È stato un passaggio
Emanuela Liverani, È stato un passaggio, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 52, no. 16, dicembre 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.9669
1. IL CALCIO SECONDO KEN LOACH
Quando a Eric Bishop appare Éric Cantona non è precisamente un evento mistico ma non è da escludere che per Eric lo sia, è un supporter del Manchester United e per i supporter dello United Cantona significa molto, è The King.
Eric ha il poster del suo idolo sul muro, come fanno i ragazzi in tutto il mondo, ma Eric non è un ragazzo, ha figli, una ex moglie, è vedovo e fa il postino.
Solo che Eric non ha il poster di Cantona perché è rimasto ragazzo, per Eric il suo eroe calcistico significa molto di più, per questo mentre parla dei suoi problemi con l’immagine del Re, e chissà quante volte lo fa, egli si materializza e gli parla.
L’apparizione di Cantona consente a Eric di sciogliere il suo conflitto interiore, individuare ciò di cui ha bisogno per dipanare il caos e trovare la forza di uscire dalla sua solitudine.
Vale la pena di trascrivere questa parte di dialogo tratto dalla versione italiana del film Il mio amico Éric
«Eric: Oh è incredibile come cosa, vero? Sessantamila persone che ti guardano, applaudono, gridano il tuo nome
Cantona: Fa paura
Eric: Tu avevi paura?
Cantona: Sì
Eric: Ma quando mai…
Cantona: Paura che potesse finire. Mi piaceva sorprendere gli spettatori. Ogni volta in ogni partita io cercavo di fargli un regalo. Qualche volta non mi riusciva ma quando succedeva…
Eric: Si rimaneva dentro per sempre
Cantona: Sì. Ma prima dovevo riuscire a sorprendere me stesso, accettare il rischio. Sai dipende dai limiti che scegli di porti. Giochi sul sicuro? Nessun rischio. Capito?
Eric: Ti ricordi il Sunderland? Ah che cosa meravigliosa. Magnifique! Una specie di balletto, una danza, mi ha fatto tirare avanti per mesi quel gol! Una cosa che ti riempie così tanto che per qualche ora riesci a scordare la tua vita di merda. Le partite a me mancano molto, sono l’unico posto dove puoi lasciarti andare senza paura che vengano ad arrestarti. Fai il matto, ridi…
Cantona: È vero. Piangi anche
Eric: Sì
Cantona: E vedi gli inglesi che si baciano
Eric: In quale altro posto puoi stare per ore a cantare a squarciagola con i tuoi amici? È tutto questo che mi manca, saranno almeno dieci anni che non vado a una partita. Allora, il momento più bello di tutti?
Cantona: Non è stato un gol
Eric: È per forza un gol
Cantona: No
Eric: Sì! Ultimo minuto, finale di Coppa d’Inghilterra contro il Liverpool, Beckham tira un calcio d’angolo e il portiere esce e respinge di pugno, la palla rimbalza verso di te, preso al volo e BAM! Dritto in rete!
Cantona: No
Eric: Wimbledon! Allora Wimbledon, corri verso la palla, la palla arriva, tu valuti in un attimo la traiettoria, l’angolazione, la rotazione, sai dove soffia il vento, la sua velocità, tutto! Allunghi il piede, la stoppi di sinistro, due rimbalzi, due passi e tiri un gran destro! Il tiro più bello, più perfetto del mondo! Certo che è un gol! Deve essere un gol!
Cantona: È stato un passaggio
Eric: Un passaggio?
Cantona: Sì
Eric: Ah mio dio…A Irwin! Contro gli Spurs, sì! Splendido
Cantona: Sapevo quanto era bravo, sia di sinistro che di destro. Era veloce come un lampo, io ho toccato d’esterno, tutti sorpresi. Lui ha tirato in corsa e il mio cuore ha preso il volo
Eric: Un regalo
Cantona: Sì, quasi un’offerta, al grande dio del calcio
Eric: E se avesse sbagliato?
Cantona: Devi fidarti dei tuoi compagni, in ogni caso, altrimenti tutto è perduto.1»
Essendo Cantona frutto della sua immaginazione, Eric inconsapevolmente sceglie nella sua esperienza l’unica figura non reale che possa rispondere alla sua richiesta d’aiuto, qualcuno che lo riconduca a quella comunità con cui ha condiviso momenti di libertà indimenticabili. Ritrovati i suoi amici e consolidatosi il legame con loro, Cantona conclude il suo compito e scompare dalla vita di Eric.
Nato da un’idea di Cantona, la sceneggiatura del film è di Paul Laverty, collaboratore decennale del regista, Ken Loach.
Cineasta il cui lavoro è da sempre dedicato a uomini e donne della working class, Loach da ragazzo supporta il Nuneaton Borough, la squadra della cittadina in cui è nato, trasferitosi in età adulta a Londra è la volta del Fulham, da decenni la sua squadra è quella della città in cui vive, il Bath City, per la quale nel 2015 lancia una raccolta fondi per mantenere la proprietà del club, fondato nel 1889, in città. Attualmente la squadra è in National League South, una delle numerose divisioni del calcio inglese.
A ispirare Loach è un precedente caso di azionariato popolare, un esempio che dimostra quanto sia stretto il legame tra squadra e città di origine, la sua storia e la sua cultura.
Fondato nel 2005 da alcuni supporter del Manchester United come reazione all’acquisto del club da parte dell’americano Malcom Glazer, gli ideatori dello United of Manchester si prefiggono un obiettivo maggiore rispetto all’atto di protesta iniziale, ossia creare una squadra «accessibile a tutta la comunità della Greater Manchester, dedicata a incoraggiare la partecipazione dei giovani, sia che si tratti di giocatori o di tifosi, e di fornire calcio a prezzi accessibili per tutti.2» Da allora le attività della squadra si ampliano, si trasformano in impegno sociale, costruiscono uno stadio che rispecchi nell’organizzazione i loro principi. Ovviamente rimangono tifosi del Manchester United, non si possono recidere certi legami, e così si presentano in Il mio amico Éric per interpretare sé stessi, alcuni di loro sono nel gruppo che irrompe nella villa del boss di una gang criminale per salvare Ryan, il figlio di Eric, indossando la maschera di Cantona.
Un particolare, anche Cantona indossa la maschera di Cantona.
Per capire i motivi che fanno del calcio un gioco popolare e perché è lo sport per eccellenza della classe lavoratrice, basterebbe guardare i film di Loach. Tranne poche eccezioni in cui è citato solo un fatto o una battuta che vi rimanda, il calcio nel suo cinema si intreccia senza soluzione di continuità con la vita della working class.
Alcuni esempi, in attesa che si apra una caccia alle citazioni anche per Loach e non solo per Quentin Tarantino, che pure merita ampiamente.
In Kes(1969) l’insegnante di Educazione Fisica di Billy, il ragazzo protagonista, nelle partite di calcio con i ragazzi sfoga la propria frustrazione intrepretando il suo idolo, Bobby Charlton, e trasformando il calcio in uno dei molti atti coercitivi da cui Billy cerca di fuggire; in My Name is Joe (1998) Joe, ex alcolizzato e disoccupato di Glasgow, allena una squadra di ragazzi della parte più povera ed emarginata della città per cercare di recuperarli e tenerli lontani dalla strada; esempio di semplice battuta lo si trova in Piovono Pietre (Raning Stones, 1993) in cui un gruppo di disoccupati per alzare qualche sterlina ruba il prato verde di un club conservatore – «Here we are, Kevin Keegan. You get over here and take this corner… Hurry up.3»
Nel 1968 va in onda sulla BBC The Golden Vision, un docu drama incentrato su un gruppo di supporter dell’Everton, l’altra squadra di Liverpool. Il titolo fa riferimento al nickname di Alex Young, attaccante del club, ma allo stesso tempo è perfetto per descrivere quello che provano i suoi protagonisti nell’assistere alle partite della propria squadra, un tempo sospeso in cui ogni preoccupazione si congela per qualche ora e che si vorrebbe ripetere all’infinito.
Tra un battesimo, un matrimonio, conflitti e abbandoni che si intromettono nelle trasferte, il quadro di questi personaggi è completato dal più anziano di loro, Mr Hagan, e del suo rapporto con il giovane Johnny a cui lascia in eredità la sua storia personale, quella della squadra e della classe lavoratrice. Consegnata la memoria di un passato difficile ma glorioso a Johnny, Mr Hagan muore con un ultimo desiderio, che le sue ceneri siano sparse sul campo del Goodison Park, lo stadio dell’Everton.
In un interessante incontro su Calcio e Politica organizzato dal giornalista Frank Barat nel canale Youtube “Let’s Talk It Over”4 all’indomani degli Europei 2020 (svoltisi nel 2021) in cui partecipano Yanis Varoufakis, Roger Waters, Brian Eno e Ken Loach, quest’ultimo prega i suoi amici di non limitare il discorso ai grandi club o alle nazionali. Lo fa con la gentilezza e la tranquillità che lo contraddistingue ma il contenuto è espresso con fermezza, sul calcio c’è altro da dire e lo possono fare i piccoli club.
Ricorda che i fan delle piccole squadre si impegnano in numerose azioni di solidarietà, aprono banche del cibo, raccolgono fondi per chi ne ha bisogno e, nonostante Loach non sia a favore delle forme di carità, crede che tale esperienza possa essere un mezzo per unire una comunità e un primo accesso all’attività della classe lavoratrice.
Questo spiega anche il motivo per cui la squadra di Loach è sempre quella della città in cui abita. Una squadra la vuole vivere insieme a una comunità, ecco qual è il vero merito che riconosce al calcio.
Difficile, quindi, affermare in poche righe cosa sia il calcio.
È ciò che è viene raccontato dai media nei programmi tv, nei profili social delle squadre maggiori, sui giornali dove il calcio mercato attira più attenzione di quello praticato? È quello della finanza e dei grandi interessi economici oppure è soprattutto un luogo dove si mescolano sentimenti e umori, esigenze e desideri di chi lo ama? È prima di tutto il luogo del sogno, del mito, in cui riconoscersi per scoprire una parte di sé o viceversa per dimenticarsene per il tempo di un match?
2. COME IL CAPITALISMO INVENTA LO SPORT DEI LAVORATORI
«Trepido seguo il vostro gioco. /Ignari/esprimete con quello antiche cose/meravigliose/sopra il verde tappeto, all’aria, ai chiari/soli d’inverno. / Le angosce, /che imbiancano i capelli all’improvviso, /sono da voi sì lontane! La gloria/vi dà un sorriso/fugace: il meglio onde disponga. Abbracci/corrono tra di voi, gesti giulivi.5»
Nessun altro sport ha ispirato poeti e scrittori come il calcio.
Umberto Saba, Pier Paolo Pasolini (ala sinistra di talento e tifoso del Bologna), Osvaldo Soriano (centroavanti), Albert Camus (portiere).
I protagonisti del calcio in qualche caso sono essi stessi autori di un infinito capolavoro letterario, siano essi calciatori come Éric Cantona, Kevin Keegan, Johan Cruijff, Diego Armando Maradona o allenatori come Rinus Michels e William “Bill” Shanlky.
Questi sono solo i nomi dei convocati, rimane fuori un numero impossibile da quantificare di persone coinvolte nel grande racconto del calcio, a testimonianza della sua importanza dentro e fuori il campo di gioco.
La prima cosa da affrontare da subito è la questione più spinosa quando si scrive o si parla di calcio, cioè se sia o no “oppio dei popoli”.
«Il disprezzo di molti intellettuali conservatori si fonda sulla certezza che l’idolatria del pallone è la superstizione che il popolo si merita […] In cambio, molti intellettuali di sinistra squalificano il calcio perché castra le masse e devia la loro energia rivoluzionaria. […] D’altra parte tale oppio è anche terapeutico. Le due ore di tifo (aggressività e fraternità) allo stadio, sono liberatorie: anche se rispetto a una morale politica, o una politica moralistica, sono qualunquistiche ed evasive. 6»
Siamo negli anni Settanta e si può ragionare sul motivo di tanta preoccupazione da parte della politica militante, eppure già si rileva una distanza tra il proletariato, con le sue esigenze umane oltre che pratiche, e chi li rappresenta politicamente. È qui che si origina una visione moralizzatrice nei confronti di ogni manifestazione di popolo, parola che dal decennio successivo inizia ad assumere un significato sempre meno rilevante fino a scomparire dai discorsi politici. Il rito, quale manifestazione di bisogni ancestrali, non è utile a una società dedita alla costruzione dell’oggetto consumabile, ma lo è il bisogno di svolgerlo collettivamente ed è questo a interessare il consumismo, il numero di persone che ne sono coinvolte.
Invece, tornando ai sani impulsi umani, il calcio è una rappresentazione della folla nel suo momento più ingenuo, nel senso etimologico del termine, la rappresentazione di un’indole libera, semplice, onesta, la caduta di ogni velo. La folla diventa persona.
Qualcuno però lo ha inventato il calcio, e certamente non pensa che possa divenire in futuro lo sport più controverso della storia.
Il calcio nasce in un contesto moderno, e per essere precisi in Gran Bretagna alla metà dell’Ottocento, il secolo dell’industrializzazione massiccia, di nuove immense ricchezze e di nuove povertà. È il tempo più veloce che la storia ricordi, sino ad allora almeno, lo supera il Novecento, anzi la seconda metà del Novecento, però è qui, in questi anni che il secolo successivo trova la sua ragion d’essere storica.
Senza le fabbriche e le miniere inglesi non esiste l’operaio e quindi nessuna delle teorie economiche, sociali o filosofiche moderne. Quindi nessun proletario consapevole del suo ruolo all’interno della società capitalistica, niente sindacati e partiti, niente Internazionale Socialista, nessuna lotta operaia, e gli sfruttati, i poveri, gli emarginati rimangono fuori dalla Storia continuando a subirla, accontentandosi di qualche sparso scuotimento.
È il capitalismo a inventare il calcio. Il luogo è quello frequentato dai suoi figli, i college inglesi (in inglese sono chiamate public school), dove si formano le copie esatte dei padri. Nei santuari dell’educazione britannica è impossibile rilevare la presenza di minatori, operai, pastori, che non hanno accesso all’istruzione superiore, e spesso nemmeno a quella inferiore. Assente ogni via di uscita da un sistema immobile dove la divisione in classi è rigida, solo modo per determinare una marcata differenza gerarchica.
Alla fine dell’Ottocento il numero di squadre aumenta tanto quanto la passione per questo sport e chi lo inventa non ha alcuna intenzione di farne una professione, ma la sua diffusione è tale che, raggiunto l’industrializzato nord, la classe lavoratrice lo prende, lo trasforma e ne fa il suo sport per eccellenza.
Una data è considerata l’atto definitivo di questo passaggio e si svolge durante la FA Cup (la Coppa d’Inghilterra) del 1882/1883. È il 31 marzo 1883 quando la Blackburn Olympic, squadra del nord i cui giocatori sono operai, scozzesi per la maggior parte, vince la coppa battendo per 2-1 l’Old Eatonians. Una squadra di lavoratori ne batte una doppiamente nobile, sia di status che di lignaggio calcistico, essendo Eaton il college che più di altri contribuisce a creare il calcio moderno.
Se questa è la data ufficiale del passaggio da gioco tra gentiluomini a quello del popolo oppure no, è senz’altro un simbolo. È proprio in questi anni che alcune squadre da dilettanti diventano professioniste, ed è in questo periodo che l’élite si accontenta di esserne perlomeno proprietaria. Non gli è andata male.
Ci sono delle ottime ragioni che determinano l’adozione del calcio come sport del proletariato più di qualsiasi altro, la prima delle quali è quella più ovvia ripetuta molte volte.
Il calcio può essere praticato ovunque ci sia uno spazio all’aperto, quattro oggetti che delimitino le porte, un pallone o la classica sfera di stoffe cucite tra loro.
I figli del popolo lo praticano ogni giorno o per meglio dire lo possono fare fino a quando non iniziano a lavorare nelle miniere, nelle fabbriche o nei campi, oppure la domenica perché a lavorare vanno molto presto, intorno ai 12 anni e in certi casi anche prima.
Quei ragazzini spesso diventano talmente bravi da attirare le attenzioni dei club, e in parte il loro talento dipende dalla costrizione a praticarlo su terreni difficili in cui acquistano maggiore forza, astuzia, fantasia.
La fatica del campo di gioco è nulla rispetto alla loro vita quotidiana, e se per i ricchi il calcio è qualcosa di transitorio, perché si devono occupare delle fortune di famiglia e conservare il potere, per il proletariato esso diventa una possibile alternativa, spesso l’unica per sganciarsi dalla necessità e dalla pesante eredità tramandata da generazioni.
È interessante notare che così come la fabbrica da luogo di sfruttamento si trasforma in una opportunità per i lavoratori di raggiungere una coscienza di classe, così il calcio da sport inventato dai ricchi in ambienti esclusivi si trasforma nel suo contrario.
In questo contesto i supporter sono tutti coloro che non diventano footballer ma che, seguendo la propria squadra e assistendo alle partite, spesso nei loro sogni lo diventano, e se non calciatori almeno si immaginano allenatori, o alla peggio portatori di una fede, come accade in tutte le comunità primitive quando ogni cosa mirabolante si deifica.
Dalla vittoria nel secondo dopoguerra del governo laburista di Clemont Atlee7 e la nascita del Welfare State più avanzato del mondo, il proletario a distanza di appena un paio di generazioni sperimenta il capovolgimento di quel mondo con l’introduzione delle privatizzazioni del governo conservatore Thatcher e l’inizio del suo incubo peggiore, ma pur continuando a lottare non rinuncia ad andare allo stadio, segue la partita in piedi, continua a coltivare la sua passione, l’unico spazio di libertà di settimane sempre più difficili, e poi mesi, e poi anni, ed è allo stadio che manifesta un altro modo di esserci.
In nessuna altra nazione sul calcio si riflette il cambiamento in atto delle condizioni lavorative. Altrove le aderenze sono minori, a volte quasi inesistenti, ma anche in questo caso ogni problematica emersa nella società si riscontra immediatamente negli stadi.
Ma una storia non è nulla senza le pagine più gloriose, e allora prima di arrivare agli anni Ottanta ci sono un paio di storie da raccontare, storie di calcio, arte e socialismo.
È il 1925 quando tra le regole del calcio è introdotta la numero 11, quella del fuorigioco (offside).
Un giocatore è in fuorigioco quando si trova vicino la porta avversaria e un suo compagno ha il possesso di palla, non lo è se si trova nella sua metà campo o se tra lui e la porta ci sono minimo due avversari. Però una regola può essere usata come un vantaggio e per farlo devi avere un’idea precisa, fattibile, sapere esattamente cosa stai facendo, altrimenti perdi e tutto rimane come prima.
E allora se per esempio la difesa scatta in attacco mettendo in fuori gioco gli avversari, e se i ruoli possono essere scambiati senza lasciare vuoto lo spazio di ognuno, e se fai tutto velocemente per ottenere l’effetto sorpresa, allora nessuno è in grado di fermarti. Almeno fino a quando non riesce a imparare da te, ma non è la stessa cosa.
Non sono supereroi, però bisogna averli presente nel momento in cui fanno un giro veloce su sé stessi e gli abiti civili anonimi diventano divise scintillanti.
In questo caso sono arancioni.
Rinus Michels e Johan Cruijff, per molti il più grande giocatore di sempre.
Il primo è allenatore dell’Ajax e poi della nazionale olandese, il secondo colui che più dei suoi compagni incarna questo nuovo gioco. Entrambi si incontrano all’Ajax dove dal 1964 Cruijff gioca in prima squadra dopo quattro anni nelle giovanili, mentre Michels arriva nel 1965.
Il mentore di Michels è un allenatore inglese, Jack Reynolds, il coach dell’Amsterdamsche FC Ajax per un totale di trenta anni, la prima leggenda del calcio olandese. Reynolds porta all’Ajax il calcio inglese (il kick and run, gioco più individuale in cui un giocatore mantiene il possesso palla) nella sua versione scozzese (il combination game), un gioco di squadra, collettivo, in cui all’azione singola dei giocatori sostituisce il passing game, ossia passaggi brevi o più lungi scambiati con i compagni. Vic Buckingham prosegue il tracciato di Reynolds, consegnando a Michels una squadra già pronta per il grande salto. Nasce così il Totaalvoetbal8, noto come Calcio Totale.
Prevalenza di lanci corti e palla a terra, cambio del ruolo durante la partita secondo la necessità, è un gioco veloce, potente, all’attacco, vincente, geometrico, qualcosa che diventa negli anni talmente fluido da far pensare che ognuno agisca meccanicamente. La squadra è un gruppo compatto, il singolo che realizza ne beneficia. Lo spazio non è più limitato, si sposta, si allarga, si restringe, il terreno di gioco è impiegato in ogni centimetro. È l’uso dello spazio il punto di forza dell’Ajax.
Una meraviglia, qualcosa di mai visto e che nessuno riesce a definire, per questo al suo apice, quando ormai Michels è al Barcellona ed è sostituito all’Ajax da Stefan Kovács che ne prosegue il metodo, qualcuno intorno al 1973 sente l’esigenza di dargli un nome, appunto Totaalvoetbal.
A Liverpool nel 1959 arriva Bill Shankly. Anche lui fa la sua rivoluzione prendendo una squadra caduta da anni in Seconda Divisione e portandola nel posto che secondo Shankly gli compete, nella storia. Negli anni Trenta i più importanti calciatori della League inglese sono scozzesi e Shankly è uno di loro. Lo schema di gioco che Reynolds porta a Amsterdam Shankly ce l’ha di prima mano, lo gioca fin da ragazzo, e lo applica come allenatore.
La figura di Shankly a Liverpool, ma in tutta la Gran Bretagna (e non solo, c’è la nazione dei calciofili), è praticamente intoccabile. Il suo è Calcio Totale ma non è il Totaalvoetbal.
La totalità del calcio di Shankly dipende certamente dalla sua esperienza ma soprattutto da una visione della vita che esprime nel calcio, la sua passione, il suo lavoro.
Shankly è un padre per i calciatori, un confidente, non muta il suo atteggiamento dentro e fuori il campo, la sua severità è tutta nella richiesta di concentrazione, è ironico, eccentrico nelle pratiche di allenamento, ha un rapporto stretto con i supporter perché è uno di loro, insomma Shankly così com’è nella sfera privata è in quella pubblica e non ha alcuna intenzione di mascherarlo. È uno scozzese figlio dell’industrializzazione, delle miniere e delle lotte operaie.
Rinus Michels è invece molto severo con i suoi giocatori, fuori dagli allenamenti e dal campo è il contrario, la separazione tra il lavoro e il privato è netta. Ciò che muove Michels è la volontà di creare la squadra perfetta, vincente, sorprendente, a suo modo è un artista. È un olandese figlio della lotta per conquistare lo spazio fisico.
Michels e Shankly hanno in comune una visione del calcio in cui ognuno agisce per un bene comune e, a parte le differenze tra loro, negli anni Sessanta e Settanta questo tipo di approccio rispecchia l’andamento generale dei sogni e desideri delle nuove generazioni.
Il discorso su Shankly non si esaurisce qui, ma intanto bisogna arrivare agli anni Ottanta, quando il calcio totale vive la sua parabola discendente. È in questa fase che, nei primi anni del decennio, Arrigo Sacchi lo sperimenta in Italia al Milan.
«La molotov olandese che incendia Amsterdam si trasforma nello champagne da sorseggiare a Milano 2, la prassi collettivista di Liverpool nell’ossessione accumulatrice brianzola, la cibernetica sovietica nell’olistica della berlusconiana Polisportiva Mediolanum. Il tardo capitalismo, nel giro di un decennio, ha sussunto in modo definitivo il desiderio sovversivo del calcio totale.9»
Il calcio muta profondamente con i tardi Ottanta e primi Novanta ed è determinato dal ritmo incessante e sempre meno contrastato del capitalismo.
È la televisione a consegnare l’immagine della nuova era. Se negli anni precedenti la trasmissione delle partite si presenta con inquadrature ampie che permettono di vedere il gioco, rare strette su dei passaggi importanti, il vasto uso del teleobiettivo consente di selezionare l’immagine: l’attenzione si concentra sui giocatori maggiori evidenziando lo sponsor sulla divisa e il brand individuale.
È chiaro che la televisione mostra i cambiamenti ma è altrettanto vero che partecipa come mezzo per ampliarli.
Gli anni Ottanta hanno un’importanza straordinaria per il cambio di passo della Storia, non solo nel calcio. Inizia ad avanzare la globalizzazione e il sistema economico che la sottende, una gentrificazione totale che pone ai margini chiunque la rifiuti o non possa sostenere il suo passo, in questi anni i riferimenti identitari conoscono una vera e propria colonizzazione, i diritti ridotti, è un’onda veloce sospinge ai margini le differenze, siano esse economiche che culturali. Un’espropriazione dello spazio.
Gli anni Ottanta per il calcio iniziano ufficialmente con questa data, 29 maggio 1985.
Si gioca la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. La partita è in diretta televisiva. Lo stadio è quello di Heysel, Bruxelles, Belgio, una struttura che, come successivamente evidenziano tutti, inadatta a una finale di Coppa dei Campioni e in genere fatiscente. Quella che è nota come la strage di Heysel si matura in conflitti tra tifosi, numero esorbitante di spettatori ben oltre alla resistenza della struttura, malfunzionamento organizzativo e di sicurezza, impossibilità di fuga. Muoiono 39 persone. La Uefa congiuntamente alle Forze dell’Ordine belghe decide di far giocare la partita per non aumentare i problemi di ordine pubblico. E la partita si gioca.
I supporter del Liverpool ne escono come bestie, si parla di hooligan.
Trovati i colpevoli c’è bisogno di sanare le tifoserie ma non il sistema in cui il calcio è ormai intrappolato. È indubbio che nel tempo gruppi violenti si sono inseriti tra le tifoserie, ma è altrettanto vero che lo stadio per costituzione è il luogo dove si scatenano i rancori di una società in crisi e manca totalmente un’analisi che ne riveli la complessità.
In ogni caso si parte con la normalizzazione.
I media potenziano il disegno di una prevalenza di violenti che tengono fuori dagli stadi le famiglie e i tifosi disciplinati, per cui lo stadio diventa un luogo pericoloso, meglio guardare la partita a casa, e quindi agli albori degli anni Novanta nascono i canali specializzati a pagamento. La stessa Premiere League prende forma in questo contesto nel 1994 a danno della definizione più democratica di First Division. Sono i club migliori a catalizzare ogni attenzione, gli altri non producono ricchezza.
Questo stato di cose muta la stessa fruizione casalinga dei dopo partita. Per chiarire con un paragone nostrano: alla vecchia e ingenua Domenica Sportiva si può persino conoscere la classifica della serie B, vedere i servizi dagli stadi, assistere a una moviola commovente e la discussione finisce lì. Quella regione sub serie non esiste più per i media.
Una volta che i supporter guardano la partita nella sicurezza della propria casa si determina la distanza fisica tra campo di gioco e tifosi, il costo del biglietto fa il resto. Chi non può economicamente pagare il biglietto allo stadio e la pay tv si arrangia oppure ricrea quell’atmosfera dentro i club dei tifosi, nei locali, ovunque sia possibile ma non allo stadio.
3. IL SOCIALISTA E IL RIBELLE
Tra tutti i grandi personaggi della storia del calcio, ce ne sono due la cui visione della vita influenza la loro carriera al punto da non scorgere alcuna differenza tra privato e pubblico. Entrambi si espongono senza alcuna remora, entrambi sono eccentrici e, infine, entrambi divengono modelli di identificazione.
Molto diversi tra loro per generazione, luogo di nascita, cultura, Bill Shankly e Éric Cantona salgono la ripida scala verso l’olimpo calcistico a modo loro.
William “Bill” Shankly nasce nel 1913 a Glenbuck, Scozia, un villaggio di minatori. Glenbuck non esiste più da decenni e nemmeno la miniera, ricomposto come attrazione turistica in molti arrivano prevalentemente per visitare il perimetro della casa degli Shankly, cinque dei quali diventano calciatori con diverse fortune. Si dice che Bill sia il cinquantacinquesimo calciatore nato a Glenbuck, perché qui hai due possibilità: lavorare in miniera oppure imparare a calciare un pallone. Bill conosce le pericolose gallerie della miniera, conosce soprattutto l’unità necessaria per sopravviverne dentro e fuori, Bill ha scelto il calcio.
Il posto è bello e freddo, veramente troppo freddo, il verde nasconde un terreno difficile. Come per Rinus Michels è lo spazio disponibile il primo grande maestro. Iniziare a giocare a Glenbuck è segno di passione ma è anche la migliore palestra per formare fisici forti che non sanno arretrare.
La famiglia e la comunità di Shankly è il punto di partenza della sua storia individuale che porta con sé come calciatore e allenatore, ma soprattutto come uomo.
Ecco come descrive David Peace, in un romanzo corposo e bellissimo, la firma del contratto di Kevin Keegan al Liverpool
«C’è qualcosa che non va, figliolo? Hai in mente qualcosa?
Be’, per essere onesto con lei, disse Kevin Keegan, in questo momento allo Scunthorpe prendo trentacinque sterline la settimana, signore. E perciò speravo in qualcosa di più. Ma spero non pensi che sono uno sfacciato o un ingordo, signore. Spero non pensi che sono un ingrato. Ma mio padre mi dice sempre che devo cercare di migliorarmi, signore. Se posso, ogni volta che posso.
E che cosa fa tuo padre, figliolo? Che lavoro fa?
Era un minatore, disse Kevin Keegan. Ma adesso non può più lavorare. Per via della sua bronchite. Per la polvere.
Bill guardò questo ragazzo, Keegan. E Bill annuì. E Bill disse, Be’, fai bene ad ascoltarlo, figliolo. Perché quell’uomo conosce la fatica. Quell’uomo conosce il lavoro, figliolo. Perciò posso offrirti cinquanta sterline.10»
Shankly comprende perfettamente il discorso del padre di Keegan e la sua risposta è l’unica possibile.
È dunque da Glenbuck che si forma l’idea di calcio di Shankly. Prende la sua esperienza di vita e la dispone su un prato verde senza scorgere differenze. Così arriva a pensare che il calcio è tutto perché in quel tutto c’è la sua storia e quella di quelli come lui, la storia della classe lavoratrice.
«Il calcio totale di Bill Shankly è postfordista, i lavoratori devono reinventarsi i modi di produzione per appropriarsene. Come per andare in miniera, anche per andare agli allenamenti e alle partite ci si muove e si torna insieme, a piedi o in pullman; come in miniera anche sul campo da calcio si gioca insieme, ciascuno deve essere in grado di svolgere il compito di ciascuno, di dare quello che è in grado di dare per ricevere quello che ha bisogno di ricevere.11»
Arrivato a Liverpool per prima cosa si prende cura della casa che deve abitare la sua comunità: i suoi collaboratori, gli atleti, le persone che ci lavorano e il pubblico.
Arrivato a Liverpool pensa che la prima cosa da fare, oltre a ragionare sul ritorno della squadra in Prima Divisione, sia essere una squadra da Prima Divisione.
La cura del proprio spazio e di chi lo occupa è un atto fondamentale per la working class, è il riflesso della propria dignità.
Ed ecco Shankly e il suo team a testa bassa pulire il campo di Melwood, dove il Liverpool si allena, e quello dello stadio di Anfield. Così si fa trovare da tutta la squadra l’allenatore che conduce il Liverpool alle vette del calcio internazionale. Sassi, vetri, erbacce, ogni cosa è messa dentro degli enormi sacchi, poi l’allenamento, e poi di nuovo con i sacchi almeno fino a quando i campi non sono puliti e sicuri.
Alla dirigenza Shankly segnala che i bagni dei supporter sono sporchi e non è accettabile. Il pubblico è un’ossessione per Shankly, lui si vede prima di tutto tra loro. Lo Spion Kop, la curva dei supporter del Liverpool, è l’unico destinatario del suo lavoro, senza non esiste il calcio, ed ecco che appena può vi si intrattiene, risponde alle loro lettere, li abbraccia, li ascolta.
L’insieme, ognuno fa il suo per il bene comune, così la pensa Shankly
«Il socialismo in cui credo non è propriamente politico. È un modo di vivere. È umanità. Credo che l’unico modo di vivere e di essere veramente di successo sia attraverso lo sforzo collettivo, con tutti che lavorano l’uno per l’altro, tutti che si aiutano l’uno con l’altro, e in cui ognuno condivide quello che si è ottenuto alla fine della giornata. Potrebbe richiedere molto, ma è il modo in cui vedo il calcio e il modo in cui vedo la vita.12»
Il duro lavoro per giungere a un obiettivo comune non solo è da prevedere ma da sperare, senza fatica non si raggiunge nulla di stabile, così una delle prime cose eccentriche vissute dai giocatori nei primi allenamenti è la gabbia13 (box), ossia uno spazio due metri e mezzo per nove dentro cui due giocatori per volta si scambiano i tiri per mezzo di rimbalzi su una tavola.
Una persona davvero notevole Bill Shankly, di quelle che non puoi guardare negli occhi senza subirne il fascino, con la sua parlata stretta e l’accento scozzese, il corpo teso e atletico. Sembra non stare mai fermo, perlomeno di testa.
All’entrata dell’Anfield c’è una statua che lo ritrae con le braccia alzate, le mani chiuse in un pugno, la sciarpa del Liverpool, sotto è scritto He made people happy. In Gb i supporter scelgono una canzone attraverso cui esprimere il proprio attaccamento alla squadra e ciò che significa per loro, durante gli anni di Shankly lo Spion Kop inizia a cantare You’ll never walk alone , l’inno della squadra e il più famoso al mondo.
Tutto lo stadio assicura che nessuno è solo, mai.
Bill Shankly chiude la sua carriera al Liverpool facendo richiesta di esonero nel 1974, dopo aver cambiato per sempre il destino di un club di una delle città portuali più importanti del mondo e aver insegnato a suo modo cosa sia il socialismo applicato alla vita di ogni giorno.
Èric Cantona non è solo uno dei più grandi calciatori della storia, è un uomo che racchiude nel suo fisico possente irriverenza, ironia, rifiuto dell’autorità e quindi ribellione. Cantona non vive il calcio quale unica possibilità per sé stesso ma solo come una parte della vita, seppure importante, e quando non può più ritenerlo casa sua fa i bagagli e lo lascia.
Cantona è nato a Marsiglia nel quartiere di Les Caillols nel 1966. Marsiglia è una città portuale, è Francia ma soprattutto mondo, un insieme di culture e lingue, di tradizioni e di migrazioni. E di rifugiati, come i genitori della madre, fuggiti nel 1938 durante la Guerra Civile Spagnola perché Pedro, il nonno di Éric, è antifascista e partigiano. Pedro rimane ferito gravemente al fegato, cerca un aiuto medico, attraversa insieme alla famiglia i Pirenei e due anni dopo la polizia di Vichy lo arresta, lo chiude in un campo di prigionia di indesiderabili, finché riesce ad arrivare a Marsiglia.
Così si può spiegare, a prescindere dalla cronaca del momento, la reazione di Cantona al Selhurst Park il 25 gennaio del 1995 dove il Manchester United di Alex Ferguson incontra il Crystal Palace. Cantona vede Matthew Simmons, che si rivela essere un affiliato del Fronte Nazionale e noto per una serie di azioni violente, Cantona dunque lo vede, non sa chi sia, lo vede mentre gli rivolge il saluto fascista e un pesante insulto. D’istinto il Re salta a gamba tesa dal campo sugli spalti e lo colpisce con un calcio violento al petto14.
Ha chiesto scusa al pubblico per l’atto ma continua a dire che lo rifarebbe. Quando vede un fascista Cantona vede rosso.
La famiglia paterna invece è italiana, migrata dalla Sardegna, ed è quella che con grandi sacrifici costruisce la casa di Les Caillols, il piccolo regno dei Cantona.
Queste sono le radici del Re, una famiglia nobile nel senso più popolare e politico del termine. I Cantona vivono tutti insieme, si aiutano, si rispettano, si amano. Dal padre Albert, Éric eredita la passione per l’arte e la pittura. L’incontro con il calcio non è una scelta ma un evento inevitabile che racconta così
«Appena ho iniziato a camminare già giocavo a calcio. I miei genitori mi dicevano che quando vedevo una palla ci giocavo. Era qualcosa che avevo in me…Forse il giorno che ho accarezzato una palla per la prima volta il sole splendeva, le persone erano felici e questo mi ha fatto venire voglia di giocare al calcio. Per tutta la mia vita proverò a catturare quel momento.15»
Il linguaggio di Cantona è un’altra delle sue caratteristiche più evidenti e lo usa con la stessa libertà che applica alla vita. Poetico, aggressivo, enigmatico, ironico. Ancora prima che diventi famoso (ed è avvenuto molto presto perché è considerato un genio calcistico già a quindici anni) il suo modo di esprimersi è oggetto di scherno, curiosità, ricerca di un senso spesso non meditato ma fatto fluire liberamente esattamente come si forma, impara anche che ormai tutti si aspettano da lui delle stravaganze e capisce che può essere divertente rispondere nel modo che ci si aspetta da lui.
È l’11 maggio 1997 quando lascia il calcio, non senza dolore. Lascia l’ambiente però non il calcio, non è il campo dove splende sempre il sole a procurargli sofferenza, ma questo lo sa da sempre.
Una dichiarazione del 1987 alla rivista «France Football» lo conferma
«Ho bisogno di avere reazioni folli per essere felice – e anche per rendere in campo. Devi avere la forza per essere pazzo. Non sul momento, quando la sincerità è fondamentale, ma dopo, per reclamare la propria originalità. Il calcio non accetta le differenze, ed è questo l’aspetto che più mi delude.16»
Ormai non c’è più spazio per uno come Cantona. Potrebbe dare ancora molto ma è finita, e non lo dice solo la sua progressiva insofferenza, le polemiche che sempre accompagnano ogni suo comportamento, gli infortuni e così via.
Nel 1997 Cantona decide che è tempo di dare un’opportunità alla sua prossima vita dove è pittore, attore, produttore.
Tra le tante dichiarazioni di Cantona una frase lo identifica più di ogni altra
«C’è una linea sottile tra la libertà e il caos. In una certa misura sposo l’idea di anarchia. Quello che cerco realmente è un’anarchia di pensiero, una liberazione della mente da tutte le convenzioni.17»
4. NELL’OLIMPO SICURAMENTE GLI DEI GIOCANO A CALCIO
«Mi chiamo Martín Peregrino Fernández […] Porto dei ragazzi a correre per i campi di qualche dimenticato angolo della patria. Cerco di fare in modo che si comportino bene e mettano sul terreno il meglio che hanno. Che non corrano come ossessi dietro la palla. Vado in giro di qua e di là per la parte più brutta del mondo. Sono un vincitore incompreso, corro nell’ombra, prendo treni e autobus nella tempesta.18»
È il 25 novembre 2020. Diego Armando Maradona muore. Il giorno dopo l’Argentina dichiara tre giorni di lutto nazionale e la salma della mano di Dio è esposta alla Casa Rosada, il palazzo presidenziale, a Buenos Aires. Il mondo assiste in diretta alla formazione di una folla immensa di cui non si comprende l’inizio e la fine, in presenza o collegata con ogni mezzo mediatico piange, si dispera, pronuncia il suo nome, gli offre bandiere e maglie, fiori e lettere come è d’uso da millenni nei confronti di una divinità.
In molti parlano di follia di massa, invece tutte queste persone – uomini, donne, bambini – celebrano non solo un uomo ma loro stesse o per meglio dire ciò che in Maradona trovano di sé stessi.
Il più bel necrologio lo ha scritto Gianni Minà, da cui questo passaggio che riassume i motivi, semmai ci sia bisogno di offrirne di razionali per spiegare i sentimenti
«Dalla polvere di Villa Fiorito, nella provincia di Buenos Aires, dove è cominciata la sua avventura di più grande calciatore mai nato alla militanza politica nei partiti progressisti latinoamericani per i quali ha dato molte volte la propria faccia. Nessun calciatore è mai arrivato a tanto.19»
Nella sua vita complicata Maradona ha una bussola e la mantiene stretta, è il legame con la propria terra, la sua gente, la sua cultura, l’Argentina ma ancor più l’intera America Latina. Di sé dice che è tutto sinistro, di piede, di fede e di cervello. Nato povero e divenuto ricco ancora ragazzo, non riesce a colmare la distanza tra la polvere dei campi di Villa Fiorito e i grandi stadi del mondo, conosce la gloria e il tradimento, si spezza e muore per poi risorgere e morire di nuovo e risorgere ancora.
La vita di Maradona è l’America Latina, ne racconta la bellezza e i drammi, Maradona è sintesi.
In quei giorni di novembre del 2020 si consuma un rito collettivo che celebra il Noi, un vasto gruppo eterogeneo si riconosce attraverso uno di loro elevatosi a mito, è la dichiarazione di sopravvivenza di un’intera cultura definita subalterna a quella vincente, sono giorni in cui mediante il calcio essa si esprime e si riconosce.
La follia è un evento liberatorio che i corpi sani non comprendono perché decidono di non farne esperienza, rinunciando in tal modo all’irrazionale che è proprio della natura umana, una decisione nata dalla preoccupazione di abbandonare anche solo per un istante quel sistema di difese che gli consente di conservarsi entro i limiti della rispettabilità e del decoro.
La passione per il calcio non conosce limiti e decoro, è caos, è pensiero magico in particolare quando non è il calcio in sé a interessare ma una squadra specifica, quella del cuore rispettata e sostenuta anche quando fallisce.
«Nessuno poteva cambiare posizione, per tutto il tempo o in piedi o seduto, e se qualcuno era in bagno mentre la Roma segnava un gol doveva rimanere al cesso fino alla fine della partita. Altri, un paio, per via del fatto che una volta, chissà quando, il gesto aveva portato bene, si scambiavano di posto fra loro nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo […] L’amore per la Roma era un morbo spontaneo nella mia gente, qualcosa che avrebbe potuto essere definito patologico solo da un soggetto esterno, ma non ho mai visto nessun soggetto esterno. Finché stavi lì non ti sentivi mai strano o diverso. Ti sentivi uguale. Ed era una sensazione davvero incredibile, perché incontrarsi con loro era come incontrarsi con se stessi. Parlare diventava una specie di accessorio inutile. Si parlava col corpo, e con le mani, e soprattutto con gli occhi, vivevamo tutti della stessa cosa, campavamo di sguardi.20»
Vivere insieme lo stesso sentimento prevede, quindi, un linguaggio comune che preserva da ogni giudizio chiunque sia capace di usarlo. All’esterno è incomprensibile e, come ogni cosa ritenuta stramba da chi non ne comprende il valore, minimizzata se non apertamente giudicata ridicola.
Non per Pasolini che quel linguaggio lo conosce molto bene al punto da individuarne un sistema che prevede una relazione stretta tra campo di gioco e spalti
«Ogni gol è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice. Ogni gol è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. […] i cifratori di questo linguaggio sono i giocatori, noi, sugli spalti i decifratori: in comune dunque possediamo un codice.21»
Chi occupa le gradinate di uno stadio non è uno spettatore, se così fosse ci sarebbe divisione, un qui e un là in mezzo al quale trascorre il tempo della fruizione, invece nel calcio più che in qualsiasi altro sport avviene una trasmissione istantanea, e questo può accadere solo se tutti si sentono e sono parte di un unico evento, irripetibile nonostante le regole siano sempre le stesse. Somiglia al teatro con la differenza che nel calcio gli attori e gli spettatori sono la stessa cosa. Si può assistere a una partita allo stadio e dare le spalle al campo di gioco, poi tornare a guardare il campo, perdersi anche il momento più importante imprecando, poi continuare a cantare, a battere le mani, a ridere e a imprecare di nuovo.
L’esperienza di tale condivisone comporta il superamento di differenze individuali che altrove entrano in contrasto, unisce persone altrimenti destinate a rimanere estranee.
Non meraviglia, dunque, che da qui possano nascere nuovi modi di comprendere l’altro traendone un insegnamento, specie se la doppia esperienza di cifratori e decifratori permette di scorgervi qualcosa di più chiaro, come per Camus
«Quel poco che so della morale l’ho appreso sui campi di calcio e le scene di teatro – le mie vere università22»
Il calcio è ben altro dal flusso enorme di denaro che mobilita.
Alle multinazionali, ai fondi finanziari non importa del calcio, non lo conoscono, ignorano la storia delle squadre e cosa significa per chi le sostiene, spesso non sono presenti nemmeno allo stadio. Ciò che interessa è monetizzare la passione degli altri, entrare con l’acquisto di un club negli affari della città o della nazione in cui quel club è nato per passare oltre. Cercare in loro una proprietà come quella del passato, in cui il milionario univa convenienza e amore per la squadra è impossibile.
Si può riscontrare questa differenza insanabile in due personaggi di Loach.
Joe, il protagonista di My name is Joe, sa che il calcio per i suoi ragazzi è riscatto, capacità individuali che si sommano con quelle dei propri compagni di squadra, è scoprire di avere delle qualità, che la loro vita non è solo sofferenza e fatica, abbandono e giudizio altrui, Joe sa come ricreare fiducia e senso della comunità, salvare i suoi ragazzi dal crimine e dalla morte fisica e sociale, Joe sa ed è disposto a tutto per difendere questo suo sapere.
Quello di cui non si accorge l’allenatore di Billy in Kes è che per essere Bobby Charlton gli altri ti devono aiutare, altrimenti rimani solo, in divisa, tra dei ragazzi che ti odiano perché stai uccidendo il loro momento di libertà.
Note
- Il mio amico Éric (Looking for Éric, 2009) regia di Ken Loach, sceneggiatura di Paul Laverty. Prodotto da Rebecca O’Brien in associazione con produzioni di Paesi quali Italia, Spagna, Belgio e Francia. Éric Cantona è il produttore esecutivo.
- Per conoscere la storia del club e approfondire le motivazioni della sua nascita: A History of FC United of Manchester
- «Ci siamo, Kevin Keegan. Vieni qui e prendi questo angolo…Sbrigati» in Rainig Stones (Piovono Pietre, 1993) regia di Ken Loach, sceneggiatura di Jim Allen.
- Per vedere la puntata su Calcio e Politica: #EURO2020 discussion (football & politics) w/ Roger Waters, Yanis Varoufakis, Ken Loach, Brian Eno
- Umberto Saba in 1 Squadra paesana da Cinque poesie per il gioco del calcio in Il Canzoniere (1900 – 1947), Torino, Giulio Einaudi editore, I Millenni, 2010 (da una ristampa del 1957) – edizione fuori commercio riservata ai clienti dell’organizzazione rateale – p. 477
- Valerio Curcio, Il calcio secondo Pasolini, Reggio Emilia, Compagnia Editoriale Aliberti, 2018, ePub, sezione L’oppio dei popoli?
- Clement Richard Atlee (1883 – 1967), premier britannico dal 1945 al 1951, laburista. Durante il suo governo nasce il primo Stato Sociale (dal National Health Service al National Insurance), sono nazionalizzate varie industrie (carbone, elettricità, ferrovie) e altri interventi statali che consentono alla Nazione di uscire dalla forte crisi economica e sociale del secondo dopoguerra
- Molto interessante è al riguardo Brilliant Orange in cui l’autore inserisce il Totaalvoetbal in un’analisi niente affatto scontata tra arte, cultura e concezione dello spazio olandese. Solo una terra abituata a sfruttare ogni spazio per esistere poteva concepire il Calcio Totale. David Winner, Brilliant Orange. Il genio nevrotico del calcio olandese, Roma, Edizioni minimum fax, 2017, ePub
- Luca Pisapia, Uccidi Paul Breitner, Roma, Edizioni Alegre, 2018, sezione 6, ePub
- David Peace, Red or Dead, Il Saggiatore, 2014, sezione 36 Cristo sta con le guardie rosse, ePub
- Luca Pisapia, Uccidi Paul Breitner, sezione 2
- E. Weber, You’ll never Talk alone in Peter Jones, Bill Shankly: Socialism & The Realationship With Liverpool’s Fan, 2017. «The socialism I believe in isn’t really politics. It is a way of living. It is humanity. I believe the only way to live and to be truly successful is by collective effort, with everyone working for each other, everyone helping each other, and everyone having a share of the rewards at the end of the day. That might be asking a lot, but it’s the way I see football and the way I see life»
- David Peace, Red or Dead, sezione 5 I martelli e i chiodi
- In una conferenza stampa attesissima al Croydon Park Hotel i giornalisti sono tutti in trepida attesa, pronti con le loro domande ma Cantona pronuncia la sua frase più famosa: «Quando i gabbiani seguono il peschereccio è perché pensano che le sardine saranno gettate nel mare. Grazie.». Tutto qui, poi si alza ed esce dalla sala. Questa volta non è una frase senza senso, è una frase di Cantona, bisogna decifrarla.
- Philippe Auclair, Cantona: The Rebel Who Would Be King, Londra, Mcmillan, 2009, ePub, sezione 1 I am the King! «A soon as I walked, I played football. My parents have told me: as soon as I saw a ball, I played with it. This is something I have in me…Maybe, on the day I caressed a ball for the first time, the sun was shining, people were happy, and it made me feel like playing football. All my life, I’ll try to capture that moment again». L’edizione italiana è pubblicata dall’editore Le Milieu con il titolo Cantona. Il ribelle che volle diventare re.
- Philippe Auclair, Ibidem, sezione 4 Farewell to Auxerre. «I need to have crazy reactions to be happy – and even to be good on the pitch. You must have the strength to be crazy. Not there and then, when sincerity is paramount, but afterwards, to claim one’s originality. Football doesn’t accept differences, that’s why it disappoints me»
- Philippe Auclair, Ibidem, sezione 15 The Road to Selhurst Park: June 1994 to January 1995. «There’s a fine line between freedom and chaos. To some extent I espouse the idea of anarchy. What I am really after is an anarchy of thought, a liberation of the mind from all convention»
- Osvaldo Soriano, Fútbol. Storie di calcio, Torino, Einaudi, 2014, p. 149 – 150
- Gianni Minà, pagina Facebook, 25 novembre 2020
- Sandro Bonvissuto, La gioia fa parecchio rumore, Torino, Einaudi, 2020 p. 49 – 50
- Valerio Curcio, Il calcio secondo Pasolini, cit., sezione La linguistica del calcio
- Gianluca Palamidessi, Albert Camus, il portiere che amò il calcio alla follia 4 gennaio 2020. «Le peu de morale que je sais, je l’ai appris sur le terrains de football et le scènes de théâthre qui resteront mes varies universités»
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