Verso un ritratto svecchiato di Jean de La Fontaine. Per i 400 anni dalla nascita di un favolista irrequieto
Davide Monda, Verso un ritratto svecchiato di Jean de La Fontaine. Per i 400 anni dalla nascita di un favolista irrequieto, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 52, no. 21, dicembre 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.9728
La Fontaine amava le parole e sapeva sceglierle. Solo a questo prezzo si è scrittori. Le parole sono idee: si ragiona esattamente soltanto con una sintassi rigorosa e un vocabolario preciso. Credo che il miglior popolo del mondo sia quello che possiede la miglior sintassi. Accade sovente che gli uomini si scannino fra loro a causa di parole che non intendono. Si abbraccerebbero se potessero comprendersi. Nulla giova al progresso dello spirito umano quanto un buon dizionario, capace di spiegare tutto…
Anatole France, Il genio latino, 1913,
Un libro su La Fontaine resta difficile scriverlo a causa della stessa facilità con cui esso si presenta in un primo momento alla nostra immaginazione di lettori.
Giovanni Macchia, Gli anni dell’attesa, 1987
Ha saputo essere un grande immaginativo e, contro i cartesiani, un grande avvocato del sogno, della fantasia, delle visioni, senza tuttavia cessar di compiere il suo dovere di educatore del senso comune. Ha saputo essere un grande erudito, un uomo della memoria e della tradizione letterarie senza sembrarlo affatto, e ha saputo dare ai Francesi un equivalente degli Adagia erasmiani senza che loro ne fossero consapevoli: al di là della loro affabilità, le Favole riassumono diversi millenni d’esperienza letteraria in diverse lingue e li mettono nel bagaglio culturale di ogni giovane di Francia.
Marc Fumaroli, La diplomatie de l’esprit. De Montaigne à La Fontaine, 1998
Reputo che Jean-Jacques Rousseau non s’ingannasse allorché, in un passo sin troppo citato del secondo libro dell’Émile (1762), stimava le Fables di Jean de La Fontaine – di certo una delle più celebri e ammirate raccolte del genere, specie nel Settecento europeo – una lettura ben poco adatta alle tenere menti dei fanciulli. Le vivaci, acri e, in qualche caso, pressoché inafferrabili “lectiones” offerte da questo capolavoro assoluto di finezza insieme speculativa e artistica, infatti, non potrebbero essere davvero utili a un bambino che, beninteso, non può ancora disporre, ieri come oggi, degli strumenti interpretativi, culturali ed esperienziali necessari per valutarle adeguatamente.
Ritengo d’altro canto che le Favole del grande scrittore e moraliste secentesco costituiscano un testo quanto mai indicato e stimolante per un adolescente, ovverosia – in termini meno vaghi e ambigui – per qualsivoglia persona di cultura che si avvicina alla prima età adulta. Da questi acuti, sottili, artiglianti componimenti in versi, infatti, la sua individualità – ancor giovane, certo, ma già sufficientemente attrezzata e smaliziata – può trarre, oltre a un diletto sapido e duraturo, anche un buon numero di osservazioni, riflessioni e consigli di carattere prettamente morale ed etico-civile.
In verità, coi suoi versi graziosi e cesellati, La Fontaine svela a ogni lettore non distratto o assopito le tristi realtà che spesso si nascondono dietro le apparenze più invitanti e sorridenti, le troppe iniquità presenti non solo nella società del suo secolo, ma in qualsivoglia contesto storico, la sconcertante, ferina bassezza a cui può giungere la natura umana e le diverse, eterogenee manie che accompagnano, variatis variandis, il percorso esistenziale di ogni individuo. A parlar schietto, il lettore di una certa manualistica di ieri e di oggi scritta, più o meno consapevolmente, ad usum Delphini potrebbe rimanere attonito ed esterrefatto contemplando, finalmente, la visione foscamente pessimistica sia della natura umana sia, parallelamente, della storia e della politica, che tante volte traspare dal senso fondo e complessivo dei suoi migliori microcosmi poietici. «Il filo rosso [della violenza tipica della società secentesca, nonché del potere in senso universale] – ha osservato di recente (2017) non senza impeccabili riferimenti pascaliani Luca Pietromarchi, ammirevole traduttore e interprete, fra il resto, delle Favole – attraversa tutta la raccolta e investe ogni ambito: dietro i suoi fondali arcadici e campestri, il mondo delle Favole nasconde la più selvaggia delle giungle. è uno spazio di ferocia sui cui sentieri s’incontrano leoni e lupi che seminano il terrore, volpi e gatti che esercitano il potere con l’astuzia, l’inganno e la menzogna. Che siano in veste di rane, di topi o di tordi, i deboli vi sono sempre minacciati di sterminio. […] Ne risulta, nello specchio dell’animalità, l’immagine di un’umanità senza redenzione, fissata una volta per tutte nella celebre definizione plautina che attinge allo stesso ambito metaforico: «homo homini lupus est». […] La grandezza che le favole designano come strumento di salvezza, comunque sempre precaria, contro l’oppressione e l’ingiustizia è quella delle piccole virtù proprie ai piccoli animali: l’astuzia e la parsimonia, la diffidenza e la prudenza, l’operosità e la solidarietà».
Il letterato francese, dunque, non si limita a descrivere icasticamente «l’aspra tragedia de lo stato umano», le tante maniere in cui si manifesta la miseria hominis e la triste e (sovente) scandalosa ingiustizia della realtà, ma propone altresì, come testé accennato, un repertorio di suggerimenti che, alieni da ogni moralismo pedantesco o bacchettone, possono aiutare concretamente il lettore a districarsi e orientarsi prima nei meandri della propria interiorità (la tanto auspicata conoscenza di sé…), poi nel flusso vorticoso, irrefrenabile, crudele della società.
La breve e modesta guida alle Favole che offro in queste paginette si differenzia tanto da quella del rigoroso Couton (1962) – così preciso e convincente nell’individuazione delle fonti più probabili dell’opera e nella messa a fuoco di molti dei suoi capisaldi ideologici – quanto da quella tuttora ammirevole di Vittorio Lugli (1958) – saggista di superba finezza che, in tale occasione, si mostrò peraltro attento in special modo agli aspetti più propriamente stilistici dei componimenti –, poiché vuole porre l’accento sul loro valore morale che (non solo a mio avviso) è di centrale importanza per comprenderne il significato più autentico. Si tenga presente, infatti, che lo scrittore francese non voleva soltanto appagare, divertire e informare il suo pubblico, ma aspirava altresì a formarlo e migliorarlo, insegnandogli piacevolmente un’“arte di vivere” serena, moderata e lontana da qualsivoglia fanatismo.
Il ritrattista letterario che aspiri a delineare un profilo convincente e, per quanto possibile, fedele di Jean de La Fontaine è costretto a fronteggiare non piccole difficoltà. In verità, questo letterato a un tempo brillante e atrabiliare, sulla cui biografia si sono costruite troppe leggende, sfugge a ogni formula che miri a definirlo in termini chiari e distinti.
Dietro una maschera (ch’egli stesso, peraltro, contribuì ad accreditare) di uomo di lettere sognatore, distratto, pigro e mattacchione, si nasconde in realtà un temperamento inquieto, tormentato e non sempre limpido. La sua vita presenta, senza dubbio, non poche e non esigue contraddizioni, che rifluiscono, almeno in parte, anche nelle sue varie e policrome opere: amava l’irregolarità dell’asimmetria, ma apprezzava altresì l’ordine simmetrico (questo amore-odio per la simmetria, a dire il vero, ci pare emblematico non solo del suo gusto, ma dell’intera sua personalità); si autodefiniva indolente e accidioso, ma non poteva fare a meno di vagabondare senza posa in ambienti sempre nuovi e diversi; voleva apparire spensierato, distratto e un po’ sonnacchioso, ma di fatto desiderava conseguire, in virtù dei suoi versi e delle sue prose, mete ambiziose ed ardue quali successo, fama e immortalità; affermava di dilettarsi nel riposo e nell’ozio, ma – come ha ben dimostrato, ormai molti decenni or sono, Paul Valéry (1921) in un arabesco critico eloquente – i suoi versi testimoniano un travaglio di ricerca stilistica rigoroso e infaticabile, degno del più esigente e scaltrito fra i classici. Apprezzava ed emulava i poeti contemporanei, ma considerava suoi mentori artistici, oltre a imprescindibili classici greci e latini, autori demodés quali Marot e i suoi discepoli, nonché Rabelais – immenso e immortale soltanto dal Romanticismo in poi… – e altri prosatori del Cinquecento europeo che, disgraziatamente, da decenni sono perlopiù frequentati soltanto da specialisti; adorava poi l’ordinato, terso e controllato nitore dello stile classico, antico e moderno, ma non rifiutava (anzi, accoglieva e praticava) le bizzarre e cangianti fantasie di un Barocco ormai al tramonto.
Sosteneva, ancora, di amare la calma riflessiva della solitudine dei boschi e dei campi, ma non seppe mai rinunciare al commercio umano, alle sue mille amicizie (frequentò infatti non solo nobili, scrittori, filosofi, ecclesiastici e magistrati, ma anche libertini, donne ambigue d’ogni età, gente del popolo e dei campi); aspirava alla tranquillità campestre, ma, una volta isolatosi, non riusciva a sopportarsi. Raccomandava, soprattutto nelle Favole, una saggezza ragionevole e composta, ma la sua condotta fu, spesse volte, tutt’altro che conforme ai suoi pur sfumati precetti; si scagliò, talora ferocemente, contro la Corte e i cortigiani, ma egli stesso si dimostrò in più circostanze adulatore (a dire il vero, in certi casi piuttosto goffo e maldestro) dei potenti; non disdegnava la bella vita e le compagnie discutibili, ma seppe essere (soprattutto negli ultimi anni) cristiano non solo sincero, ma tanto fervente da portare il cilicio. Scriveva racconti d’argomento quasi osceno, ma cantava contemporaneamente le virtù cristiane della padronanza di sé e della castità. Navigò fin quasi alla senilità nel dolce mare «che sempre ricomincia» (alludo al Valéry poeta, naturalmente) delle voluttà, ma tremava – in special modo all’approssimarsi dell’ora fatale – pensando al giudizio di Dio e ai tormenti della dannazione; caldeggiava una morale utilitaria e disincantata, ma credette toto corde in alti valori quali l’amicizia e la solidarietà. Nelle Favole vuole dare consigli coscienziosi e savi ammaestramenti, ergendosi così a educatore, ma in molti Racconti si rivela scrittore licenzioso e osé – per non dire scollacciato e quasi triviale.
Chi era dunque Jean de La Fontaine? Un immorale libertino, pentito solamente in articulo mortis, un maldestro adulatore di provincia, un allegrone egoista ed edonista, un debole geniale e svagato, un falso distratto, un moralista un po’ ipocrita, un artista melancolico prossimo a qualche nevrosi, un “filosofo di campagna” in potenza e, alle volte, in atto, un puer aeternus, un dongiovanni frustrato e disilluso?
Nessuna di queste definizioni riduttive e semplificanti, come anticipato, si attaglia a siffatta individualità irrequieta che, a disagio con se stessa e con il mondo, ha cercato di convivere con le proprie travagliose inquietudini nella maniera il più possibile piacevole e gratificante.
Conviene così lasciare la parola a Giovanni Macchia (1967) che, anche in grazia di una lunga, irrequieta meditazione degli opera omnia, mi pare ancor oggi voce imprescindibile circa la psicologia labirintica e metamorfica del nostro homme de lettres:
E l’autore? Dietro le sue quinte è il personaggio più difficile a definire. E penso che sia consigliabile non tirarlo fuori dalla sua ombra. Sorprendiamolo se mai in alcuni suoi atteggiamenti. […] Malinconia. Senso vago di ciò che è fuggevole, insidiato dal tempo, ma da cui la bellezza ha come un riflesso più intenso. Sgomento lieve sulla fine di tutto, della bellezza e dell’amore. Dalle quinte del suo teatrino, La Fontaine pensa forse che in lui non viveva soltanto il pratico topolino sedentario. Egli somigliava anche all’agile piccione, a uno dei suoi due piccioni innamorati, o c’erano tutti e due nella sua anima, quello che non si sarebbe mosso dal nido, e l’altro dall’umore inquieto, che sognava paesaggi in lontani paesi, a cui bastavano pochi giorni di avventure per calmargli l’animo.
Siffatta illuminante valutazione complessiva è stata, in qualche misura, aggiornata e articolata da Georges Forestier (1993), uno dei migliori esperti viventi del miglior Seicento francese:
Non si finirebbe mai di enumerare l’insieme delle sue contraddizioni: gusto per l’indipendenza e costante dipendenza economica, ironia nei confronti delle ambizioni umane e desiderio di riuscire nella propria carriera d’autore, ricerca della voluttà e propensioni alla penitenza, pubblicazione quasi simultanea di componimenti religiosi e della più licenziosa delle sue raccolte di Contes, fierezza di fare qualcosa di nuovo con le sue Fables e schieramento nel campo degli “Antichi” contro i “Moderni” e cosi via. Tali contraddizioni, se da un lato hanno evitato all’uomo la tragedia che la sua vita sarebbe potuta diventare nel caso egli fosse rimasto fino all’ultimo incondizionatamente fedele a Foucquet, dall’altro non sono sicuramente da attribuirsi a un doppio gioco libertino: esse stanno piuttosto alla base di un’opera multiforme, e appaiono in larga misura come il riflesso di un carattere. Ma non bisogna dimenticare che sono anche il riflesso di un secolo: il Seicento è il secolo del libertinaggio e il secolo dei santi; è il secolo dello splendore alla Luigi XIV e dell’austerità di Port-Royal; il secolo della tragedia regolare sempre più spoglia e dell’opera…
Pienamente consapevole di molte carenze etico-spirituali sue ed altrui, La Fontaine tentò comunque di elaborare una morale realista (ma non cinica) e piena di buon senso, proporzionata alle numerose e variegate debolezze umane. Epicureo privo di magnanime illusioni e di grandi speranze – così appare, perlomeno, nei suoi capolavori – non poté far proprio il virile e perseverante razionalismo dell’etica neostoica o comunque stoicheggiante ancora assai diffusa, come risaputo, nel Seicento. Pur scarsamente dotato di autodisciplina e di costanza, questo scrittore, che lasciò incompiute o frammentarie diverse sue opere, manifestò peraltro in più occasioni una generosa e intensa umanità, che gli permise di comprendere (non già di scusare o giustificare) le bassezze sue e dei suoi simili.
Artigiano peritissimo del verso e abile prosatore, evocò con maliziosa finezza, soave precisione e sensibilità squisita, situazioni e caratteri, paesaggi e stati d’animo, animali e oggetti, piante e palazzi, conflitti e idilli, amore e odio, gioia e dolore, vita e morte.
I suoi personalissimi versi – soltanto in apparenza semplici e senz’altro classici, nonostante quella loro varia irregolarità che sbalordì e sconcertò non solo i pedanti della sua epoca – rappresentarono il mezzo espressivo più adatto per un artista insieme bizzarro, sbarazzino, erudito e ferreo, quale fu, e in parte si compiacque di essere, Jean de La Fontaine.
Riguardo all’inquietudine del poeta, Pierre Clarac (1961) ha scritto penetranti considerazioni:
Inquiète, c’est le mot qui, de lui-même vient sous sa plume, toutes les fois qu’il parle de son âme. Il ne s’agit pas, on l’entend, d’un tourment philosophique ou religieux, d’une angoisse romantique, mais d’un incessant besoin de changement et de nouveauté, du refus de se fixer où que ce soit, de s’enfermer dans un genre, d’adopter un système, de se soumettre à une discipline, de renoncer à rien de ce qui le tente ou l’amuse.
Prima di accennare ad alcuni temi e problemi centrali delle Favole di La Fontaine, pare utile fornire o rammentare al lettore alcuni dati fondamentali sul genere letterario della favola.
La favola è una breve narrazione in prosa o in versi che, diversamente dalla fiaba, viene composta a fini scopertamente morali: il favolista, infatti, vuole spingere il suo “uditorio” tanto a guardarsi dentro, con occhio franco e disincantato, per migliorarsi, quanto a scrutare il profilo autentico dei rapporti sociali, le loro leggi e le loro vergogne.
Attori in quel microteatro che ogni favola rappresenta sono quasi sempre gli animali, simboli evidenti e cristallini di virtù e vizi squisitamente umani. Solo in casi sporadici i protagonisti delle favole sono uomini, dei od oggetti inanimati. Ogni favola ha poi una “morale”: se esplicitamente enunciata, essa è collocata, di solito, al termine della narrazione.
La storia della favola occidentale (genere d’origine popolare assurto a dignità letteraria soltanto nella Grecia del VI secolo a.C.) si suole fare iniziare da Esopo, figura leggendaria di schiavo frigio, deforme, ma saggio e avveduto, vissuto per l’appunto nel VI secolo avanti Cristo. A lui è attribuita una nutrita raccolta di favole dalle quali non è arduo trarre una visione piuttosto pessimista e rassegnata (a tratti un po’ cinica) del mondo e dell’uomo. In una realtà sociale ove comandano e spadroneggiano i più forti, solo gli accorti e gli astuti possono sperare di sopravvivere. Solamente ottemperando ai moderati, semplici e concretissimi precetti di un’etica quanto mai realistica nata da un’aspra esperienza di vita, infatti, si può sfuggire a inganni, sogni, ambizioni o illusioni che di certo si rivelerebbero pericolosi, se non fatali.
Nell’ambito della civiltà romana, il modello esopico fu felicemente imitato da Fedro (I secolo a. C.), che scrisse cinque libri di Favole in versi latini (senari giambici). Pur accogliendo l’acidula morale di Esopo, egli arricchì i precedenti greci con le valenze di una comicità vivace, corposa e pittoresca.
Oltre a questi due giganti, molti altri autori di minor notorietà e respiro si cimentarono, poi, nel genere: fra questi ci limitiamo a menzionare l’orientale Valerio Babrio (II secolo d.C. ca.), che compose ben dieci libri di favole in scazonti greci, e Flavio Aviano che, vissuto al tramonto del IV secolo d.C., fu autore di quarantadue favole in distici elegiaci latini non troppo felici né originali.
La tradizione classica e tardo-classica confluì, insieme con vari ed eterogenei apporti orientali (India, Arabia, Persia), nella favola medievale in cui l’impegno pedagogico-morale si presenta peraltro più marcato.
Dopo un’innegabile decadenza quattrocentesca, la favola rifiorì nel Cinquecento e, nuovamente apprezzata da non pochi letterati europei, fu coltivata e amata anche da autori del calibro di Agnolo Firenzuola o di Clément Marot.
Nel Seicento, solamente La Fontaine, di fatto, seppe rielaborare e reinventare la miglior parte del corpus favolistico delle epoche antecedenti con grazia, finezza, ironia e – perchè no – malizia tutte francesi. Solo in grazia del suo straordinario talento, la favola divenne un’opera d’arte non esclusivamente utile, ma anche armoniosa, euritmica, speculativamente fonda e, non di rado, inflessibile quanto la katana di un valoroso samurai.
Ma, in merito all’incomparabile arte compositiva di questo geniale, inafferrabile poligrafo, conviene ascoltare Lionello Sozzi: muovendosi superbamente tra una celebre quanto folgorante citazione sulle Fables tolta dal Voyage au Congo (1925) di Gide («Celui qui sait bien voir peut y trouver trace de tout; mais il faut un oeil averti, tant la touche, souvent, est légère. C’est un miracle de culture. Sage comme Montaigne, sensible comme Mozart»), l’evocazione di un grande libro del ’39 di Lugli (1885-1968) – carissimo, inter alios, a Trompeo, Macchia, Anceschi, Ezio Raimondi, nonché a parecchi insigni esegeti d’Oltralpe – e, infine, i migliori approdi della crenologia lafontainiana d’oggi, il maestro torinese ha sintetizzato da par suo in uno dei suoi ultimi volumi (2004):
Un “miracolo di cultura”. Un critico italiano, Vittorio Lugli, ha parlato del “prodigio” di La Fontaine. Il prodigio consiste nell’apparenza d’ingenuità, semplicità, immediatezza di un linguaggio poetico che poi in realtà tradisce, all’analisi, l’arte più studiata e la preparazione più puntigliosa. Chi si diverta allo studio delle ‘fonti’ del nostro favolista (oggi si parlerebbe, a dire il vero, della loro ‘intertestualità’), ha quasi l’impressione che, per ogni favola, La Fontaine sappia tutto, conosca tutto, abbia letto tutti gli antecedenti, Fedro ed Esopo, il Romulus medioevale e i predicatori del XII secolo, Aviano e Faerno, gli umanisti del Quattrocento e i novellatori del Cinquecento, Verdizzotti e l’anonimo di Nevelet, gli autori a lui contemporanei (ad esempio Mathurin Régnier) e il Livre des lumières che esce nel Seicento sotto il nome del favolista indiano Pilpay, tanto certi particolari e determinati spunti sembrano legati a questo secolo o a quel modello, a questo o a quel precedente: si ha l’impressione che il favolista, che un’immagine di maniera ci dipinge pigro e assonnato, non componesse affatto le sue favole passeggiando bucolicamente tra prati e boschi, ma a tavolino, tra vecchi incunaboli e antichi manoscritti.
Nel secolo successivo, e limitandoci solo all’Italia, La Fontaine ebbe numerosi estimatori, imitatori e traduttori, fra i quali non possiamo non ricordare Tommaso Crudeli, Aurelio de’ Giorgi Bertòla, Gasparo Gozzi, Lorenzo Pignotti, Luigi Fiacchi (più noto con lo pseudonimo di Luigi Clasio), Giovanni Meli – l’insigne, poliedrico umanista palermitano amato sinceramente, inter alios, da Goethe – e il famoso e famigerato abate Giambattista Casti, autore, fra il resto, degli Animali parlanti (1794-1801), poema in ventisei canti colmi di motivi cupamente satirici.
Anche alla luce di quanto or ora argomentato, un aspetto della personalità di La Fontaine da rimarcare con particolare energia è il suo amore appassionato e fedele per la lettura e i libri, sentimento che manifestò in maniera coerente con la sua indole discontinua, inquieta e non priva di tratti decisamente nevrotici. In gioventù, divorò con l’entusiasmo del curioso che s’inizia alle lettere l’Astrée di Honoré d’Urfé, il monumentale romanzo pastorale-galante traboccante non solo di descrizioni preziose e delicate, ma altresì di anatomie psicologiche (soprattutto circa i diversi momenti della passione amorosa) approfondite e sapienti. Non per caso un regista di cultura, sottigliezza ed eleganza straordinarie come Eric Rohmer ha dedicato all’immane narrazione il suo ultimo lungometraggio, Les amours d’Astrée et de Céladon (2007), che deve forse considerarsi un suo testamento spirituale.
Non disdegnò, inoltre, i ponderosi romanzi di Mademoiselle de Scudéry, allora di gran moda, e fu alquanto sensibile sia ai versi algidi quanto cristallini di Malherbe, sia alla poesia lieve e aggraziata di Voiture, Théophile, Saint-Amant, Tristan l’Hermite e degli altri lirici barocchi.
Come dianzi accennato, altri suoi auctores diletti furono poi le due figure più simpatiche e scanzonate – con buona probabilità – del Rinascimento francese: il bizzarro e spiritoso poeta Clément Marot (geniale nell’arte dell’apologo e abilissimo pittore di animali) e l’accattivante medico-giurista-umanista e romanziere François Rabelais.
È noto poi che La Fontaine, attento lettore di pensatori antichi e moderni quali Platone, Lucrezio, Montaigne, Cartesio e soprattutto Gassendi, si dedicò (specialmente nella maturità e in vecchiaia) a questioni di filosofia naturale (l’anima degli animali, la circolazione sanguigna) e morale, nonché a problemi prettamente metafisici (il caso e la provvidenza, l’anima degli animali, la libertà del volere umano, la conoscibilità del divino etc.).
Soprattutto la raccolta di Fables del 1678-79 (libri VII-XI) è eloquente, come accennato, riguardo all’ampiezza di tali suoi interessi che, pur non facendolo ancora assurgere al rango di poète-philosophe, andarono ben al di là del mero dilettantismo d’una conversazione salottiera.
I punti di riferimento principali e costanti di La Fontaine furono, comunque, i classici greci e (in special modo) latini, da lui sempre considerati figure mirabili e insuperate. Il loro alto e nobile magistero etico, artistico e spirituale rappresentava per il nostro umanista libertino e “spettinato” una schiera virtuosa di exempla da cui era impensabile prescindere.
Fautore, ancorché atipico, degli Antichi nella celeberrima Querelle des Anciens et des Modernes, La Fontaine amò Omero, Terenzio (si ricordi che la sua prima opera pubblicata fu un adattamento dell’Eunuco), Virgilio, Ovidio (si pensi soltanto all’Adonis), Apuleio (dal quale trasse l’argomento delle Amours de Psiché et Cupidon), ma soprattutto Orazio, che apprezzò tanto come maestro di stile che come maestro di vita: d’altronde, l’aurea mediocritas (ovvero, la serena medietà) del poeta venosino rappresentò per l’inquieto e volubile La Fontaine un ideale sospirato, giammai di fatto pienamente raggiunto.
Avendo fin dalla giovinezza frequentato ambienti assai diversi (paesani, ecclesiastici, accademici, forensi, cortigiani…), La Fontaine si rese ben presto conto della caleidoscopica, e spesso tagliente, complessità del reale, e non tardò a intendere che, per districarsi nei meandri di un mondo come il suo, fatto di specchi deformanti e di apparenze ingannevoli, era più che mai necessario munirsi di una guida solida e fidata.
Siccome, poi, sapeva ridere di se stesso e degli altri, non si lasciò vincere dalla disperazione e dallo sconforto (contrariamente a certi suoi contemporanei) allorché prese coscienza, dopo lunghe e ponderate osservazioni, della crudele meschinità dei suoi simili, dominati e spesso travolti da irrefrenabili e divoranti passioni. Anzi, curioso, caustico e arguto com’era, si divertì a esaminare minuziosamente le loro mille e mille cadute morali di varia natura (vanità, orgoglio, ira, sensualità incontrollata etc.), smascherando così, con la finezza del cesellatore, anche alcuni tratti reconditi e oscuri del cuore umano.
Tutto questo repertorio di analisi sulla psicologia non solo del singolo, ma anche della massa, rifluisce nel suo capolavoro, le Favole. Dietro le opulente dorature, i fasti scintillanti e la gran pompa del “secolo di Luigi XIV”, si celavano infatti sopraffazioni, violenze, menzogne, invidie, gelosie, tradimenti e ipocrisie d’ogni sorta.
Come difendersi (o meglio, salvarsi) da un contesto sociale tanto ambiguo, infido e pericoloso? Secondo il nostro smaliziato affabulatore, l’unica via di scampo poteva ritrovarsi, appunto, in una guida morale sicura e affidabile, in grado cioè sia di strappar la maschera alle esteriorità ammalianti e bugiarde, sia di dirigere la condotta in maniera più accorta ed equilibrata. Solo diffidando degli uomini (di molti, se non di tutti), e in primo luogo di se stessi, e fondando il proprio comportamento su regole umane e moderate, lontane da ogni slancio eroico – pare suggerire La Fontaine – è possibile raggiungere quella serenità cui egli stesso aspirò (peraltro invano), se non sempre, di certo per buona parte della sua vita.
È risaputo che lo scrittore, soprattutto all’epoca dei primi sei libri delle Favole, fece proprie e divulgò la morale e, più in generale, la Weltanschauung caratteristiche della tradizione favolistica greca e latina: esse, come è noto, costituiscono il precipitato di secoli e secoli di vissuti dolorosi e traumatici, patiti da individui schiacciati, oppressi o raggirati da altri più potenti, scaltri o crudeli.
Lo sguardo di La Fontaine, ora benevolo ora impietoso, analizza con un realismo che si propone di essere obiettivo, e in certi casi sferzante, il complesso contesto sociale: egli offre così, dietro la finzione dell’apologo e le maschere degli animali, ritratti felicissimi e precisi tanto degli umili (contadini o plebe urbana), vinti sempre gravati da dolori, sventure e soprusi, quanto dei “grandi” (nobili, ecclesiastici, giuristi, medici…) che, avidi e mai sazi di piaceri e di potere, non perdono occasione per sfruttare brutalmente i più deboli. Questi, dal canto loro, possono sperare di salvarsi soltanto se si dimostrano cauti o astuti: una sola distrazione, infatti, potrebbe rivelarsi fatale per loro.
Le Favole di La Fontaine sono davvero una “commedia umana” divisa in cento atti. In queste 245 composizioni – di ampiezza variabile e strutturalmente assai libere – egli non dipinge soltanto il contadino, il cortigiano, la dama o il re del suo secolo, ma anche l’uomo “ideale eterno”, di tutti i luoghi e di tutti i tempi, con le sue (molte) miserie e le (poche) sue virtù, i suoi non lievi problemi e i suoi fragili successi, le sue palesi sconfitte e i suoi effimeri trionfi.
Uno dei prodigi di La Fontaine favolista – ha rimarcato acutamente Giovanni Macchia in un’altra, fortunata sua fatica (1987) – sta proprio nel modo con cui egli ha superato l’arido dilettantismo della favola, a cui non sfuggono i favolisti più consumati, suoi maestri e padri. Egli riuscì ad annullare un certo bisogno del «proverbio», del moraleggiare, dove si risolveva la sua insoddisfazione del «conter pour conter» con un piacere del meraviglioso o, appunto, del favoloso. La favola condensava un po’ tutto: un mondo lirico, teatrale, narrativo. Gli animali parlavano sullo sfondo vivido e variopinto della natura, e si agitavano in tutti i sensi, mostrando la loro varia natura e i colori diversi, personaggi di una commedia universale che può avere tanti significati e nessuno, come la vita stessa. E il moralismo, sotto quel sorriso (la lieve ironia di un meraviglioso regista) si attenua, sino a scomparire del tutto.
Si è già detto sopra che, mentre nella prima raccolta di Favole (1668) il poeta si è mantenuto vicino ai modelli classici (non solo Esopo e Fedro, ma anche Aftonio, Babrio e Aviano) e cinque-secenteschi (Abstenius, Faerno, Domenichini, Corrozet, Guéroult, Nevelet), nella seconda (1678-9) non teme di cimentarsi in tematiche ben più profonde e di assai più ampio respiro: fra l’altro, la morte, il destino, la volontà di Dio, il senso autentico della vita, ma soprattutto l’esistenza e la natura dell’anima degli animali, problemi veementemente dibattuti sui quali La Fontaine meditò e si documentò con particolare interesse, giungendo a elaborare una teoria in consonanza con quella dei seguaci di Pierre Gassendi.
Sulle Fables del 1678-79, Georges Couton (1962) ci ha consegnato alcune penetranti osservazioni:
La seconda raccolta delle Fables è un diario intimo cui si affidano una persistente e fremente sensibilità e una mente agile. Le Fables sono diventate una specie di summa, in cui si manifestano tutte le idee di un individuo che nascondeva sotto un’apparenza disincantata un acuto spirito d’osservazione, tutta la sua sensibilità, con le risorse di un’arte rotta a tutti gli stili e che traeva il meglio da questi. Il poeta sboccia con straordinaria libertà.
Nella prima come nella seconda raccolta, nondimeno, La Fontaine non si limita a mettere in versi un apologo tradizionale o una novelletta esotica (tratta magari dal Libro delle luci di Pilpay, una raccolta di fiabe indiane allora assai à la page), ma rielabora e reinventa sempre in maniera personalissima i diversi materiali a sua disposizione.
Invero, in questi componimenti frizzanti, musicali, amabili e raffinati, è palpabile tutta l’inquieta personalità del poeta: la sua affabile gaiezza e le sue malinconie, il suo lucido, inimitabile moralismo critico, la sua predilezione per la vita dei campi e il suo gusto per la causerie, ossia in prevalenza per la civile conversazione in salotto, la predilezione estetica per una grazia classica sovente non dimentica delle fantasmagorie barocche.
Nelle Favole è inoltre rinvenibile la quasi totalità dei generi poetici: alcune sono, infatti, teneri idilli, altre elegie sentimentali, altre brevi racconti, altre sentenziose epistole, altre vivaci satire, altre discorsi ampi e profondi, altre, infine, piccoli dialoghi d’invidiabile vivacità.
In tale caleidoscopico universo in compendio, il lettore non viene soltanto riempito (anzi, inebriato) di immagini, situazioni e precetti attraenti o utili, ma è altresì continuamente stimolato a conoscere meglio se stesso e la realtà effettuale in cui è immerso. In una parola, il lettore delle Favole non può essere un mero fruitore, ma deve necessariamente partecipare al “gioco” in prima persona.
Come hanno valutato La Fontaine e il suo capolavoro i molti critici e scrittori che, in questi secoli, hanno espresso un giudizio in merito?
L’intelligente ma dogmatico critico-poeta Boileau, per esempio, si guardò bene dal menzionare il nostro poeta nella sua celeberrima ars poetica – vero e proprio manifesto e, nel contempo, Parnaso per due secoli aurei della civiltà letteraria di Francia –, dal momento che, da classico piuttosto rigido qual era, non considerava la favola un genere letterario degno di questo nome, bensì un mero strumento di educazione. Al contrario Molière, genio per tanti aspetti affine al favolista, lo tenne sempre in alta stima.
Tanti suoi contemporanei, a ogni buon conto, contribuirono a creare un’immagine di La Fontaine tanto diffusa quanto improbabile e fuorviante: essi lo presentavano, in sostanza, come un buontempone svagato, pigro, nonché oltremodo distratto e svampito. Ciò nondimeno, come già mostrarono inequivocabilmente (ma soltanto due secoli dopo) Sainte-Beuve, Brunetière, Lanson, Faguet, Strowski e parecchi altri studiosi de race – accomunati, in primis, da una formazione squisitamente ottocentesca che, va da sé, oscillava di continuo fra Romanticismo e Positivismo – il suo profilo autentico è assai più sfumato, inafferrabile e, talora, finanche misterioso.
Pur apprezzando, come del resto la maggior parte degli Illuministi, il geniale talento del Nostro, Rousseau, come rammentato sopra, non considerava le Favole una lettura adatta ai fanciulli: complesse e variegate come sono, infatti, avrebbero potuto, a suo avviso, corrompere e compromettere definitivamente i loro costumi in formazione. Chamfort, dal canto suo, sottolineava – in primis nel suo accorato Éloge de La Fontaine (1774) – la naturalezza quasi istintiva della sorridente morale di La Fontaine, educatore sereno e comprensivo, nonché artista delicato e irreprensibile.
Quanto invece a Lamartine, diversamente da altri Romantici, afferma a chiare lettere, nella perentoria Préface (1849) all’edizione ne varietur delle Méditations poétiques, di non aver mai condiviso né l’etica né lo stile del nostro favolista, da lui considerato uno spirito gretto e piccino che aveva composto senz’arte né gusto versi zoppi, irregolari e cacofonici. In disarmante sintonia con tale discutibilissimo ordine d’idee si porrà, nel Novecento, Paul Eluard.
Il pungente ma sempre perspicace Sainte-Beuve dei Portraits, viceversa, diede una valutazione decisamente positiva di questo letterato arguto, salace e così tipicamente francese, che seppe sorridere (e far sorridere) magistralmente delle mille e mille follie degli uomini, da lui ognora analizzati con garbato disincanto. Per il ben meno brillante Nizard, La Fontaine è comunque il letterato che meglio incarna il bizzarro e vivace “genio” francese.
Nel Novecento, oltre a far luce sul volto vero del favolista (ossia sulle sue inquietudini, la sua accortezza e il suo perfezionismo), la critica si è sforzata di individuare in maniera metodica e precisa le fonti di cui il francese si avvalse per la composizione delle sue opere. Sicché dai non pochi, e spesso scientificamente rigorosi, studi compiuti emerge assai più limpida e appagante l’immagine di un uomo insieme irrequieto e malinconico, sognatore e pragmatico (talora sino all’opportunismo), liberale e individualista, di un moraliste disingannato e realista, ma non privo di sincera attenzione ai migliori sentimenti umani e – forse più che tutto – di un artista meticoloso e quanto mai esigente, incontentabile, di gusto realmente sopraffino.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
A. Opere di Jean de La Fontaine
Mi limito a ricordare, in questa sede, alcune edizioni moderne e contemporanee tuttora in commercio.
Fables, Contes et Nouvelles, a cura di E. Pilon, R. Groos e J. Schiffrin (1948), Paris, 1966
Œuvres complètes, con prefazione di P. Clarac, e introduzione e note di J. Marmier, Paris, 1965
Fables, a cura di G. Couton, Paris, 1962
Œuvres diverses, a cura di P. Clarac, Paris, 1968
Fables, a cura di J.-P. Collinet, Paris, 1974
Contes et Nouvelles en vers, a cura di J.-P. Collinet, Paris, 1980
Contes et Nouvelles en vers, a cura di A.-M. Bassy, Paris, 1982
Œuvres complètes, tome I, Fables, Contes et Nouvelles, a cura di J.-P. Collinet, Paris, 1991
Fables et Contes (1995), a cura di A. Versaille, prefazione di M. Fumaroli, Paris, 2018
Fables (1997), a cura di M. Fumaroli, Paris, 2012
B. Alcune traduzioni italiane
J. de La Fontaine, Favole, a cura di V. Lugli, trad. di E. De Marchi [1885-1886], Torino, 1958
J. de La Fontaine, Favole, introduzione [e note] di G. Couton [1962], trad. di E. De Marchi [1885-1886], Milano 2005, 2 voll.
J. de La Fontaine, Favole (1937), a cura di M. Zini, Torino, 1969 [Fortunato florilegio di versioni prosastiche.]
J. de La Fontaine, Quaranta favole (1952), tradotte da D. Valeri, introduzione di A. Pizzorusso, nota di P. Pallottino, Firenze, 1988
J. de La Fontaine, Favole scelte, a cura di G. Montesano, Milano, 1992
La Fontaine, Gli amori di Psiche e Cupido [con testo a fronte], a cura di S. Spero, introduzione di F. Garavini, Venezia, 1998
La Fontaine, Favole (Libri I-VI) [con testo a fronte], a cura di L. Pietromarchi, Venezia, 2017
C. Studi storici e critici su La Fontaine
Credo rimanga buona norma affrontare lo studio della figura e dell’opera di ogni autore partendo da validi e autorevoli testi di carattere generale (storie letterarie, dizionari, enciclopedie etc.). Fra i lavori monografici e i saggi universalmente giudicati di qualità, ci limitiamo qui peraltro a indicare alcuni libri che, mutatis mutandis, appaiono tuttora indispensabili – non certo solo a mio sentire – per le ricerche scientifiche di domani.
Ch.-A. de Sainte-Beuve, Port-Royal, Paris, 1840-59, 5 voll. (trad. it. Port-Royal, a cura di S. D’Arbela, introduzione di A. Adam, Firenze, 1964, 2 voll., II, spec. pp. 459-455)
Id., Portraits littéraires, vol. I, Paris, 1862, pp. 51-67
H. Taine, La Fontaine et ses Fables (1861), Lausanne, 1970
P. Toldo, Fonti e propaggini italiane delle favole del La Fontaine, Torino, 1912
A. France, Remarques sur la langue de La Fontaine, in Id., Le génie latin, Paris, 1913 (ora in J. de La Fontaine, Fables et Contes, a cura di A. Versaille, cit., pp. LXXI-XC)
É. Faguet, La Fontaine (1913), Paris, 1930
P. Valéry, Au sujet d’«Adonis» (1921), ora in Id., Œuvres, a cura di J. Hytier, tome I, Paris, 1968, pp. 474-495; trad. it. in Id., Varietà (1971), a cura di S. Agosti, Milano, 2019, pp. 63-92
F. Strowski, Histoire des lettres. De Ronsard à nos jours, Paris, 1923, spec. pp. 267-280
R. Bray, Les fables de La Fontaine, Paris, 1929
F. Gohin, L’art de La Fontaine dans ses fables, Paris, 1929
L. Garnier, La vie de notre bon Jean de La Fontaine, Paris, 1937
J. Giraudoux, Les cinq tentations de La Fontaine (1938), Paris, 1995
L. Spitzer, L’arte della transizione in La Fontaine (1938), in Id., Critica stilistica e storia del linguaggio, Bari, 1954, pp. 161-226
V. Lugli, Il prodigio di La Fontaine, Messina-Milano, 1939
G. Macchia, Il prodigio di La Fontaine (1939), in Id., Gli anni dell’attesa, Milano, 1987, pp. 92-96
J. Vianey, La psychologie de La Fontaine étudiée dans quelques fables, Paris, 1939
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J. Rousset, La littérature à l’âge baroque en France. Circé et le paon, Paris, 1953; trad. it. Bologna, 1985, passim
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