La Cina nell’inconscio: teoria e prassi del dao secondo Jung
Matteo Sgorbati, La Cina nell’inconscio: teoria e prassi del dao secondo Jung, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 53, no. 12, giugno 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.9799
Is the life of the mind a history of interesting mistakes? More pertinently: is the surest way to a fructive western idea the misunderstanding of an eastern one?1
‘Occidente’ e ‘Cina’ come opposti linguistico-cognitivi
Se si leggono le opere dei non pochi autori occidentali che hanno scritto di Cina senza una vera e propria formazione linguistica e sinologica ci si imbatte con certezza quasi matematica in un’interpretazione della scrittura cinese come alternativa radicale a quella alfabetica. Tale circostanza ha fatto sì che nel corso della storia intellettuale moderna e contemporanea dell’Occidente alla lingua e al pensiero cinese sia stata attribuita un’essenza sui generis, di norma di natura olistica, pittorica e concreta2. Diversamente le civiltà occidentali sarebbero portatrici di un modo di esprimersi e di pensare di tipo analitico, concettuale e astratto, caratteristiche ascritte alla modernità in quanto tale.
Così raccontati e concettualizzati in una miriade vorticosa di discorsi, ‘Occidente’ e ‘Cina’ stanno a indicare due poli estremi e irriducibili dell’esperienza dell’animale umano, isolati nella loro purezza linguistico-cognitiva. A questi due poli sono dunque attribuite delle proprietà linguistiche e di pensiero irriducibili l’une alle altre3. Nel periodo storico che qui prendiamo in esame questo mito, come lo ha recentemente definito il sinologo e filosofo Edward Slingerland, ha reso possibile in Occidente uno studio destoricizzato e decontestualizzato dei testi provenienti dalla Cina e della lingua cinese4. In virtù di questa proclamata differenza il pensiero cinese risulta essere un termine di riferimento privilegiato per l’Occidente, nonché un potenziale strumento per la formulazione di teorie sulla mente.
Non deve pertanto stupire che autori come Sigmund Freud (1856-1939) e Carl Gustav Jung (1875-1961), i quali hanno contribuito a plasmare l’universo culturale e la rete dei significati in cui viviamo, ricorrono a vario titolo, e con esiti piuttosto simili, a questo mito per illustrare e legittimare le loro idee. Entrambi muovono da considerazioni sulla lingua cinese di natura linguistica, o forse sarebbe meglio dire pseudo-linguistica, per alimentare a vario titolo le rispettive proposte teoriche e psicoterapeutiche. Freud definisce la psicoanalisi come un metodo per ottenere informazioni sui processi psichici, una terapia psicologica e una teoria sul funzionamento e sviluppo psicologico dell’uomo5. Dal canto suo Jung considera originariamente la terapia della parola (talking cure) anzitutto come un lavoro sulle nevrosi, le quali richiedono un bilanciamento delle parti consce e inconsce della psiche. In ciò egli ravvisa non tanto una metodica quanto piuttosto un aiuto al naturale «sviluppo della personalità6», ovvero «un riaggiustamento dell’atteggiamento psicologico» e non una mera ‘cura’ a cui ci si sottopone per un certo periodo prima di essere congedati con l’avvenuta ‘guarigione’7.
In questo articolo seguiamo piuttosto Foucault nel considerare la psicoanalisi non tanto nel suo aspetto ‘specialistico’, strettamente teorico e clinico, quanto piuttosto come una famiglia di pratiche discorsive8, al cui interno prese corpo un discorso sulla Cina. Lo studio di quest’ultimo risulta strategico, in quanto esso è centrale per la psicoanalisi sia a livello teorico che terapeutico, sebbene sia al tempo stesso poco noto – specialmente per quanto riguarda Freud – e ‘allucinato’ in senso derridariano nei suoi contenuti9.
Genealogia del discorso psicoanalitico sulla Cina
Richiamandosi a un pamphlet del 1884 a opera del filologo Karl Abel (1837-1906) intitolato Sul significato opposto delle parole primordiali, Freud ritiene di aver scoperto nel cinese, più che in altre lingue europee, un equivalente del linguaggio onirico in virtù del carattere pittografico della sua scrittura e di alcune semplici regole di formazione di significati complessi. Abel e Freud considerano questa lingua arcaica e ‘primitiva’ (primitive)10, ed enfatizzano il fatto che alcuni segni grafici – i caratteri – talvolta risultano dalla fusione di due parole dal significato antitetico il cui significato risultante è diverso dai primi due11. Secondo lo storico e psicologo Geoffrey Blowers, che per primo ha studiato la presenza della Cina nell’opera freudiana, in questo articolo il padre della psicoanalisi si sta riferendo a caratteri come quello che denota la parola “bene”, hao 好, formato dal radicale nü 女, “donna”, e dall’elemento zi 子, “figlio”12.
Percorrendo una parabola che abbraccia in modo contrastivo-comparativo anche le lingue indoeuropee, Freud conclude il suo articolo – che porta lo stesso titolo del saggio di Abel – riconoscendo che «la nostra [di psichiatri] comprensione e traduzione del linguaggio onirico sarebbe migliore se fossimo più informati sull’evoluzione della lingua.13» In Freud il mito sulla lingua cinese risulta dunque fondamentale per comprendere il lavoro onirico, in quanto tramite esso la scrittura cinese diventa un modello concettuale per comprendere il funzionamento del meccanismo psichico, in particolare durante il sonno14.
Per quanto riguarda il sogno vero e proprio, esso viene concepito da Freud come una scrittura onirica di cui la psicoanalisi offre una scienza interpretativa: la Traumdeutung, detta anche onirocritica. Nell’Interpretazione dei sogni (1899) egli insegna che il sogno è testo censurato composto da un contenuto manifesto, ricco di forme espressive simboliche ma prive di un significato fisso, e da un contenuto latente, portatore del vero significato il quale può essere rivelato solo attraverso l’analisi15. Questo stato di cose renderebbe il lavoro dello psicoanalista simile a quello di chi interpreta un discorso cinese, in cui il significato polivalente dei singoli caratteri può essere disambiguato sulla base del contesto e dell’intuito dell’interprete.
Nell’edizione del 1914 dell’Interpretazione dei sogni, Freud aggiunge una significativa nota in cui specifica che i simboli onirici «sono spesso plurisignificanti e ambigui, di modo che, come nella scrittura cinese, soltanto il contesto ci consente di volta in volta l’interpretazione esatta [richtige Auffassung].16» Freud tornerà in modo sistematico su questo punto nelle sue celebri lezioni di introduzione alla psicoanalisi tenute durante i semestri invernali 1915-16 e 1916-17 all’Università di Vienna «dinanzi a un uditorio composta da medici e profani di entrambi i sessi.17» Nella quindicesima lezione Freud affronta le critiche di arbitrarietà al suo metodo di interpretazione simbolica dei sogni18. Nel rispondere ai suoi critici formula un argomento ricorrendo alla lingua cinese, che merita di essere riportato usando le parole stesse di Freud.
Parlando del lavoro onirico (Traumarbeit) egli sottolinea come esso «compie la traduzione dei pensieri onirici [Traumgedanken] in una forma primitiva [primitive] d’espressione, analoga alla scrittura ideografica [Bilderschrift].19» Subito dopo ricorre a un’espressione – “coincidenza degli opposti” – che ritroveremo in Jung20: «Sapete che la coincidenza degli opposti [Zusammenfallen der Gegensätze] nel lavoro onirico è analoga al cosiddetto “significato opposto delle parole primordiali” nei linguaggi più antichi» i quali «consentono una quantità di indeterminatezze che non tollereremmo nella nostra attuale scrittura.21» E infine trae le fila del discorso con un lungo paragrafo, qui tagliato nelle sue parti essenziali, dedicato al cinese:
«Una lingua e una scrittura oltremodo antica, ma usata ancor oggi da quattrocento milioni di persone, è quella cinese. Non crediate che io ne capisca qualcosa; mi sono informato su di essa solo perché speravo di trovare analogie con le indeterminatezze del sogno. E la mia aspettativa non è andata delusa.»
Dopo aver ricordato la polisemia dei caratteri cinesi e avere dichiarato che questa lingua difetta di una grammatica, prosegue dicendo che il cinese è composto
«solamente del materiale grezzo [Rohmaterial], proprio come il linguaggio dei nostri pensieri viene risolto dal lavoro onirico nel suo materiale grezzo [Rohmaterial], omettendo di esprimere le relazioni. Nel cinese, in tutti i casi di indeterminatezza, la decisione viene lasciata all’intelligenza dell’ascoltatore, che si lascia guidare dal contesto. […] Non necessariamente, dunque, l’indeterminatezza conduce all’ambiguità.22»
I linguaggi più antichi e primordiali come il cinese hanno per Freud una natura indeterminata che risulta inaccettabile per la chiarezza e la precisione della scrittura alfabetica, attraverso le quali si esprime un pensiero rigoroso e scientifico, come quello della stessa psicoanalisi. Il cinese è così concepito come un fossile vivente di una lingua ‘primitiva’ che per sua natura è prossima al meccanismo dell’inconscio. Allo stesso modo in cui il cinese è sì indeterminato ma non ambiguo, così anche i testo censurato di un sogno può essere indeterminato, ma la sua interpretazione non sarà necessariamente ambigua.
Da queste brevi considerazioni abbiamo potuto vedere come la Cina sia entrata a far parte del discorso psicoanalitico in uno dei suoi punti più nevralgici, ovvero quello dell’interpretazione. Il fatto che Freud consideri la lingua cinese ‘primitiva’, eo ipso prossima alla dinamica dell’inconscio e quindi in grado di delucidarla, risulta una premessa storica e teorica indispensabile alla comprensione della successiva e ben più consistente appropriazione della Cina da parte di Jung.
Vita privata, individuazione e ‘Oriente’
Secondo il sociologo Eli Zaretsky, tra i principali e iniziali motivi dell’interesse di Jung per la psicoanalisi di Freud – nonché punto di partenza per la sua successiva interpretazione dei testi provenienti dalla Cina e del dao – ci sono proprio i meccanismi di significazione inconscia descritti nell’Interpretazione dei sogni quali lo spostamento (Vershiebung) e la condensazione (Verdichtung) caratteristici del lavoro onirico (Traumarbeit)23. Tuttavia diversamente da Freud, che seguendo Abel distingue tra geroglifici e caratteri cinesi24, per Jung le due forme di scrittura si equivalgono per via del loro valoro simbolico ed evocativo, al punto tale che si incontra nella sua opera e nel carteggio un’espressione apparentemente ambigua come “geroglifici cinesi”. Per Jung i segni cinesi scritti equivalgono a dei «geroglifici», cioè a rappresentazioni pittoriche capaci di «esprimere una complessa compagine di significati, in cui talvolta rientrano intere famiglie di concetti.»25 In una lettera del dicembre 1937 all’analista e traduttrice inglese di fiducia Cary Baynes (1883-1977) dichiara: «Chinese hieroglyphics are always reinterpreted by the [non-Chinese] reader and that is the same by the Chinese reader», aggiungendo che proprio per tale ragione i testi antichi cinesi «are eternally living.26» Muovendo da tali premesse teoriche Jung attribuisce al pensiero cinese capacità simboliche e un funzionamento prossimo alla dinamica dell’inconscio, trovando proprio nella parola dao 道 – la quale indica uno dei concetti fondamentali e più discussi nella storia della Cina27 – un punto focale della sua riflessione psicologica.
Gli storici della psicoanalisi concordano sul fatto che una delle caratteristiche principali di questa disciplina psicologica è il suo allontanamento dall’identificazione del sé con la sfera pubblica collettiva e la famiglia tipica del XIX secolo, verso un focus più modernista sulla vita privata e l’inconscio personale28. Freud è consapevole del potenziale liberatore della scienza psicologica da lui proposta, e scrivendo nel 1927 sottolinea il contributo all’emancipazione dell’‘io’ dal ‘noi’:
«[A]l [paziente] non vogliamo [noi analisti] recar sollievo accogliendolo in una qualche comunità [Gemeinschaft], sia essa cattolica, protestante o socialista; quel che vogliamo fare è arricchirlo, e trarre questa ricchezza dal suo intimo facendo affluire al suo Io sia le energie che a causa della rimozione sono relegate nell’inconscio e dunque risultano inaccessibili. […] [Ciò che noi facciamo è una “cura dell’anima” (Seelsorge)] nel migliore e vero senso della parola.29»
Mentre per Freud l’obiettivo della psicoterapia psicoanalitica consiste nel rendere (nuovamente) consci i contenuti rimossi nell’inconscio personale, per Jung essa riguarda principalmente il processo di individuazione. L’analista formatore di tradizione junghiana Murray Stein segnala che il tema dell’individuazione rappresenta il leitmotiv degli scritti junghiani nonché quella che probabilmente è la sua maggiore idea psicologica dalla rottura definitiva con Freud (1913) in avanti30.
Il termine fu introdotto nel suo scritto anonimo e di ispirazione gnostico-esoterica Septmen Sermones ad Mortous (Sette sermoni ai morti) del 1915 e in seguito approfondito in Psicologia dell’inconscio (1917), L’io e l’inconscio (1928) e nella sua opera sistematica del primo periodo, Tipi psicologici (1921), che qui prendiamo in esame. Nel corso del suo lavoro la nozione di individuazione si è arricchita di numerose riflessioni teoriche e di resoconti di casi clinici, e risulta centrale per il confronto con le religioni mondiali.
Se ci atteniamo alla definizione della parola “individuazione” che Jung fornisce in appendice a Tipi psicologici, apprendiamo che essa è «un processo di differenziazione [Differenzierungsprozess] che ha per meta lo sviluppo della personalità individuale [individuellen Persönlichkeit].31» Tale processo differenzia l’individuo dalla «psicologia collettiva» tramite lo sviluppo della propria «disposizione naturale [Anlage]» al di là delle «norme collettive [Collektivnormen]» vigenti in una data società32. Nonostante Jung enfatizzi la distinzione tra individualità e norme collettive sottolineando che «la via individuale [individuelle Weg] non è appunto mai una norma [Norm]», egli riconosce nell’individuazione una normatività assoluta e naturale in quanto distinta da quella di tipo collettivo e convenzionale, ovvero arbitrario, propria delle norme sociali33. Essa, prosegue Jung, è a tutti gli effetti il corrispettivo psicologico dell’individualità fisica e fisiologica, al punto che ostacolarne lo sviluppo comporta una «deformazione artificiosa [künstliche Verkrüppelung]», la quale può avere conseguenze gravi non solo sull’individuo ma anche sulla stessa società34.
Il Sé e lo ‘spirito cinese’
L’individuazione è un processo che tende alla totalità psichica, ovvero all’ideale dato a priori di interezza e unità di coppie di opposti come particolare e universale, conscio e inconscio, individuale e collettivo. In quest’ultimo senso, precisa Jung, l’individuazione non si trova in un rapporto di antitesi radicale con le norme collettive, ma porta piuttosto «a un apprezzamento spontaneo [natürlichen]» e autonomo di queste35. Inoltre essa rappresenta il criterio, o l’ideale regolatore, della stessa psicoterapia:
«Il processo naturale [Naturvorgang] dell’individuazione è diventato per me il modello del metodo di trattamento [Behandlungsmethode]. La compensazione [Kompensation] inconscia di uno stato nevrotico della coscienza contiene tutti gli elementi capaci di correggere efficacemente e fruttuosamente l’unilateralità della coscienza, quando questi elementi divengano coscienti, vale a dire siano intesi e integrati come realtà [Realitäten] nella coscienza.36»
Come vedremo questa idea processuale del diventar coscienti, ovvero ‘reali’, di elementi inconsci come compensazione naturale è ciò che Jung riconosce nel concetto di dao.
Nell’introdurre i Tipi psicologici Luigi Aurigemma rende noto al pubblico italiano che l’individuazione è l’unione degli opposti che originariamente si trovano in una tensione dialettica37. È da notare che nell’opera della tarda maturità, Mysterium Coniunctionis, caratterizzando l’individuazione nei termini di un’operazione alchemica simbolica Jung la definisce «un’armonizzazione psichica degli opposti», la cui unione si realizza in un’istanza (Instanz) – o entità (Wesen) – che egli chiama “Sé”38. In termini generali il Sé è al centro della concettualizzazione junghiana della struttura e della dinamica della psiche umana.
Nella voce dedicata al “Sé” aggiunta nel 1958 alle definizioni in Tipi psicologici, Jung lo definisce una complexio oppositorum (sintesi degli opposti) rappresentante «l’unità e la totalità della personalità […] che consta di contenuti sia coscienti che inconsci.39» In quanto tale esso è anzitutto «un postulato [Postulat], [e] il suo concetto è trascendente», ovvero una possibilità apriori dell’esperienza, e pertanto si può manifestare empiricamente in simboli della totalità «come una diade unificata, quale è ad esempio il Tao, fusione della forza yang e della forza yin.40» Nella quarta edizione di Simboli della trasformazione del 1952, opera originariamente pubblicata nel 1912, Jung precisa che «[i]n quanto simbolo della totalità, il Sé è una coincidentia oppositorum.41» In Tipi psicologici, così come in numerose altre opere successive, Jung si serve del concetto del dao come simbolo del Sé, strettamente connesso con il processo normativo dell’individuazione.
Per quanto riguarda lo statuto ontologico del Sé, Jung ne sottolinea il carattere eminentemente psicologico e psicodinamico:
«Questa totalità che trascende la coscienza è stata da me designata con il termine “Sé”. Scopo del processo d’individuazione è la sintesi del Sé […] i simboli della totalità si presentano spesso all’inizio del processo d’individuazione, anzi sono già osservabili nei sogni della piccola infanzi42»;
nonché etico-normativo:
«[L]a complexio oppositorum è da un lato possibilità [Möglichkeit], dall’altro dovere etico [ethische Verpflichtung]43»;
e infine interculturale, il cui valore risiede al di qua delle speculazioni filosofico-religiose tipiche di determinate tradizioni:
«Nei nostri mistici, e soprattutto nella filosofia e nella religione indiana, come pure nella filosofia taoista cinese e nello zen giapponese, si trovano le più forti espressioni dell’unità interiore o dell’esperienza di quest’unità (l’unio mystica). I nomi attribuiti al Sé non hanno importanza dal punto di vista della psicologia, come non ne ha la cosiddetta questione della loro “realtà” [Wahrheitsfrage]. La realtà psichica [psychische Tatsächlichkeit] è sufficiente, anche praticamente.44»
Al di là delle contingenze storiche e culturali, le quali – insegna Jung – ricapitolano non solo i diversi livelli di sviluppo della coscienza ma anche delle razze («[i] diversi strati della mente corrispondono alla storia delle razze [history of the races]45»), opera un medesimo fatto psichico, il quale si fa garante dell’identità dei contenuti manifesti.
Secondo l’analista junghiana di lunga esperienza Ann Casement, il Sé è fondamentale non solo per l’individuazione dei singoli ma anche dei gruppi collettivi (collective groups), sebbene i simboli con cui esso si manifesterebbe possono variare da epoca a epoca46. Commentando la diversità tra gli occidentali e i cinesi nel saggio della tarda maturità La sincronicità come principio di nessi acausali (1952), Jung afferma:
«Al contrario dello spirito occidentale educato dal pensiero greco, lo spirito cinese [chinesische Geist] tende non a cogliere il fatto singolo per amore del fatto in sé, ma a una concezione che vede il singolo come parte di un tutto. Un’operazione conoscitiva del genere riesce per ovvie ragioni impossibile all’intelletto puro [reinen Intellekt].47»
La differenza psichico-raziale tra i due macro-gruppi per Jung è sempre stata un fatto scontato. Riflettendo sulla diffusione di idee ‘orientali’ e dello ‘spirito cinese’ in Europa, egli assume un atteggiamento ambiguo, oscillante tra l’apertura e l’integrazione da un lato, e la denuncia del rischio di contaminazione psichica dall’altro. Di questa diffusione afferma nel 1930: «Potrebbe trattarsi di una pericolosa infezione [Infektion], ma fors’anche di un rimedio» alla crisi spirituale e simbolica del vecchio continente48. Per scongiurare tale rischio, l’‘Oriente’ non va imitato e assimilato nelle sue forme esteriori, ma va trovato all’interno: «[D]obbiamo cercarl[o] in noi, nell’inconscio.49» Muovendo da questa visione Jung riconosce nel dao un simbolo e un processo regolatore della dinamica psichica.
Commenti psicologici di Jung al Daodejing e al Zhuangzi
Nell’edizione del 1921 di Tipi psicologici Jung vede nel dao un elemento psichico normativo, ovvero «la “retta via” [rechte Weg], il governo delle cose secondo la legge, una strada intermedia fra gli opposti, da essi indipendente pur riunendoli in sé», il quale si fa garante dello sviluppo pieno e significativo della persona: «Il senso della vita [Sinn des Lebens] consiste nel percorrere questa via del mezzo e nel non allontanarsene mai sconfinando negli opposti.50» Dopo aver identificato il dao quale corrispettivo cinese dell’antico concetto indiano di ṛta (ciò che regola il cosmo e la retribuzione)51, ‘traduce’ dao ricorrendo all’ambito semantico della regolarità e normatività: «[V]ia, metodo [Methode], principio, forza naturale o vitale, regolarità [gesetzmäßige] dei processi naturali, idea del mondo, causa di tutti i fenomeni, il giusto [Rechte], il bene, l’ordine morale del mondo [die sittliche Weltordnung].52» Nel dao egli riconosce il simbolo psichico unificatore della filosofia cinese, e in quanto tale lo esamina.
Jung riconosce nel pensiero di Laozi 老子, la figura a cui è tradizionalmente attribuito il Classico della via e della virtù (Daodejing 道德經), l’espressione di
«una superiore chiarezza filosofica, [di] una saggezza intellettuale e intuitiva [intellektuelle und intuitive] mai offuscata da mistiche nebbie e che certo rappresenta senz’altro quanto di più alto è dato di raggiungere in fatto di superiorità intellettuale [geistiger Überlegenheit] […]. Essa doma ogni elemento selvaggio, accogliendolo in sé senza purificarlo, e senza trasformarlo in qualcosa di superiore.53»
In questo accorato elogio Jung soppesa bene le parole: se da una parte riconosce, sulla falsariga della differenziazione delle funzioni cognitive denunciata da Schiller come causa della crisi dell’uomo moderno, in Laozi la felice unione delle funzioni intuitive e intellettuali, tale unione è tuttavia definita “saggezza” (Weisheit) e non filosofia. L’ambito in cui il Laozi opera ha che fare con la mente in senso lato (Geist) e non con l’intelletto, perciò non è in grado di purificare del tutto i suoi elementi selvaggi – gli estremi opposti – sebbene riesca a domarli. Diversamente Schiller, esponente di punta della tradizione tedesca, introduce un elemento di mediazione intellettuale, sforzandosi «di chiarire mediante la riflessione filosofica [philosophischer Überlegung]» l’educazione a un modo di vivere significativo e ricco54.
Per Jung il concetto del dao denota infatti una «energia primitiva [primitiver Energiebegriff]», e commenta i seguenti brani tratti dalle stanze 40 e 41 dal Daodejing nella traduzione di Paul Deussen (1845-1919)55
天下萬物生於有
«La Moltitudine degli Esseri, sotto il Cielo, vive nel dominio della realtà manifesta»
有生於無
«e quel che ‘è manifesto’, da quel che ‘non è manifesto’ trae vita56»
道隱無名
«Si cela, il Dao, e senza-nome è57»
affermando che il dao «è anche non-essere [nicht seiend]», che è «palesemente una sintesi irrazionale [irrationale Vereinigung] degli opposti» e «un simbolo che è e che non è.58» È da notare che la traduzione di Deussen che Jung cita rende la coppia you 有, “presente, manifesto” e wu 無, “non-presente, non-manifesto”59, rispettivamente con i sostantivi filosofici “Seiende” (esistente) e “Nichtseiende” (non-esistente)60.
Nel saggio sulla sincronicità Jung porta avanti il suo discorso psicologico sul dao, questa volta rifacendosi alla versione del sinologo e missionario tedesco Richard Wilhelm (1873-1930) del Daodejing e del Zhuangzi 莊子61, il quale «ha interpretato genialmente Tao come senso.62» Wilhelm traduce l’incipit della stanza 25 che descrive il dao, you wu hun cheng 有物混成, con «[si dà, Es gibt] qualcosa che è indistintamente perfetto», aggiungendo poco oltre che esso è invisibile (unsichtbar) nella realtà visibile e che Laozi lo descrive come Nulla (Nichts)63. Jung cita questa stanza e anch’egli afferma che Laozi descrive il dao come Nulla. Successivamente commenta la stanza 11 in cui si dice che è dall’“assenza” (wu) – reso da Wilhelm con Nichts (Nulla) – che dipende l’“utilizzo, funzione” (yong 用) – reso da Wilhelm con Wirkung (effetto) – delle cose, Jung dichiara: «Il “Nulla” è evidentemente il “senso” o “scopo” ed è chiamato Nulla perché non compare in sé e per sé nel mondo sensoriale, ma ne è soltanto l’ordinatore [Anordner].64» Qui lo psicologo svizzero identifica il dao/senso con il Nulla (wu) inteso come scopo ‘finale’, ordinatore esterno e invisibile al mondo fisico.
A proposito di wu, già in Tipi psicologici Jung accenna brevemente al wuwei 無為, ovvero al non agire daoista in nome di un obiettivo precedentemente selezionato, di cui dice che «significa “far nulla” [Nichtstun] e precisamente nel senso di “non-fare” [Nicht tun] e non di “far nulla” [Nichttun].65» Egli rileva inoltre che «[p]oiché il Tao è un’entità irrazionale [irrationale Grösse] esso non può essere attuato intenzionalmente, come Lao-Tse [Laozi] ha insistentemente ripetuto», e individua in esso un «simbolo irrazionale [irrationalen Symbol] che riunisce gli opposti psicologici», simbolo che avrebbe poi trovato una sua più chiara (offenbar) caratterizzazione nel concetto di “forma vivente” di Schiller66. Per Jung il wu è il senso (psicologico) al di là delle contingenze, ciò che regola la dinamica della compensazione degli opposti psichici, a partire dalla coppia coscienza-inconscio.
Poco oltre passa a esaminare l’opera omonima di Zhuangzi, un «contemporaneo di Platone», tradotta da Wilhelm nel 1912, il quale secondo Jung avrebbe definito il «presupposto psicologico [psychologische Voraussetzung]» del dao in questi termini: «Lo stato in cui Io [Ich] e non-Io [Nicht-Ich] non formano più alcun contrasto [Gegensatz] si chiama perno del Tao.67» Il testo cinese tradotto da Wilhelm è tratto dal celebre secondo capitolo del Zhuangzi intitolato “Discorso sull’equanimizzazione delle cose” (Qi wu lun 齊物論). In esso viene chiamato “perno del dao” (dao shu 道樞) il non essere più accoppiati (ou 偶) di “questo” (shi 是) e di “quello” (bi 彼) come opposti, coppia di dimostrativi che Wilhelm rende con la coppia fichtiana di Io e non-Io68.
Jung non dice come intende qui questa coppia, anche se probabilmente la legge nei termini di un’opposizione da disciplinare tra coscienza (Io psichico) e inconscio collettivo (non-Io psichico)69. Dopo aver citato altri brani dal Discorso sull’equanimizzazione delle cose, riconosce nel testo di Zhuangzi il «sapere assoluto [absolute Wissen70] dell’inconscio», nonché una concezione olistica (ganzheitlich) della realtà affine a quella propria della psicologia ‘primitiva’ (primitiven) e prescientifica (vorwissenschaftlichen)71.
Il dao come ‘via cosciente’
Jung torna nuovamente sul dao nel 1929 nel suo commento ‘europeo’ che introduce il Segreto del fiore d’oro (Taiyi jinhua zongzhi 太乙金華宗旨), testo di alchimia cinese di epoca Qing (1644-1911) tradotto da Wilhelm. Da una lato questo volume segna l’apice dell’importante collaborazione tra Jung e Wilhelm, iniziata nel 1923 e che portò all’integrazione del Classico dei mutamenti (Yijing 易經) nella psicologia junghiana, dall’altro segna l’inizio degli studi alchemici di Jung, che lo accompagneranno per il resto della vita72. In quest’opera Jung dimostra una certa familiarità con il cinese, e sulla base di una ricostruzione etimologica del carattere dao 道 elabora una teoria psicologica del significato della parola che aggiunge qualcosa di nuovo rispetto a quanto detto in Tipi psicologici:
«È caratteristico dello spirito occidentale non possedere nessun concetto corrispondente a quello di Tao. [Il segno, Zeichen] cinese è composto dai segni [Zeichen] “testa” [in cinese: shou 首] e “andare” [chuo 辶]. Wilhelm traduce Tao con “senso” [Sinn], altri traducono con “via”, “providence”, e perfino, come fanno i gesuiti, con “Dio”. Questo ci dà già un’idea della nostra confusione. La “testa” potrebbe alludere alla coscienza [Bewußtsein], l’“andare” al “percorrere una via” e il concetto significherebbe quindi “andare consapevolmente” [bewußt gehen], o “via cosciente” [bewußter Weg] […]. Se consideriamo il Tao come un metodo [Methode] o una via consapevole, che deve [soll] riunire ciò che era diviso, ci avviciniamo probabilmente al contenuto psicologico del concetto.73»
In questo passaggio Jung riconosce nel dao un concetto alieno all’Occidente74. Esso, insegna Jung, costituisce un cammino psicologico di tipo normativo – caratterizzato dal dovere (Sollen) e non dall’essere (Wesen) – e, se leggiamo queste righe in un’ottica intertestuale, il dao è concettualizzato sia a livello teorico che a livello pratico come un metodo che porta all’unione degli opposti. Ma non si tratta più solamente di un simbolo del Sé, come si sottolinea in Tipi psicologici, poiché qui viene riconosciuto quale vero e proprio indicatore del percorso dell’individuazione, che come abbiamo visto è un percorso determinato a priori e secondo natura.
Jung, che non era mai stato in Cina e aveva una conoscenza quasi esclusivamente letteraria della sua cultura, riteneva di trovare in essa dei paralleli (Parallelen) in grado di «approfondire storicamente le [sue] osservazioni [psicologiche].75» Nell’introdurre il Segreto del fiore d’oro ai lettori europei, Jung precisa che tramite la sua «esperienza pratica [praktische Erfahung]» e «tecnica» era stato condotto «inconsapevolmente su quella via segreta [geheimen Weg] che per millenni era stata percorsa dai migliori spiriti dell’Oriente» e che infine
«Wilhelm, eccellente conoscitore dell’anima cinese, mi ha confermato senza riserve questa coincidenza [Koinzidenz], dandomi con ciò l’animo di scrivere su un testo cinese che, per la sua materia, rientra completamente nelle misteriose oscurità dello spirito orientale. Ma il suo contenuto – è questa la cosa straordinaria – forma al tempo stesso un vivissimo parallelo [lebendigste Parallele] con ciò che accade nello sviluppo psichico dei miei pazienti, i quali non sono cinesi.76»
Il dao, che come abbiamo visto per Jung indica il principio che caratterizza il pensiero cinese, riguarda anche lo sviluppo psichico dei suoi pazienti, il quale è guidato dal processo teleologico dell’individuazione.
Il dao a cui Jung si riferisce è il dao di cui si parla del Daodejing e nel Zhuangzi, che Jung legge nelle traduzioni tedesche di Deussen e Wilhelm. È lecito a questo punto domandarsi se ciò che Jung afferma sulla base di questi testi – ovvero che il dao è un principio regolatore e ordinatore – è coerente con quanto il Daodejing e il Zhuangzi insegnano. Il sinologo Brook Ziporyn, esperto di filosofia classica e medioevale cinese, ha recentemente contribuito in modo significativo al dibattito e alla comprensione dell’insegnamento daoista. Egli ritiene che nelle fonti più antiche la parola “dao” indichi una “via”, una “percorso” e una “guida” (in quest’ultimo uso è affine al quasi-omofono dǎo 導77), ovvero un “corso” (course) prescritto per raggiungere un obiettivo prefissato, e come tale un’azione intenzionale78. Il significato pre-daoista è altamente etico e normativo: il dao indica dunque un programma deliberato di emulazione e di pratica per la coltivazione di una determinata abilità (“la via dei saggi sovrani, la via dell’umanità, la via del tiro con l’arco, ecc.”). Diversamente, l’uso daoista, e in particolare del Zhuangzi, del termine “dao” gioca in modo ironico sul suo significato letterale, andando a indicare l’opposto di un corso normativo e finalizzato. Il “corso” (dao) daoista è senza scopo e senza sforzo (wuwei), ma è proprio in virtù di ciò che esso è in grado di raggiungere, o meglio di generare, qualsiasi scopo79.
Conclusioni
Nell’elaborare un discorso psicodinamico sulla Cina che tanta influenza avrà tra il ventesimo e ventunesimo secolo, in Occidente così come in Cina80, Jung si muove su un terreno che nei suoi tratti fondamentali era stato mappato in modo pionieristico da Freud. Da una parte entrambi ricorrono al cinese come un modello linguistico indipendente dalla storia utile per le loro considerazioni sull’interpretabilità dell’inconscio personale (Freud) e sul dao come modello del processo di individuazione (Jung). Dall’altra riconoscono in esso una forma linguistica e di pensiero ‘primitiva’ in quanto meno differenziata, e perciò stesso prossima alla dinamica inconsce.
Nei commenti psicologici di Jung al dao daoista risulta un’ambiguità di fondo e un apparente contrasto con i testi cinesi. Da un lato egli riconosce nel dao un agire non intenzionale, tuttavia attribuendo a questa funzione un valore di irrazionalità, escludendolo pertanto dal novero delle facoltà cognitive superiori come la riflessione – la quale invece caratterizza il pensiero europeo moderno. Dall’altro egli vede nel dao un simbolo del Sé e un indicatore del processo dell’individuazione, il quale ha come scopo la compensazione psichica. In questo senso ne enfatizza la regolarità e il carattere finalizzato, entrando in contrasto con l’interpretazione ironica daoista (wuwei). Il dao infatti rappresenta per Jung un principio psichico regolatore, il quale viene elevato a modello per la definizione della dinamica della psiche nonché della sua pratica terapeutica.
Similmente a Freud, il quale introduce per così dire la Cina nella psicoanalisi, Jung vede nel dao e nel carattere che lo denota il simbolo – anch’esso ‘primitivo’ come la ‘primitiva’ coincidenza degli opposti riconosciuta da Freud nelle lingue non alfabetiche come il cinese – dell’unione bilanciata degli opposti psichici e dell’ideale (scopo) regolatore della psiche, così come dell’intervento terapeutico. Vedendo nel dao un simbolo dell’individuazione con valore normativo-archetipico, Jung integra in maniera speculativa e originale questo concetto cinese nel cuore teorico della sua psicologia. Tuttavia non vengono fornite indicazioni precise su come il dao sia associato alla terapia. A livello di prassi, sembra suggerire Jung, il dao andrebbe dunque considerato come una sorta di ideale regolatore della psiche e dell’intervento terapeutico piuttosto che un rigido protocollo da applicare.
Note
- Hugh Kenner, The Pound Era, Berkeley e Los Angeles, University of California Press, 1971, p. 230.
- Un’eccezione significativa a tale visione è rappresentata dal filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), il quale vide nella scrittura cinese una sorta di lingua filosofica e intellettuale, modello per una lingua universale; si veda Jacques Derrida, Della grammatologia, tr. it. G. Dalmaso, Milano, Jaca Book, 19982, p. 118.
- Si consideri l’affermazione dello scrittore e sinologo belga Simon Leys (1935-2014): «Dal punto di vista occidentale, la Cina è semplicemente l’altro polo dell’esperienza umana. […] La Cina è quest’Altro fondamentale senza il cui incontro l’Occidente non può diventare veramente consapevole dei contorni e dei limiti del suo Io culturale», citato in Anne Cheng, Storia del pensiero cinese. Dalle origini allo «Studio del Mistero», vol. 1, tr.it. A. Crisma, Torino, Einaudi, 2000, p. 5, enfasi nostra. In una sorta di etnocentrismo inverso la Cina, anziché essere conosciuta per sé, è dunque chiamata a giocare un ruolo nella costruzione identitaria dell’Occidente.
- Edward Slingerland, Mind and Body in Early China. Beyond Orientalism and the Myth of Holism, Oxford, Oxford University Press, 2019, in particolare le pp. 22-61 dedicate al presunto carattere olistico e ‘imaginifico’ del pensiero classico cinese, così come è stato definito da autori occidentali nel corso del XX secolo.
- Si vedano i due articoli enciclopediche rispettivamente del 1923 e del 1925 Sigmund Freud, Opere, vol. 9, a cura di C.L. Musatti, Torino, Bollati Boringhieri, 1977, pp. 583-605 e Sigmund Freud, Opere, vol. 10, a cura di C.L. Musatti, Torino, Bollati Boringhieri, 1978, pp. 219-230.
- Si veda Aspetti generali della psicoanalisi (1913), Carl Gustav Jung, Opere, vol. 4, a cura di L. Aurigemma, Torino, Bollati Boringhieri, 1973, pp. 243-257.
- Si veda La funzione trascendente (1916), pubblicato per la prima volta nel 1957, Carl Gustav Jung, Opere, vol. 8, a cura di L. Aurigemma, Torino, Bollati Boringhieri, 1976, pp. 79-106.
- Michel Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur?, in “Bulletin de la Société française de philosophie”, 1969, 63: 3, pp. 73-104.
- Derrida definisce «allucinazione europea [hallucination européenne]» l’uso destoricizzato e decontestualizzato del cinese che si legittima sulla base di una conoscenza pregiudicata ed eurocentrica di questa lingua, J. Derrida, Della grammatologia, cit., pp. 118-119.
- L’aggettivo ‘primitivo’ ha oggi una connotazione peggiorativa, in quanto suggerisce un’idea di arretratezza e infantilismo. Tuttavia nel periodo in cui Freud e Jung elaborarono le loro concezioni, ‘primitivo’ era un termine di uso comune in antropologia, sociologia e psicologia, ed era impiegato per descrivere pattern comportamentali e cognitivi premoderni e non-europei.
- Sigmund Freud, Opere, vol. 6, a cura di C.L. Musatti, Torino, Bollati Boringhieri, 1974, p. 187.
- Geoffrey Blowers, Freud’s China connection, in “Journal of Multilingual and Multicultural Development”, 1993, 14: 4, p. 268.
- S. Freud, Opere, vol. 6, cit., p. 191.
- Nello stesso articolo Freud non esclude la possibilità che lo stesso modello valga anche per comprendere il lapsus verbale; ibidem.
- Sigmund Freud, Opere, vol. 3, a cura di C.L. Musatti, Torino, Bollati Boringhieri, 1966, in particolare si legga questo passaggio: «Una volta presa confidenza con l’uso abbondante del simbolismo per la rappresentazione onirica di materiale sessuale, bisogna chiedersi se molti di questi simboli non si presentano come i “segni” della stenografia, con un significato fissato una volta per sempre e ci si sente tentati di abbozzare un nuovo “libro dei sogni” secondo il metodo cifrato», p. 323.
- Ibidem, p. 325. Questo passaggio è portato all’attenzione e letto in modo contrastivo con il passaggio citato nella nota precedente da Derrida nel 1966 nelle pagine di Tel Quel; si veda Jaques Derrida, La scrittura e la differenza, tr. it. G. Pozzi, Torino, Einaudi, 1990, pp. 270-272. L’autore ringrazia Gian Marco Galasso, borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (IISF) di Napoli, per la segnalazione di questo saggio.
- Sigmund Freud, Opere, vol. 8, a cura di C.L. Musatti, Torino, Bollati Boringhieri, 1976, p. 195.
- Il problema della riproducibilità dei risultati dell’interpretazione rappresenta una delle maggiori sfide, mai risolta del tutto, della psicoanalisi freudiana. Nel 1907 al Congresso internazionale di psichiatria tenuto ad Amsterdam, Jung sollevò la questione in questi termini: «I fondamenti teorici del metodo psicanalitico […] sono ancora avvolti in una profonda oscurità […] siamo ben lontani dall’aver eliminato tutte le difficoltà teoriche», si veda C.G. Jung, Opere, vol. 4, cit., pp. 21-38. Due anni dopo fu proprio questa difficoltà a spingere William James (1842-1910), il quale aveva assistito alle conferenze sulla psicoanalisi di Freud e di Jung presso la Clark University nel settembre 1909, a definire la terapia psicoanalitica «a most dangerous method», Henry James (a cura di), The letters of William James, Boston, Atlantic Monthly Press, 1920, p. 328. Secondo Derrida il senso della scrittura onirica «non è mai stato presente» mentre il suo «presente significato è sempre ricostituito a posteriori», J. Derrida, La scrittura, cit., p. 273.
- S. Freud, Opere, vol. 8, cit., p. 396.
- L’espressione spesso ricorre in latino (coincidentia oppositorum) nei suoi studi sull’alchimia, e in Mysterium Coniunctionis (1955) viene esplicitamente associata al dao, Carl Gustav Jung, Opere, vol. 14.1, a cura di L. Aurigemma, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p. 159.
- S. Freud, Opere, vol. 8, cit., p. 396.
- Ibidem, pp. 397-398.
- Eli Zaretsky, I misteri dell’anima. Una storia sociale e culturale della psicoanalisi, tr. it. A. Bottini, Milano, Feltrinelli, 2016, p. 116.
- Nello specifico alcuni geroglifici complessi risulterebbero dalla combinazione di due significati opposti di cui però uno prevale sull’altro e viene enfatizzato da questa combinazione, mentre nel caso dei caratteri cinesi complessi emergerebbe un terzo significato, come abbiamo visto nel caso della parola “bene” (hao), S. Freud, Opere, vol. 6, cit., p. 187.
- Carl Gustav Jung, Opere, vol. 10.1, a cura di L. Aurigemma, Torino, Bollati Boringhieri, 1985, p. 156.
- Citato in Sonu Shamdasani, C.G. Jung. A Biography in Books, New York e Londra, W. W. Norton & Company, 2012, p. 155.
- Dao significa letteralmente “via”, “percorso” o “strada” e può indicare metaforicamente un percorso di pensiero, di condotta, di governo, ecc. In modo più ampio dao si riferisce alla “Via”, ovvero al modo di essere e di operare dell’universo stesso. Agli uomini è ingiunto di mettere in atto il dao, e nel corso della storia letterati hanno tentato di scandagliarne la natura fondamentale e di formulare il contenuto preciso dei percorsi per realizzarlo nell’esistenza quotidiana, si veda Xinzhong Yao (a cura di), The Encyclopedia of Confucianism, Londra e New York, Routledge, 2003, pp. 177-179.
- Si vedano ad esempio Philip Rieff, Freud. The Mind of the Moralist, London, University Paperbacks, 1960, p. 300, Mikkel Borch-Jacobsen – Sonu Shamdasani, Dossier Freud. L’invenzione della leggenda psicoanalitica, tr. it. S. Sullam e F. Gerla, Torino, Bollati Boringhieri, 2015 e E. Zaretsky, I misteri dell’anima, cit.
- S. Freud, Opere, vol. 10, cit., p. 421, traduzione modificata. Sulla psicoanalisi come “cura delle anime” scrive anche Jung nel 1928 e nel 1932; si veda C.G. Jung, Opere, vol. 11, a cura di C.L. Musatti, Torino, Bollati Boringhieri, 1978, pp. 308-335.
- Murray Stein, Individuation, in Renos K. Papadopoulos (a cura di), The Handbook of Jungian Psychology, Londra e New York, Routledge, 2006, p. 196.
- Carl Gustav Jung, Opere, vol. 6, a cura di L. Aurigemma, Torino, Bollati Boringhieri, 1977, p. 501. Enfasi di Jung.
- Ibidem, pp. 502-503.
- Ibidem, p. 502. In Tipi psicologici il termine “Anlage”, (pre)disposizione, è ripreso da Jung dalla Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1794) di Friedrich Schiller (1759-1805), a cui dedica un intero capitolo. Jung concorda con il poeta tedesco che il problema dell’uomo moderno dipende dalla «differenziazione delle funzioni [Differenzierung der Funktionen]» conseguente al suo sviluppo culturale, differenziazione in cui «l’intelletto speculativo e intuitivo [der intuitive und der spekulative Verstand]» si trovano non più in armonia ma in contrasto, causando così una soppressione delle diverse disposizioni (Anlagen) dell’uomo, ibidem, p. 78. Il compito dell’educazione estetica, su cui Jung si sofferma a lungo, è quello di ristabilire l’unità delle funzioni, chiamate da Schiller sinnliche Trieb (istinto sensoriale) e Formtrieb (istinto di forma), in una «forma vivente [lebende Gestalt]» capace di condurre a una società ideale, si veda ibidem, pp. 107-129.
- Ibidem, p. 502.
- Ibidem, p. 503.
- Carl Gustav Jung, Opere, vol. 7, a cura di L. Aurigemma, Torino, Bollati Boringhieri, 1983, p. 112.
- C.G. Jung, Opere, vol. 6, cit., pp. 16-17.
- Carl Gustav Jung, Opere, vol. 14.2, a cura di L. Aurigemma, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, p. 471. Per una contestualizzazione dell’uso metaforico dell’alchimia da parte di Jung si rimanda a Matteo Sgorbati, Il revival dell’alchimia con Jung: luce e ombra come metafore della trasformazione psichica, in “Il Pensare”, 10, 2020, pp. 130-149.
- C.G. Jung, Opere, vol. 6, cit., p. 518.
- Ibidem. Nell’edizione del 1921 accennava al Sé nella voce “Io” in questi termini: «[I]l Sé è il soggetto della mia psiche totale, quindi anche di quella inconscia. In questo senso il Sé sarebbe un’entità (ideale) che include l’Io», ibidem, p. 507.
- C.G. Jung, Opere, vol. 5, a cura di L. Aurigemma, Torino, Bollati Boringhieri, 1970, p. 359.
- Carl Gustav Jung, Opere, vol. 9.1, a cura di L. Aurigemma, Torino, Bollati Boringhieri, 1980, p. 158. Enfasi nostra.
- Carl Gustav Jung, Opere, vol. 16, a cura di L. Aurigemma, Torino, Bollati Boringhieri, 1981, p. 319.
- Ibidem, p. 313.
- Carl Gustav Jung, Opere, vol. 15, a cura di L. Aurigemma, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 60. Si tratta della seconda “Tavistock Lecture”, tenuta in inglese a Londra nel 1935.
- Ann Casement, Jung. An Introduction, Bicester, Phoenix, 2021, pp. 84-85. L’autrice individua nel quarto capitolo dell’Aion dedicato al Sé il luogo in cui Jung elabora questa idea. Nello specifico cita il seguente brano: «[L]a “totalità” […] è invece [un concetto] empirico, in quanto anticipato nella psiche da simboli spontanei, o autonomi. Sono, questi, i simboli della “quaternità” e del “mandala”, che compaiono non soltanto nei sogni di moderni che non ne hanno mai sentito parlare, ma sono anche diffusi nelle testimonianze storiche di molti popoli e di molte epoche. Il loro significato di simboli dell’unità e della totalità è ampiamente confermato sia storicamente sia dal punto di vista psicologico-empirico.» Rilevante per il nostro discorso la frase che segue questo brano: «Così, quello che a prima vista ci sembra un concetto astratto rappresenta in realtà un’esistenza empirica che spontaneamente dimostra la sua presenza a priori», C.G. Jung, Opere, vol. 9.2, a cura di L. Aurigemma, Torino, Bollati Boringhieri, 1982, p. 31.
- C.G. Jung, Opere, vol. 8, cit., p. 480.
- Carl Gustav Jung, Opere, vol. 13, a cura di L. Aurigemma, Torino, Bollati Boringhieri, 1988, p. 73.
- C.G. Jung, Opere, vol. 11, cit., p. 499.
- C.G. Jung, Opere, vol. 6, cit., p. 131.
- La somiglianza tra i due concetti è detta da Jung inequivocabile (unverkennbar), e ciò senza che si sia necessariamente verificato un contatto diretto (direkte Berührung), ibidem, p. 233. A proposito dei paralleli (Parallelen) tra Cina e India, nel 1950 Jung ribadisce che «[n]onostante la vasta similarità di fondo esistente tra le idee simboliche, non si deve necessariamente presupporre nessun influsso diretto [direkte Beeinflussung], giacché le idee, come l’esperienza dimostra e come io credo di aver provato, si sviluppano sempre di nuovo maniera autoctona e reciprocamente indipendente da una matrice psichica [seelischen Matrix] palesemente universale [überall]», C.G. Jung, Opere, vol. 9.1, cit., pp. 351-352. Tali paralleli, o coincidenze, sono frutto della comune struttura e dinamica della psiche, la quale si manifesta di volta in volta in forme diverse, portatrici di una medesima forma psichica a priori come il Sé. La «matrice psichica universale», modellata sulla sua psicologia, rappresenta l’ipotesi di fondo sulla quale Jung basa la sua comparazione tra tradizioni e religioni diverse rendendole commisurabili e in definitiva identiche nel loro (presunto) nucleo essenziale.
- C.G. Jung, Opere, vol. 6, cit., p. 232.
- Ibidem, p. 131.
- Ibidem, p. 85.
- Paul Deussen, Allgemeine Geschichte der Philosophie, vol. 1.3, Lipsia, Brockhaus, 1914, pp. 692-704.
- Laozi, Daodejing. Il canone della Via e della Virtù, tr. it. e cura di A. Andreini, Torino, Einaudi, 2018, pp. 106-107.
- Ibidem, pp. 110-111.
- C.G. Jung, Opere, vol. 6, cit., p. 233, enfasi di Jung.
- Attilio Andreini, commentando la stanza 25 (che Jung cita e commenta a sua volta nel 1952 come vedremo), così spiega la scelta traduttologica che qui seguiamo, rilevando che in essa «si evidenzia come l’universo sia, in principio (shi 始, v. 3), il regno dell’indistinzione, della con-fusione, dell’occultamento, più che del Non-essere assoluto. Wu 無 evoca in primo luogo l’assenza di determinazioni che precede la presenza (you 有) degli esseri in quanto elementi caratterizzati da precise qualità e differenziati tra loro e rispetto al Dao», Laozi, Daodejing, cit., p. 5.
- P. Deussen, Allgemeine Geschichte, cit., p. 695, citato in C.G. Jung, Opere, vol. 6, cit., p. 233.
- Le traduzioni citate da Jung sono Richard Wilhelm, Dschuang Dsi. Das wahre Buch vom südlichen Blütenland, Jena, Eugen Diederichs, 1912 e alcuni brani del Laozi menzionati da Wilhelm in Chinesische Lebensweisheit, Darmstadt, Otto Reichl Verlag, 1922, versione che differisce dalla sua traduzione integrale del decennio precedente, si veda Richard Wilhelm, Laotse: Tao Te King. Das Buch des Alten vom SINN und LEBEN, Jena, Eugen Diederichs, 1911.
- C.G. Jung, Opere, vol. 8, cit., p. 507. Wilhelm traduce dao con SINN, “senso”, scritto con tutte le lettere capitali. Questa scelta poteva richiamare il lettore tedesco alla Bibbia di Lutero, in cui Dio e Signore sono resi ugualmente in lettere capitali (GOTT e HERR), sottolineando così l’ineffabilità e assolutezza del dao; si veda anche Tan Yuan, Die Geburt der ,taoistischen Bibel‘. Zu Richard Wilhelms Taoteking-Übersetzung, in “Literaturstraße. Chinesisch-deutsche Zeitschrift für Sprach- und Literaturwissenschaft”, 17, 2019, pp. 359-360.
- R. Wilhelm, Chinesische Lebensweisheit, cit., p. 15. La traduzione, modificata, è tratta da C.G. Jung, Opere, vol. 8, cit., p. 507.
- Ibidem, p. 508.
- Nella versione tedesca Jung dice che il significato di “non-fare” (Nicht tun) è sostenuto da un certo Ular. Il giornalista e sinologo Alexander Ular (1876-1919?) aveva pubblicato nel 1903 una libera traduzione del Daodejing, in cui alla stanza 64 compare – ed è l’unica occorrenza – l’espressione “Nicht-Tun” come traducente di bu zheng 不爭, “non contendere, disputare”, mentre wuwei è tradotto di norma con ohne Tun, “senza agire”, Alexander Ular, Die Bahn und der rechte Weg des Lao-tse. Der chinesischen Urschrift nachgedacht, Lipsia, Im-Insel Verlag, 1903, p. 44. In assenza di una nota da parte di Jung è impossibile determinare con certezza a quale fonte egli si riferisce in questo punto del suo discorso sul dao.
- C.G. Jung, Opere, vol. 6, cit., p. 235, enfasi di Jung. Per i riferimenti a Schiller di quest’ultima parte si veda sopra la nota n. 33.
- C.G. Jung, Opere, vol. 8, cit., p. 509. La frase è 彼是莫得其偶謂之道樞, passo 2.4.19-20.
- Essi rappresentano il soggetto e l’oggetto, ovvero la tesi e l’antitesi che si limitano a vicenda distinguendosi sul piano conoscitivo e dell’azione nel momento in cui si manifestano (si pongono), creando così frattura nell’Assoluto. Notiamo che un traduttore contemporaneo di Zhuangzi, sul quale torneremo, traduce shi e bi con this e not-this, Brook Ziporyn, Zhuangzi. The complete Writing, Indianapolis e Cambridge, Hackett Publishing Company, 2020, p. 14.
- Nel corso della sua opera Jung cita più volte la coppia Io e non-Io, individuando in questo l’inconscio collettivo o la «psiche collettiva» e nella distinzione tra i due ciò che permette all’uomo «di compiere il suo dovere verso la vita, di essere sotto ogni punto di vista un membro vitale della società umana», mantenendolo saldo al confronto con l’«esperienza primordiale del non-Io psichico», C.G. Jung, Opere, vol. 7, cit., pp. 74 e 80.
- Espressione che usa anche Hegel per definire il suo idealismo.
- C.G. Jung, Opere, vol. 8, cit., p. 510.
- Sull’Yijing e Jung si rimanda a M. Sgorbati, L’I Ching a Eranos. Wilhelm, Jung e la ricezione del Classico dei mutamenti, Napoli, Orientexpress, 2021, in particolare le pp. 178-261.
- C.G. Jung, Opere, vol. 13, cit., pp. 31-32, traduzione modificata.
- Jung ritorna più volte sulla differenza cognitiva tra Occidente e Cina. Nel saggio sulla sincronicità individua nel dao di cui si parla nel Daodejing un precursore dell’idea di sincronicità, in quanto indicherebbe una «coincidenza significativa» e «un’unità aspaziale […] e atemporale.» Tuttavia egli sottolinea anche che i «cinesi […] hanno in un certo senso pensato sempre in maniera diversa dalla nostra», e che il «concetto di Tao domina tutto il pensiero e la concezione del mondo dei cinesi. Da noi è la causalità ad avere un’importanza così grande», C.G. Jung, Opere, vol. 8, cit., pp. 507-510. A questo proposito Wilhelm sosteneva nella Saggezza di vita cinese del 1922 – dunque un anno prima dell’incontro con Jung – che il rapporto del dao con la realtà (Wirklichkeit) non cade sotto la categoria di causa (Ursache) ed effetto (Wirkung), R. Wilhelm, Chinesische Lebensweisheit, cit., p. 15, affermazione riportata da Jung in nota al saggio sulla sincronicità, C.G. Jung, Opere, vol. 8, cit., p. 508.
- C.G. Jung, Opere, vol. 11, cit., p. 107.
- C.G. Jung, Opere, vol. 13, cit., p. 23.
- Di cui Andreini ricorda che nelle fonti antiche è spesso intercambiabile con dào 道, Laozi, Daodejing, cit., p. 2.
- Andreini rileva l’affinità tra “dire” e “guidare” nella prima stanza del Daodejing, in cui “dao” «allude a un “discorso” che si fa “metodo” e “guida” per la propria condotta», ibidem.
- Si vedano Brook Ziporyn, Dao ist das Gegenteil Gottes. Die Kritik zweckgeleiteten Handelns im Lǎozǐ, in “Deutsche Zeitschrift für Philosophie”, 2021, 69: 5, pp. 768-782 e Brook Ziporyn, Ironies of Oneness and Difference. Coherence in Early Chinese Thought, Albany, SUNY, 2012, pp. 139-197. Per una sintesi concisa si veda la voce “dao” in appendice a B. Ziporyn, Zhuangzi, cit., pp. 277-279.
- Si veda il profilo di cinque analisti junghiani cinesi in A. Casement, Jung, cit., p. 241-246. Un aspetto cruciale dello ‘junghismo cinese’ è il recupero della tradizione autoctona in veste moderna e psicologica, recupero integrale al programma di protezione e valorizzazione del patrimonio culturale cinese (wenhua yichang 文化遺產) e di costruzione di un’armonia psicologia (xinli hexie 心理和諧) sostenuto dall’attuale Segretario generale del Partito Comunista Cinese; per un’analisi di questo fenomeno si rimanda a Matteo Sgorbati, Il Classico dei mutamenti (Yijing) e la psicologia analitica (fenxi xinlixue): una prospettiva dialogica sulla Cina contemporanea, in “La nottola di Minerva”, 2020, 10: 2, pp. 82-97.
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