non è certo un complimento. Il pubblico non teme il Potere e manifesta la sua disapprovazione con una risata, una risata di scherno.
5. ESCALATION DI VIOLENZE SQUADRISTICHE
All’indomani della Marcia su Roma, i fascisti “della prima ora”, forti della complicità degli organi di polizia, si danno ad ogni sorta di violenza nei confronti degli oppositori. Un episodio tragicomico è quello dei fatti di Senorbì in cui la vittima designata è Emilio Lussu. In questa sequenza c’è una marcata alternanza di momenti grotteschi con altri drammatici, essi sono funzionali ad allentare la tensione. Dal punto di vista stilistico, si tratta di un racconto tra i più dinamici e carichi di suspense che occupano l’intero capitolo XV della Marcia. L’episodio ha un bel ritmo narrativo ed è a lieto fine in quanto non ci sono spargimenti di sangue.
Lussu scende alla stazione di Senorbì perché viene a sapere che i fascisti lo stanno ricercando, si ripara allora a casa di un amico. Una squadra di fascisti lo intercetta e chiede al padrone di casa di consegnargli il leader sardista, ma questi rifiuta e assieme ad altri familiari costituisce un piccolo plotone di difesa armato di tutto punto. I fascisti assediano per ore la casa, ma non osano attaccare. La situazione va in stallo. Finalmente la situazione si sblocca per iniziativa di Lussu il quale abbandona improvvisamente la barricata, esce di casa e si consegna ai fascisti. Lussu gioca la carta della sorpresa: «L’imprevisto è sempre elemento di successo- dirà Lussu, a teatro e nella vita»32. Il racconto cambia tono, perde la drammaticità iniziale, «Lo spettacolo prendeva una nuova forma»33, dirà il narratore, assume i consueti caratteri della commedia grottesca, molti dei presenti sono reduci, alcuni hanno combattuto nella sua stessa compagnia della Brigata Sassari, si mostrano concilianti e intavolano una discussione dai toni bonari:
«Che cosa volete? – domandai. – Vogliamo Nizza e la Savoia e la Dalmazia. La vittoria è stata una truffa, – mi rispose un giovanotto.
Io ritenni intempestivo aprire un dibattito sulle nostre frontiere.
• E prendetevele dunque, – risposi. – Io non ve lo impedisco.
• Vogliamo l ’acquedotto, – disse il più anziano fra i presenti.
E, siccome io non capivo, egli mi ricordò che il paese era sprovvisto d’acqua e, da cinquant’anni, attendeva l’acquedotto.
• Io ero ancora bambino quando ci promisero l’acquedotto, – mi disse. – Mi sono venuti i capelli bianchi ma l’acqua non è ancora arrivata.
E mi spiegò che il risentimento contro di me era a causa di quell’acquedotto. I capi fascisti avevano loro raccontato che io ero nemico dell’acquedotto.»34
La situazione è distesa ma poi si modifica di nuovo all’arrivo del notaio che gli ricorda la ragione per la quale è stato sequestrato: firmare l’atto di sconfessione del suo passato politico e di appoggio al fascismo. Lussu rifiuta e i fascisti ritornano aggressivi: «Due mi appoggiarono le canne di pistola sul petto. Io ero armato, ma che serve un’arma in queste circostanze?»35. Lussu rischia di essere giustiziato sul posto quand’ecco materializzarsi il classico deus ex machina nella veste dell’avvocato Paglietti, amico fraterno di Lussu, nonché amico dei fascisti, che sopraggiunge a bordo di un’auto di grossa cilindrata e lo porta in salvo.
Vi sono pagine in Marcia su Roma e dintorni in cui il tono umoristico scompare del tutto per lasciare spazio al dramma, ciò avviene quando il narratore illustra le violenze squadristiche che culmineranno nell’assassinio di gente inerme. Ora che Mussolini si è insediato al potere, e sia detto per inciso: senza colpo ferire36, quel nucleo di spostati, disoccupati, di scontenti si sente autorizzato a commettere ogni sorta di violenza, è il loro modus operandi per imporsi sugli avversari. Lussu, che solo qualche mese prima dello scatenarsi della violenza nell’aula di Montecitorio aveva dichiarato che i fascisti sardi «si sono conservati buoni galantuomini, che si accontentano di cantare “Giovinezza”, accompagnandosi con la chitarra, per le vie, senza far male a nessuno»37, ora dovrà ricredersi.
A Cagliari, il 27 novembre 1922, oltre trecento fascisti armati e in tenuta da combattimento organizzarono una cerimonia di inaugurazione dei gagliardetti. Le squadre delle camicie nere iniziano la sfilata per le vie davanti a una popolazione ostile che si rifiuta di salutare i gagliardetti fascisti. Dalle fila escono allora manganellatori a picchiarli, ne nascono scontri che culmineranno nell’uccisione di Efisio Melis, operaio ventisettenne, il quale, al passaggio della colonna fascista, si era rifiutato, di togliersi il cappello, un fascista uscì allora dal corteo e gli ficcò la lancia del suo gagliardetto nell’addome. Efisio Melis non poté difendersi perché aveva il figlioletto in braccio. Un delitto atroce, brutale, concepito nella presunzione della più assoluta impunità.
Il bilancio di questa domenica di sangue, è pesante: più di centocinquanta feriti, tutti antifascisti, colpiti da pugnale o da armi da fuoco, una decina i fascisti feriti; oltre mille, secondo Lussu, gli arrestati. Al calare delle tenebre, in città si odono solo le voci dei ”conquistatori” in camicia nera, raggianti per la vittoria ed ebbri di vino, generosamente offerto dalla Prefettura.
Lussu è scoraggiato, abbattuto, neppure in guerra ha attraversato momenti di tale afflizione:
«Io non ricordo di aver passato nella mia vita ore più torbide. Ho fatto tutta la guerra, ho partecipato a molti combattimenti e ho conosciuto momenti in cui lo spirito oscilla tra le ragioni e la follia. Ma il confronto non regge. La tragedia, spesso, non è nel battersi, ma nel non potersi battere.»38
Le violenze degli squadristi non si arrestano: il 3 dicembre, su chiamata degli spedizionieri in lotta contro i lavoratori portuali, una colonna fascista di 118 uomini, di cui 25 nazionalisti provenienti da Civitavecchia, sbarca a Terranova (l’odierna Olbia) per una spedizione punitiva. I fascisti mettono il paese a ferro e fuoco: invadono le case degli antifascisti, quasi tutti ex combattenti di guerra, e li trascinano nella piazza centrale costringendoli a bere olio di ricino, si tratta del cosiddetto «battesimo patriottico»; poi saccheggiano e devastano le sedi dei giornali, dei sindacati e dei partiti.
A Portoscuso, il 29 dicembre ’22, si verifica un altro fatto gravissimo: saranno assassinati a revolverate, uno dopo l’altro, i fratelli Salvatore e Luigi Fois, dirigenti dell’organizzazione politica e sindacale dei battellieri.
«Porto Scuso è un piccolo comune che vive esclusivamente di pesca e di traffico marittimo. I battellieri vi costituivano la maggiore organizzazione sindacale e politica. Tutti ex combattenti, avevano fatto la guerra in marina. Anch’essi non avevano simpatie per il fascismo. Ne erano capi i due fratelli Fois che avevano un forte ascendente sulla popolazione. […] Quando la colonna fascista entrò a Porto Scuso, i pescatori erano al largo, e molti battellieri nelle barche e sulle banchine, affaccendati in lavori di carico. Si avvidero dei fascisti solo quando questi arrivarono al porto. – Chi è Salvatore Fois? – gridò il capo fascista. – Presente, – rispose una voce dal battello, – Sono io, – disse il chiamato. E scese sulla banchina. In un attimo, fu attorniato dai fascisti. Con le pistole puntate, i più vicini gli intimarono di gridare «Viva il fascismo!» – Io non commetterò mai un atto di codardia, – rispose Fois. Una voce comandò il fuoco ed egli cadde fulminato. Alla detonazione dei colpi, i battellieri vicini, presi dal panico, si dettero alla fuga. Non fuggì il fratello, che stava con gli altri sulla banchina. Solo, inerme, con i pugni chiusi, si gettò minaccioso sui fascisti. Ma non poté fare che pochi passi. Lo accolse una seconda scarica e cadde anch’egli, accanto al fratello, crivellato di colpi.»39
Un’esecuzione fredda e spietata, altrettanto spietato l’epilogo: i fascisti vieteranno ai congiunti delle vittime la possibilità di riprendersi i corpi e piangerli in privato. Neppure il rabbioso Achille, davanti a Priamo supplice, arrivò a tanto:
«Ma non valsero neppure le minacce. Esse rimasero accanto ai loro cari. Immobili, a terra, anch’esse sembravano morte.
Al calar della sera, i fascisti consentirono la rimozione dei cadaveri. I due fratelli furono composti nella casa paterna, uno accanto all’altro, e la pietà delle donne li coperse di fiori. Il pianto si levò disperato attorno ai catafalchi e l’eco ne arrivò fino alle vie. I fascisti si considerarono offesi. Di nuovo intervennero tutti, con le pistole in mano. Gli estranei furono dispersi e alle donne fu vietato persino lo sfogo del pianto.»40
Un atto ignobile che rivela la totale mancanza di pietas in questi uomini, un atto disumano che colpì lo stesso pubblico ministero del processo, che fino ad allora si era mostrato indulgente verso gli imputati, e che indirizzò loro severe parole: «Quando il delitto assume queste forme, non si può sollevare più alcuna giustificazione politica. È un puro atto criminale, la lotta politica non c’entra.»41
Gli assassini dei fratelli Fois vennero condannati dal Tribunale di Cagliari, il loro capo De Filippi fu condannato a vent’anni di reclusione. Ma due anni dopo, l’on. Rocco, ministro di Grazia e Giustizia, giudicò la condanna un errore giudiziario e concesse loro la grazia.
Anche in questo caso i sardisti, per quanto ammirevole sia il loro coraggio, hanno dimostrato di non aver alcuna forza di contrasto ai fascisti. È una lotta impari, molto realisticamente Lussu deve ammettere che ogni resistenza è vana.
«Non c’era ombra di dubbio: tutta l’organizzazione dello Stato ubbidiva al fascismo. Ormai, Cagliari, la capitale dell’Isola, il centro del movimento democratico d’opposizione al fascismo, era in mano ai fascisti. […] Un nostro movimento offensivo era impossibile. La difensiva organizzata in grande forma, neppure, ché la polizia l’avrebbe stroncata fin dall’inizio.»42
Le violenze fasciste continuano in tutta la Sardegna, ma il popolo sardo non si rassegna, è indignato, considera i fascisti alla stregua di delinquenti: «Il fascismo non veniva considerato un partito politico ma una forma di brigantaggio protetto dallo Stato»43, dirà Lussu. La gente disprezzava il fascismo e Mussolini comincia a preoccuparsi, egli cerca il consenso popolare più assoluto, perciò, dopo il fallimento della trattativa col sottosegretario Lissia, riprende la strategia della negoziazione inviando un nuovo delegato munito di pieni poteri, il prefetto Gandolfo. Con l’abile e astuto Gandolfo si realizzerà in poco tempo quella «fusione» che avrebbe normalizzato il fascismo e anestetizzato il sardismo. Dal loro canto, i sardisti sono consapevoli che per contrastare il fascismo la via militare è impraticabile, le camicie grigie, formazione paramilitare nate per contrastare le violenze fasciste e guidate da Lussu, sono impotenti davanti alla forza d’urto delle camicie nere; pure la via parlamentare è inefficace perché troppo esigua e irrilevante è la loro formazione; non resta che avvicinarsi al fascismo nella speranza di condizionarlo dall’interno. Si entra così nella fase chiamata dagli storici «sardo-fascismo», quella in cui una larga parte del movimento sardista confluisce nel Partito nazionale fascista e rischia di scomparire dalla scena politica.
6. LA “FUSIONE” TRA SARDISTI E FASCISTI
Dopo la Marcia su Roma, i vertici del Pnf si convincono che è necessario sviluppare una manovra che non fosse solo repressiva, ma anche persuasiva. Mussolini intende mostrare il suo volto legalitario ed accelera sul processo di pacificazione, egli è consapevole che il cieco e ottuso squadrismo locale, quello della banda di Sarcinelli, un industriale minerario, danneggia il partito fascista; inoltre sa che il Partito sardo d’azione è un autentico movimento di combattenti, costituito per lo più dal proletariato rurale e dalla piccola borghesia proletarizzata, ceti sociali ai quali la guerra ha impresso una spinta rivendicativa e una coscienza politica dei propri diritti. Mussolini intende farseli alleati e perciò non può adoperare il pugno di ferro in una regione prodigatasi per la guerra e che ha pagato il prezzo più alto in termini di vittime. Mussolini deve pertanto isolare i fascisti sardi, quelli della «prima ora» contrari alla “fusione”. La strategia di Gandolfo è semplice: è necessario dividere l’avversario, isolare la corrente dei sardisti intransigenti (i sassaresi capeggiati da Bellieni e Fancello) e convogliare dalla loro parte il maggior numero di dirigenti e di iscritti del Psd’az. Ai sardisti il prefetto negoziatore Gandolfo offre autonomia e un vasto piano di opere pubbliche. Lussu sarà uno dei primi dirigenti sardisti ad essere contattato dal prefetto il quale lo blandisce pubblicamente definendolo «anima generosa ed esaltata». L’azione di Gandolfo è così rapida che sono colti di sorpresa sia i fascisti di Sorcinelli, che temono, non senza fondamento, di essere sciolti, sia i sardisti, che non avranno neppure il tempo di consultare la base con un referendum. Quando la trattativa prende ufficialmente avvio, il Direttorio regionale del PSdA, riunito a Macomer il 10 gennaio 1923, dà a Lussu pieno mandato per avviare le trattative con Gandolfo44, con la raccomandazione di salvare in ogni caso la dignità del partito.
Tuttavia, nel corso della negoziazione, Lussu non si dimostrerà all’altezza del ruolo affidatogli, in quanto assumerà una linea troppo conciliatrice e soprattutto gli sfugge il senso ultimo della volontà dell’avversario, che è quello di sciogliere il partito sardista e farlo confluire nel partito fascista. Come di fatto avvenne. Avrà pesato l’inesperienza, la forza dell’avversario (un generale plenipotenziario, furbo e intelligente, che conosce i meccanismi della politica), ma il suo incedere è stato incerto e ricco di contraddizioni, il che gli farà perdere temporaneamente il controllo del partito, a vantaggio degli “ortodossi” sassaresi di Bellieni e Fancello, contrari alla fusione, e getterà un’ombra sulla sua figura di “cavaliere rossomoro”», antifascista ”senza macchia e senza paura”.
L’intento di Mussolini è quello di assorbire il sardismo nei quadri del Pnf, distribuire un po’ di cariche importanti ai loro capi, e irretire la base con la liturgia fascista che sta già dando buoni frutti nel resto del Paese. Lussu è convinto di fare il contrario, pensa che entrando in massa nel fascio, sarebbero stati loro ad indirizzare la politica del governo nell’Isola. Egli vuole insomma trasformare dall’interno il fascismo, ma non ne è capace. Il risultato è che tutti, tranne una minoranza cioè Lussu stesso e pochi altri, abbandoneranno il partito sardista. Lussu, non avvedendosene, ha aperto per primo la strada della “fusione”: una responsabilità non insignificante. Il suo operato politico nella trattativa con Gandolfo registra dunque «un momento di esitazione», dirà con una certa indulgenza Addis Saba, una caduta che tuttavia «fu pienamente riscattata da tutto il resto della sua vita.»
Quello che la studiosa contesta a Lussu, e non ha tutti i torti, è il fatto che questa esperienza sia stata scientemente tenuta segreta per anni da lui stesso e dai suoi amici di partito.
«La disgregazione del partito sardo è dunque consumata […], a Lussu deve essere attribuita la sua parte, a nostro avviso non piccola, di responsabilità. […] Il torto di Lussu non sta tanto nell’aver partecipato alla trattativa, nella incertezza politica che ha sicuramente disorientato i suoi amici e soprattutto le masse del partito sardo, quanto nell’averla voluta nascondere anche a se stesso, sia nelle pagine di Marcia su Roma e dintorni, sia in altre testimonianze, per tutto il resto della sua esistenza.»45
Qual è stata la ragione di questa brusca svolta che lo ha portato da una posizione fieramente antifascista, pronunciata enfaticamente qualche mese prima in un articolo sul «Solco»46 in cui invitava i sardisti a rispondere manu militari ai loro attacchi, a una pro-fusione? Secondo Addis Saba, sono varie le ragioni che avevano spinto Lussu sulla strada del patteggiamento: innanzitutto, Lussu è stato tratto in inganno dalle ambiguità di Mussolini e del suo movimento ibrido, impastato di demagogia e irrazionalismo, a cui, ancora agli inizi del ’23, il duce non ha impresso del tutto la svolta reazionaria e antiproletaria che osserveremo da lì a poco. Un altro elemento è il fatto che Gandolfo stava avviando un serio piano di epurazione nei confronti dei fascisti “della prima ora”, quelli dell’odiatissimo Sorcinelli. I dirigenti sardisti apprezzano la mossa del prefetto di sciogliere il Fascio di Cagliari, s’illudono che il fascismo, quando non guidato da bande di assassini, può garantire convivenza pacifica oltre che attuare le riforme che i sardisti più hanno a cuore. Ma a pesare maggiormente nella scelta di Lussu è il timore che, rigettando l’accordo, si potesse scatenare una sanguinosa guerra civile all’interno dell’isola. Lussu non lo vuole, è per la pacificazione; e per un uomo, che ha concluso da meno di un lustro una guerra durissima sul Carso e sull’Altopiano di Asiago, è più che comprensibile. Ne è convinta Addis Saba:
«Ma sopra tutte queste cause […] un altro sentimento ancora, più forte ed angoscioso, spingeva Lussu, il capitano Lussu dal coraggio leggendario, a seguire la via del patteggiamento e della composizione pacifica delle discordie: egli considerava suo dovere di capo responsabile tentare tutte le strade pur di evitare l’orrore della strage civile; il disgusto per l’inutile dispendio di vite umane che gli veniva da quattro anni sofferti in guerra egli lo manifestava spesso nei suoi discorsi e nei suoi scritti.»47
7. 31 OTTOBRE 1926: ATTACCO A LUSSU
Conclusasi amaramente per i sardisti l’operazione “fusione”, le camicie nere egemonizzano l’isola ma «sotto il barbaro dominio fascista» (per citare il titolo dell’opuscolo clandestino di Sandro Pertini), un combattente di razza come Emilio Lussu non vuole soccombere, è tenacemente avverso ad ogni forma di autoritarismo, anche se è conscio che tutto questo ha un prezzo: divenire l’obiettivo numero uno delle violenze dei fascisti.
Ora che i suoi compagni sono passati dall’altra parte, sa che deve contare sulle proprie forze. «Non rimaneva che la resistenza individuale»48. Egli sarà pertanto fatto oggetto di varie aggressioni che culmineranno nell’assalto alla sua casa-studio, a Cagliari, il 31 ottobre 1926.
È il giorno del fallito attentato a Mussolini a Bologna, attribuito a un ragazzo di sedici anni, Anteo Zamboni, ma su cui non è stata mai fatta piena luce, e per rappresaglia i fascisti di tutta Italia scatenano la caccia a tutti gli antifascisti. In Sardegna, il bersaglio principale è ancora lui, Emilio Lussu. Per la ricostruzione storica della vicenda, ci si può basare, oltre che sugli eccellenti lavori di Pirastu49, di Norfo50 e Fiori51, sulle versioni dello stesso Lussu fatte in Marcia su Roma e dintorni e ne La catena.
La notizia del tentativo di uccisione di Mussolini giunge a Cagliari tre ore dopo i fatti. Allo squillo di una tromba che risuona in ogni rione, tutti gli squadristi vengono mobilitati e si radunano nella sede del circolo giovanile fascista agli ordini dell’on. Giovanni Cao di San Marco, un vecchio amico di Lussu passato al fascio, e muovono in direzione della casa-studio di Lussu.
«In quell’occasione, e precisamente la notte del 31 ottobre, io fui assalito in casa mia, a Cagliari. L’aggressione fu minutamente organizzata nella sede del fascio, consapevole la prefettura. La preparazione durò oltre un’ora, tanto che io ebbi il tempo e la possibilità di essere dettagliatamente informato di tutto. Rimasi in casa per dare un esempio di incitamento alla resistenza. La banda era di un migliaio di fascisti al comando dell’on. Giovanni Cao, conte di San Marco, deputato al Parlamento, capo dei fascisti locali.»52
Lussu capisce che quei fascisti urlanti stanno preparando una rappresaglia. Prudenza vorrebbe che egli si allontanasse rapidamente dalla sua abitazione per nascondersi da qualche parte, ma è un’ipotesi che non prende minimamente in considerazione. Torna a casa, congeda la signora delle pulizie, ridiscende in strada per cenare, da solo, in una trattoria, poi riprende la strada di casa. Sono circa le 22h30. Ci sono pochissimi passanti. Uno di questi è un giovane diciassettenne, Giuseppe Dessì53, futuro scrittore.
«Un giorno, a tarda sera […] risalivo la via Manno deserta e male illuminata […]. Ero a metà della salita e nella strada vidi un uomo solo che mi parve di riconoscere. Era lui, Emilio Lussu, uscito per la solita passeggiata serale e ora, rientrando a casa, saliva con me verso piazza Martiri. Dietro a lui, a una cinquantina di passi, i rumori che avevo udito prima si erano concretati in una marea di gente armata di bastoni, di corde, di catene: i fascisti guidati dai noti teppisti che volevano assalire in forze un solo uomo per abbatterlo a randellate o a colpi di pugnale. C’erano anche donne urlanti e scarmigliate. Nel clamore confuso, in quella marea di gente […] si distinguevano i soliti canti di violenza e di morte […] L’uomo di Armungia, solo davanti alla folla, camminava senza affrettarsi, col suo passo di montanaro. Ogni tanto si fermava, si voltava, guardava la folla. […] Nascosto nel vano di un portone io tremavo senza ritegno. Ero poco più che un bambino e per me Lussu rappresentava tutto ciò che c’era al mondo di nobile ed eroico. […] Quando lui si muoveva per riprendere la salita, i fascisti ricominciavano a urlare le loro canzoni e i loro insulti. Ma nessuno osava avvicinarsi. Lo vidi molte volte fermarsi così e riprendere allo stesso modo la salita. Girò attorno all’obelisco, entrò in casa chiudendosi alle spalle il portone. Solo allora la folla invase la piazza. Io mi ero calmato, in certo senso rassicurato. […] Raggiunsi anch’io la piazza e mi nascosi in un altro portone vicino alla libreria “Il Nuraghe”. Per un attimo le luci si accesero dietro le persiane dello studio. I fascisti ripresero a gridare: «A morte! Lussu!», mentre alcuni tentavano la scalata del primo piano per entrare in casa dalle porte-finestre. A un tratto udii lo schiocco secco di un colpo di pistola e vidi un uomo piroettare in aria e cadere. Ci fu un fuggi fuggi generale, la piazza si vuotò all’istante. Rimasero sul terreno il morto e uno dei capi, che se l’era fatta addosso, solo perché credeva, erroneamente, di essere stato colpito.»54
Questo il racconto di Dessì, vediamo la ricostruzione fatta da Lussu. Rientrato in casa, questi prepara la difesa e trasforma il suo appartamento in una sorta di trincea
«Ero solo nella casa vuota. Incominciai a preparare la difesa. Un fucile da caccia, due pistole da guerra, munizioni sufficienti. Due mazze ferrate dell’esercito austriaco, trofei di guerra, pendevano al muro.»55
Spegne la luce e attraverso le assi delle persiane, si mette ad osservare cosa avviene nella piazza sottostante, gli squadristi sono armati di bastoni, di corde, di catene. I testimoni riferiscono di grida frenetiche e minacce di morte:
«Il grido lanciato dagli assalitori, e da quelli che insistentemente tentano di abbattere la porta di ingresso all’appartamento, è uniforme: “A morte Lussu”, “alla forca”, “lasciateci entrare” “è ora di finirla” “apri vigliacco”, “mascalzone”, “ti facciamo la pelle”, ti vogliamo bruciare” (deposizione dei coniugi Aymerich, Serpi, Pinna Fedele, Fumu Dr. Giacomo, Nobile Gennaro., ecc.).»56
È facile immaginare l’effetto che questa canea urlante ha prodotto sull’uomo.
Le forze dell’ordine presenti nella piazza ammontavano soltanto a una quindicina di carabinieri, agli ordini di tre ufficiali, e a pochi agenti di polizia, comandati dal questore e da un commissario.
Gli squadristi si divisero in tre gruppi: uno rimase davanti al portone presidiato dai carabinieri; un altro iniziò la scalata ai balconi che davano sulla piazza; un terzo gruppo andò nella parte retrostante dell’edificio e tentò di penetrare in casa attraverso il cortile. Il gruppo che era rimasto sulla piazza Martiri incitava i fascisti più arditi che si accingevano a scalare i balconi al primo piano. Un ferroviere ventiduenne, Battista Porrà, frequentatore delle palestre ginniche, riesce a raggiungere la ringhiera del balcone, ma non appena mise il piede sul terrazzo, Lussu senza alcuna esitazione sparò un unico colpo con la sua Beretta d’ordinanza.
«I clamori della piazza erano demoniaci. La massa incitava gli assalitori delle finestre con tonalità da uragano. Un balcone fu raggiunto. Feci fuoco contro il primo che mi si presentò dinanzi. Il disgraziato precipitò giù. Il terrore invase la folla. In un baleno, la piazza rimase deserta. […] Più volte il conte Cao di San Marco tentò di riordinare la colonna e ricondurla all’assalto. Invano. La mia casa sembrava incantata. Il capo della «Squadra Disperata», il signor Nurchis, che il lettore già conosce, si comportò poco romanamente. Al solo rumore dello sparo, svenne, credendosi ucciso, e fu dato per morto sul campo. Era un veterano del manganello e dell’olio di ricino e godeva fama di audacia sanguinaria.»57
Se da un lato, la battuta ironica destinata al Nurchis fa sorridere, dall’altro, l’immagine del giovane fascista che piroetta nel vuoto e cade morto al suolo, è agghiacciante.
Tuttavia quel balzo sul balcone del Porrà, quella violazione di uno spazio privato era il segno inequivocabile che era pronto ad attaccare e fare violenza sulla vittima designata e perciò fu legittima la reazione di Lussu. Sono momenti in cui non c’è spazio per le ragioni morali, un uomo come Lussu che conosce l’arte della guerra, non pensa, agisce. C’è chi, come Cesare Pintus, vi ha letto in questo gesto ragioni più profonde che vanno al di là del puro atto di autodifesa:
«Non fummo molti, in Sardegna, dopo l’episodio del 31 ottobre 1926, a rimanergli fedeli; fummo pochissimi a solidarizzare apertamente con lui e a vantarci della sua amicizia: a comprendere, insomma, […] che Emilio Lussu difendendo la propria vita e colpendo il fascista che tentava di assassinarlo, aveva difeso l’onore e la dignità di tutti gli uomini liberi della Sardegna, e che il suo gesto vindice trascendeva le ragioni di difesa personale per innalzarsi a valore di simbolo, a esprimere la comune nostra protesta contro la tirannide, la nostra volontà di resistere, il nostro impegno di prepararci alla riscossa.»58
Lussu viene arrestato, e dopo la mezzanotte, a trentasei anni, varca i cancelli del carcere di Buoncammino di Cagliari, con l’accusa di omicidio volontario.
In galera, Lussu comincia ad ammalarsi, ha una malattia seria, una pleurite, che si aggraverà durante la detenzione al confino.
L’istruttoria e il processo durano un anno e, fortunatamente per Lussu, viene giudicato da quella parte della magistratura che non è ancora asservita al fascio e conduce l’istruttoria con imparzialità respingendo ogni ingerenza, che non mancarono, da parte del potere politico.
Il 22 ottobre 1927, fu emessa la seguente sentenza esecutiva:
«non luogo a procedere per essere l’accusato non punibile avendo commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di respingere gli autori della scalata alla propria casa di abitazione in tempo di notte.»59
I giudici decretarono l’immediata scarcerazione ma Lussu non fu liberato perché il prefetto diede l’ordine al direttore del carcere di trattenerlo per ragioni di ordine politico. Dopo dieci giorni, gli fu notificato per iscritto
«che la Commissione provinciale per il Confino mi aveva condannato al domicilio coatto per cinque anni, come «individuo pericoloso per il Regime, avversario irriducibile, dannoso per l’ordine pubblico». La Commissione ebbe cura di precisare, in calce al foglio, che la sua decisione era stata presa ad unanimità di voti. Questo generale consenso mi fu motivo di speciale soddisfazione.»60
8. CONFINO E FUGA DA LIPARI
Mussolini, evidentemente frustrato per l’assoluzione, ricorse al provvedimento di polizia del domicilio coatto per impedire che Lussu tornasse libero. Lussu fu destinato in un’isola di confino «nell’interesse nazionale per motivi di pubblica sicurezza».
Il 16 novembre 1927 gli fu comunicata l’assegnazione al confino di Lipari; vi sbarcherà tre giorni dopo. Il suo primo pensiero appena mette piede sull’isola fu: «Di qui bisogna uscire presto.» 61 Le condizioni di vita al confino sono durissime, la bella isola del Mediterraneo in fondo non è che un carcere a cielo aperto, come sostiene Carlo Rosselli, che, proveniente da Ustica, giungerà a Lipari a fine dicembre 1927.
«Il confino è una grande cella senza muri, tutta cielo e mare. Funzionano da muri le pattuglie dei militi. Muri di carne e ossa, non di calce e di pietra.»62
A Lipari, Lussu ritrova i vecchi amici della lotta politica che lo accolgono calorosamente e gli fanno notare che è seguito da agenti in borghese, è una misura eccezionale riservata solamente a lui, a Torrigiani, il Gran Maestro della Massoneria, e, in seguito, a Carlo Rosselli.
Il legame che si instaura tra Rosselli e Lussu, ma anche con altri deportati, oltre a letture di un certo tipo, amplieranno la cultura politica di Lussu e lo faranno maturare ideologicamente. L’antifascismo ad esempio, da pulsione istintiva, diviene un elemento centrale della sua personalità che non verrà mai meno.
Intanto però la malattia ai polmoni, contratta nell’anno di carcere a Cagliari, mina la sua salute. Per tutto il 1928 la salute di Lussu è critica tanto che lo stesso direttore della colonia penale richiede, senza successo, al ministero dell’Interno di trasferirlo in un sanatorio. Sua madre ed alcuni parenti presero allora la decisione di scrivere a Mussolini implorandolo di concedere al detenuto la possibilità di cure sanatoriali. Mussolini ignorò tali suppliche. Queste iniziative irritarono fortemente Lussu che scrisse poche righe al veleno ai parenti «Considero mio nemico personale chiunque voglia interferire nella mia posizione di confinato politico per provocare qualunque provvedimento di clemenza.»63
Lussu e Rosselli condivideranno subito il sogno della fuga da Lipari, considerata dal regime un’isola inviolabile. In effetti, con l’arrivo di Rosselli a Lipari i piani di fuga divennero meno velleitari perché il professore fiorentino era già passato per un’esperienza del genere con l’espatrio di Turati, perché aveva le conoscenze appropriate e soprattutto perché aveva i soldi necessari a finanziare l’operazione. I due confinati hanno l’idea fissa della fuga, ne parlano continuamente; soffrono nella reclusione, sono due uomini d’azione:
«Abbiamo poi sempre parlato di fuga, fino alla noia, fino alla reciproca esasperazione. […] Lipari va bene per pensionati politici, non per uomini che intendono battersi, lavorare. Le ragioni che ci hanno condotto qui sono già scontate, dimenticate. Abbiamo sete di nuovi reati, sete d’azione.»64
Il primo atto è la costituzione del “club dell’evasione”, come lo chiama Lussu. Vi fanno parte Gioacchino Dolci, Fausto Nitti, Emilio Lussu e Carlo Rosselli. Fondamentale sarà il ruolo del gruppo esterno, una “unità di crisi” che avrebbe guidato le complicate operazioni dell’evasione: la cellula si trova a Parigi, e vi fanno parte Alberto Tarchiani, giornalista fuoriuscito, Marion Cave, la moglie inglese di Rosselli, e Gaetano Salvemini che si sposta tra Parigi e Londra. Il piano era molto semplice: i confinati avrebbero dovuto raggiungere la spiaggia, entrare in mare tra gli scogli e nuotare a largo verso la barca dei “liberatori”, un’imbarcazione potente in grado di fare una traversata nel Mediterraneo, che sarebbe poi partita a tutta velocità. Dopo una prima spedizione, fallita perché il motore del motoscafo “Sigma IV” si guasta, il gruppo di Parigi organizza una seconda spedizione dopo aver acquistato un nuovo motoscafo, il “Dream V”. È un motoscafo con motori potenti, più veloce di quelli polizieschi. Il 24 giugno 1929, il “Dream V” parte per Tunisi da Nizza, e ai primi di luglio approda in Tunisia. Dalla costa africana il motoscafo dovrà raggiungere Lipari. La difficoltà maggiore è comunicare con i fuggitivi, ma attraverso dei telegrammi cifrati tra Lipari, Londra, la Francia e Tunisi, ci si riesce ad accordare sulle date e sul luogo: gli appuntamenti sono fissati per il 26, 27, 28 luglio (questo lasso di tempo serve a coprire eventuali contrattempi), presso la banchina di San Giuseppe, tra le 20,30 e le 21,15. La sera del 27 luglio, i «liberatori» giungono nel punto stabilito e prelevano Lussu, Rosselli e Fausto Nitti. L’evasione è riuscita, sulla barca c’è grande euforia. Il “Dream V” continua la sua corsa verso la Tunisia e a mezzogiorno del giorno dopo, il 28 luglio 1929, l’equipaggio avvista l’Africa e tre ore dopo sbarcano a La Galite, un isolotto a largo della costa occidentale della Tunisia. Qualche giorno dopo, in Tunisia, Dolci, Tarchiani e i tre fuggitivi, s’imbarcano per Marsiglia sul postale delle ore 20, mentre Italo Oxilia, il pilota che ha condotto il motoscafo, e Paul Vonin, un motorista francese, resteranno in Tunisia per trasferire il “Dream V” in Francia con tutta calma. Il 1° agosto, all’alba, gli “evasi” sbarcano al porto di Marsiglia, raggiungono la stazione ferroviaria, prendono un treno, affollatissimo, e in una decina d’ore saranno a Parigi. In un bistrot parigino della gare de Lyon, trovano ad attenderli Filippo Turati, Alberto Cianca e Gaetano Salvemini, felicissimi per la riuscita dell’impresa. I fuggitivi sono accolti da manifestazioni di simpatia dagli esuli antifascisti e dagli esponenti della vita politica e culturale francese. Decine di giornalisti europei ed americani assediano i tre fuggitivi per ricostruire la cronaca di un’impresa che ha beffato l’apparato di sicurezza di Mussolini.
L’evasione di Lipari segna per il regime una doppia sconfitta, politica e militare: da quella fuga il fascismo ha ricevuto un colpo all’immagine di cui porterà a lungo il segno. Scriverà Rosselli: «Più che la gioia per la liberazione vale in quest’ora il fazioso compiacimento per la beffa giuocata. La natura dell’uomo è maligna.»65
L’evasione di Lipari pose all’ordine del giorno dei governi democratici e della stampa internazionale la situazione politica italiana. Sui giornali esteri si riprese a parlare della dittatura fascista e della repressione degli oppositori politici. Ma è soprattutto nell’ambiente degli esuli che l’evasione ebbe maggiori ripercussioni: i fuggitivi approfittarono dell’entusiasmo suscitato dalla loro fuga per rianimare l’atmosfera stagnante, passiva e rassegnata che dominava la cerchia dei fuorusciti. Lussu lo dice chiaramente:
«Il raid di Lipari fu una vera impresa di guerra, in cui l’audacia di pochi uomini infranse lo sbarramento di un’isola di deportazione e, con rapidità fulminea, trasse in salvo dei condannati politici. […] ma, in fondo, non fu che una fuga. […] Eppure, quanta ripercussione non ebbe, in Italia, e fra gli italiani all’estero, questa piccola azione! Segnò tutta una ripresa di attività nella lotta clandestina, un accorrere di nuovi gregari – intellettuali, operai e contadini – un formarsi improvviso di entusiasmi e di speranze generali.»66
Per Emilio Lussu comincia una nuova fase della sua vita, quella dell’esule in Francia: nei primi anni è completamente assorbito dall’attività politica, sarà uno dei fondatori assieme a Carlo Rosselli, Fausto Francesco Nitti, Gaetano Salvemini, Alberto Tarchiani, Alberto Cianca, Cipriano Facchinetti e altri, del movimento «Giustizia e Libertà», costituito ufficialmente a Parigi nell’ottobre del 1929, destinato a divenire una delle più attive formazioni di azione antifascista. Rimetterà piede in Italia solamente nel ’44, per impegnarsi nella Resistenza.
Note
- Emilio Lussu non è stato un autore prolifico, eccetto una gran mole di articoli politici, ha scritto: La Catena [1929], Marcia su Roma e dintorni [1933], il saggio Teoria dell’insurrezione [1936], Un anno sull’altipiano [1938], e il racconto lungo Il cinghiale del diavolo [1938].
- Luigi Russo, Emilio Lussu scrittore, in “Belfagor”, vol. 1 n. 1, anno 1, 1946, p. 96.
- Manlio Brigaglia, La Marcia su Roma e i suoi dintorni, in Orrù, E., Rudas, N., [a cura di], «L’uomo dell’altipiano», Cagliari, Tema, 2003, p.45.
- Emilio Lussu, Marcia su Roma e dintorni, Torino, Einaudi, 2014 [1^ ed. 1933], p. 9.
- Ibidem.
- Scritto in poche settimane, La Catena è un libro autobiografico, come del resto tutti gli altri, che abbraccia un arco di tempo molto breve, perché va dall’attentato a Mussolini nell’autunno del 1926 da parte di Gino Lucetti all’arrivo a Parigi il 1° agosto del 1929 degli evasi dal confino di Lipari. Pur non avendo la qualità letteraria dei successivi due romanzi (Marcia su Roma e dintorni e Un anno sull’altipiano), il libro avrà il merito di ridestare dal torpore e dalla passività in cui erano caduti gli esuli antifascisti in terra di Francia.
- Emilio Lussu, La Catena, [a cura] di Mimmo Franzinelli, Milano, Baldini & Castoldi, 1997 [1^ ed. 1929], p. 83.
- Si legga ad esempio questo stralcio tratto dal saggio Teoria dell’insurrezione: «Chi ha dato anima e vita al fascismo non è la piccola borghesia ma la grande borghesia industriale, bancaria e agraria, verso la quale, già da tempo, era attratta la media borghesia italiana. Nelle regioni ove mancava il grande capitale, il fascismo ha languito, retorico e inoperoso, minoranza infima e schernita. Solo dopo l’invasione delle terre e delle fabbriche, il fascismo ha avuto, per forza motrice, il panico delle grandi classi possidenti. Sulle loro spalle, Mussolini ha conquistato il potere. Agrari, commercianti, banchieri e industriali, hanno finanziato i fasci di combattimento, le squadre d’azione e l’organizzazione delle spedizioni punitive contro il proletariato.» Emilio Lussu, Teoria dell’insurrezione, Camerano (AN)- Gwynplaine edizioni, 2008 [1^ ed. 1936], pp. 84-85.
- Luigi Russo, Emilio Lussu scrittore, cit., p. 96.
- Simonetta Salvestroni, Emilio Lussu scrittore, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1974, p. 26.
- E. Lussu, Marcia su Roma e dintorni, cit., p. 61.
- Ivi, p. 49.
- Antonio Tabucchi, Préface a La Marche sur Rome et autres lieux, Paris, Editions du Félin et Arte Editions, 2002, p. 11.
- E. Lussu, Marcia su Roma e dintorni, cit., pp. 63-65.
- L. Russo, Emilio Lussu scrittore, cit., p. 96.
- Piero Gobetti, Elogio della ghigliottina, in “La Rivoluzione liberale”, a.1, n. 34, 23 novembre 1922.
- E. Lussu, Marcia su Roma e dintorni, cit., p. 103.
- Ivi, p. 104.
- S. Salvestroni, Emilio Lussu scrittore, cit., p. 28.
- E. Lussu, Marcia su Roma e dintorni, cit., p. 138 [in corsivo nel testo].
- Eugenio Montale, Cronache di una disfatta, in “Auto da fé”, Milano, Il Saggiatore, 1966, p. 31.
- Benedetto Croce, Marcia su Roma e dintorni, in “Risorgimento Liberale”, 27 maggio 1945, ora in Benedetto Croce, Scritti e discorsi politici, vol. II, Bari, 1963.
- L. Russo, Emilio Lussu, cit., p. 101.
- S. Salvestroni, Emilio Lussu scrittore, cit., pp.9-10.
- Paola Sanna, Emilio Lussu scrittore, Padova, Liviana, 1965, p. 22.
- Giovanni De Luna, Introduzione a “Marcia su Roma e dintorni” di Emilio Lussu, Torino, Einaudi, 2014, p.3.
- Franco Antonicelli, Guerra sull’Altipiano con la Brigata Sassari, in “La Stampa”, Torino, a. 98, n. 249, 30 ottobre 1964.
- E. Lussu, Marcia su Roma e dintorni, cit., pp. 88-89.
- Ivi, p. 184.
- Mimmo Bua, L’insostenibile attualità dell’ironia, in «L’uomo dell’altipiano», cit., pp.50 -55.
- E. Lussu, Marcia su Roma e dintorni, cit., pp. 69- 71.
- Ivi, p. 122.
- Ibidem.
- Ivi, p. 123.
- Ivi, p. 124.
- Non è campata in aria l’opinione dello scrittore Antonio Tabucchi nel ritenere che la minacciata marcia su Roma non fu affatto un sollevamento armato che rovesciò le istituzioni democratiche dell’epoca, ma semplicemente una dolce installazione nel Parlamento italiano, accettato e favorito dalla connivenza del partito liberale di Giolitti e soprattutto dalla complicità del re Vittorio Emanuele III. A. Tabucchi, Préface a ”La Marche sur Rome et autres lieux”, cit., p. 10.
- Atti parlamentari,XXVI Legislatura, 19 giugno 1922, p. 6417, in Camera dei Deputati, Portale storico, visto il 2 settembre 2021.
- E. Lussu, Marcia su Roma e dintorni, cit., p. 98.
- Ivi, pp.127-128.
- Ivi, p. 129.
- Ivi, p. 130.
- Ivi, p. 119.
- Ivi, p. 133.
- La storia delle trattative è stata ricostruita con grande attenzione da due ricerche che ancora oggi mantengono un’assoluta centralità: Dopoguerra e fascismo in Sardegna di Salvatore Sechi e quella di Marina Addis Saba, Emilio Lussu. Dal 1° dopoguerra al fascismo (1919-1926).
- Marina Addis Saba, Emilio Lussu. Dal primo dopoguerra al fascismo (1919-1926), Cagliari, Edes, 1977, p. 140.
- E. Lussu, Moderazione? in “Il Solco”, 12-13 settembre 1922, in Gian Giacomo Ortu, Emilio Lussu. Tutte le opere, Aìsara, Cagliari 2008, pp. 66-67.
- M. Addis Saba, Emilio Lussu. Dal primo dopoguerra al fascismo (1919-1926), cit., pp. 124-125.
- E. Lussu, Marcia su Roma e dintorni, cit., p.119.
- Salvatore Pirastu, A morte Lussu!, Cagliari, Anppia, 1995.
- Sandro Norfo, Arresto, detenzione e processo di Emilio Lussu, in “L’uomo dell’Altipiano”, E. Orrù, N. Rudas [a cura di], cit., p. 269.
- Giuseppe Fiori, Il cavaliere dei Rossomori, cit.
- E. Lussu, La catena, cit., p. 20.
- Giuseppe Dessì, (1909-1977), scrittore, premio Strega 1962 con Paese d’ombre e premio Bagutta 1962 con Il disertore. Si formò alla scuola di Attilio Momigliano e Luigi Russo.
- G. Dessì, La guerra insegnò a Lussu a lottare per la Sardegna, “La Nuova Sardegna”, 8 aprile 1975, in “L’uomo dell’Altipiano”, E. Orrù, N. Rudas [a cura di], cit., p. 542.
- E. Lussu, Marcia su Roma e dintorni, cit., p. 170.
- S. Pirastu, A morte Lussu!, cit., p. 28.
- E. Lussu, Marcia su Roma e dintorni, cit., p. 172.
- Cesare Pintus, Saluto a Emilio Lussu, in E. Orrù- N. Rudas, “L’uomo dell’altipiano”, cit., p. 512.
- S. Norfo, Arresto, detenzione e processo di Emilio Lussu, in “L’uomo dell’Altipiano”, E. Orrù, N. Rudas, cit., p. 268.
- E. Lussu, La catena, cit., p. 51.
- Ivi, p.60.
- Luca Di Vito- Michele Gialdroni, Lipari 1929. Fuga dal confino, Bari, Laterza, 2009, p. 65.
- Mimmo Franzinelli, Postfazione a LUSSU, Emilio, “La Catena”, cit., p. 106.
- Carlo Rosselli, Fuga in quattro tempi, secondo tempo, in «Scritti politici e autobiografici», Napoli, Polis editrice, 1944.
- Ivi, p. 317.
- DI VITO, L.- GIALDRONI, M., Lipari 1929. Fuga dal confino, op. cit., p. 358.
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