Bibliomanie

Malattia dell’autocoscienza esagerata. Ancora dalla clinica di Luca Canali
di , numero 53, giugno 2022, Saggi e Studi, DOI

Malattia dell’autocoscienza esagerata. <em>Ancora dalla clinica</em> di Luca Canali
Come citare questo articolo:
Elisabetta Brizio, Malattia dell’autocoscienza esagerata. Ancora dalla clinica di Luca Canali, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 53, no. 11, giugno 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.9807

Introduzione
All’interno della vasta opera di Luca Canali (uno dei massimi latinisti contemporanei, autore, fra l’altro, di una acclamata traduzione di Lucrezio), la figura del poeta può apparire quella meno rilevante. Una lettura come quella di Elisabetta Brizio ne evidenzia, invece, l’assoluto valore, e l’organico, necessario rapporto con l’insieme dell’attività dell’autore.
Era, del resto, un lettore d’eccezione – anch’egli, come Canali, sapiente navigatore degli abissi verbali e musicali, pullulanti di gorghi, allucinazioni, giochi d’eco, inganni rivelatori, abbacinanti morgane – quale Andrea Zanzotto a sottolineare, recensendo La deriva, che «non si passa impunemente attraverso quell’oceanico incastro di contraddizioni che è la Roma antica, in cui un ostinato tentativo di prassi ‘logica’ resta travolto e fratto nella più surreale delle putrefazioni di palazzo e di massa, nella frizione continua fra un teatro della ragione e un teatro della follia». Il mondo antico, con le sue rovine, i suoi frantumi, la sua «catena di fantasmi», guidava, e insieme vincolava, il «movimento dell’io verso i forni crematori della depersonalizzazione». Canali stesso, in una poesia del Naufragio, diceva di aver gettato la propria vita «tra pietre ed erbe di un antico impero / di violenza placato tra rovine».
Una disperazione, quella del poeta, aggiungeva Zanzotto (sintetizzando una condizione che potrebbe valere per tutti gli scrittori che hanno accettato di immergersi nella Palus Putredinis della contemporaneità, e tentare di attraversarla), che sottintendeva però l’«attesa di un ethos rinnovato», di un vivere autentico ritrovato attraverso la catarsi della sofferenza.
«Scrivo sentendomi male» – dice Ottiero Ottieri nel Campo di concentrazione – con sforzo, superando a denti stretti l’angoscia diffusa, la noia, la lieve paura che si diffonde». Il male e la terapia finiscono, nell’atto della scrittura, per convergere e fondersi. Il nesso di letteratura e vita non si stringe e non si attorce più nella gioia della pura bellezza, ma, piuttosto, nel travaglio di un’autocoscienza tormentosa, che pure rende l’esistenza più consapevole, più profonda e più autentica (o forse ne dà solo l’amara illusione?).
Ad ogni modo, è chiaro che, in Canali, il tradurre si è riflesso sul poetare (o viceversa) e l’una e l’altra attività sono divenute le due facce, i due lembi del brillio duplice ed uno che sgorga da una stessa facoltà letteraria, da una stessa esperienza umana ed intellettuale. Davanti a certi versi stridenti, balbettanti, a certi ritmi angolosi e franti, a questi versi che paiono arieggiare, distorcendolo e straniandolo, l’incedere quieto e marmoreo degli esametri, come non pensare al traduttore lucreziano, e di riflesso allo stesso Lucrezio, o viceversa: «Brucia l’intima piaga a nutrirla e col tempo incarnisce, / divampa nei giorni l’ardore, l’angoscia ti serra». La temporalità dell’angoscia, dell’ossessione, della coazione a ripetere, del desiderio incolmabile ed inesauribile, con il loro moto immobile, la loro frenetica paralisi, anticipano, sulla terra, il tempus aeternum del nulla che segue la morte. La funzione della parola letteraria (il suo didascalico e non dogmatico ethos, se proprio ne ha uno) risiede forse proprio nel rendere conoscibile, esistibile, in qualche modo vivibile, quel nulla.
Matteo Veronesi

…finché si torna
malgrado tutto e la stanza e il posto non possono
essere aggirati ancora. In quel punto
entra il vento
Remo Pagnanelli


Chiamiamola «clinica della vita». Per altri versi potremmo chiamarla «la vita stessa», una domanda differita sulla misura dei nostri cambiamenti al mutare delle circostanze. Ma questa è poesia, anch’essa problematica e antidogmatica, a partire da quella lucidissima increspatura, da quel sottilissimo e meditatissimo discrimine – vera emergenza viva dell’autocoscienza letteraria, del testo che di sé si fa concavo specchio – che è in poesia il limine dell’a capo. Come un voltare pagina, oppure, come nel caso delle inarcature tra verso e verso, e più ancora tra una strofe e la successiva, un portarsi dietro qualcosa da enfatizzare, procrastinare, decifrare, o semplicemente da narrare. La frattura, lo scarto marcati dall’enjambement suggeriscono una dilatazione, un protrarsi del senso nel verso successivo, l’isolamento o il risalto, comunque un’enfasi posta sugli elementi che hanno infranto l’ordine sintattico, così come, di riflesso, quello della percezione e della coscienza temporali ed esistenziali. Così lo scorrere inconsapevole della vita, talora spezzato o indotto al vaglio delle reminiscenze, somiglia alla poesia, anche nella sua versione chiusa, e che si dà per relazioni intrastrofiche, rime a distanza e parole chiave che ci convocano a una riconsiderazione del testo nel suo insieme. Come la siepe di Leopardi, la veduta ristretta che preclude la visione esteriore e insieme, proprio in virtù di questo, spalanca quella interiore. Qui si tratta di versi volutamente, e forse un po’ provocatoriamente, afoni e ruvidi. La poesia è prosastica, non ha ritmo perché non vuole averlo. Perché non ci sono ragioni per averlo.
Compaiono in Ancora dalla clinica di Luca Canali1 discese a capo in forma di enjambement (alcune occorrenze: «pupille / dilatate»; «diaspora / di terrori»; «solitudine / di cuscini»; «brevi / esecuzioni sommarie»; «rictus / di un clan di dementi»; «inni / di guerra») che delineano il quadro traumatizzante dell’essere vitale leso. Uno scenario, lascia intendere Canali, eccentrico solo fino a un certo punto. E il punto è questo, con Ottiero Ottieri: «Depressione o situazione?»2. E Canali: «Solo nella condizione di infermo ho agito senza trucchi»3. Che la melanconia – quando non diminuita a sentimento da sera della domenica – fosse anche un modo non patologico di essere, anzi, favorevole all’attività intellettuale, quindi, talora, uno stato d’animo speculativo, lo dicevano già i peripatetici. Aristotele, Problemata Physica: «i ‘melanconici’ sono persone eccezionali non per malattia ma per natura». E per lui sono i melanconici naturali a distinguersi nei vari campi del sapere e delle arti. A distanza di secoli Novalis: «Negli animi allegri non c’è ingegno». Benché non ci fosse un nesso causale tra melanconia o una sua condizione patologica e un incremento delle doti intellettive e della creatività, la dimensione della malattia è spesso designata quale sede di una maggiore profondità del sentire. Diceva Hans Castorp a Clawdia Chauchat – entrambi irretiti nella seduzione della malattia: «la malattia ti dà la libertà. Essa ti rende… ecco, ora mi sovviene la parola che non ho mai usata! Ti rende geniale»4. Se pure «forma impudica della vita» (dove la vita è «una malattia infettiva della materia»), la malattia è all’origine della libertà dal conformismo acquiescente, anche dal profilo morale, che nei termini manniani vige in «pianura». Discrimine dal Dasein della convenzione della pianura e della sua Lebenswelt «dozzinale». Inoltre, quello delle corsie ospedaliere è uno dei più forti paradigmi dell’autentico, in quanto corsie dell’esposizione meditativa anche per chi gode, o crede di godere, di un certo grado di libertà esperienziale e di una empirica quiete, e che quindi dalla malattia si crede immune. A quella latitudine si guarda alla vita da una lontananza che, se esaspera le figure della nostalgia e del rimpianto, le risonanze emotive e l’abbandono alle rifrangenze dei segni e delle voci, restituisce alla vita, alle sue afflizioni e ai suoi significati smarriti, tutto il suo intrinseco valore. Kierkegaard: «Voglio andare in un manicomio a vedere se la profondità della follia mi spiegherà l’enigma della vita». E a distanza di quasi due secoli Kierkegaard riceve una risposta da un giovane medico appassionato di filosofia che postula l’assenza di profondità della follia, che al contrario è desolazione senza confini, nonché della sofferenza, che è soltanto dolore. Quello che non conosciamo non può avere una densità abissale solo per il fatto che non lo conosciamo, così come l’incognito non ha i requisiti per essere esteticamente caratterizzato come bellezza5.
È frequente avvertire un certo carattere arbitrario nelle opzioni terminologiche assunte a designare – o a confondere – quadri sindromici non sempre compatibili come la malinconia, la depressione e le svariate psicosi espresse talora con nomi inopportuni al contesto e persino lesivi della integrità spirituale del soggetto. E si è scritto che la negatività delle emozioni costituisce talvolta una strategia del soggetto indolente o umorale tesa ad aggirare blocchi psicologici o a rimuovere eventi problematici sia in relazione al mondo esterno sia con riferimento all’approvazione sociale. È il cosiddetto «guadagno secondario» con i suoi vantaggi riflessi, quali compassione, considerazione, condiscendenza, cura. Recitare la depressione: la malattia è una pervicace risposta adattiva, una forma di egoismo, un alibi per defilarsi da contesti emotivamente insostenibili, per giustificazioni senza riserve. Premesso che delegare le responsabilità è come interdire la nostra libertà, cosa direbbe, di queste sottili interpretazioni, chi al male di vivere non è sopravvissuto? Chi all’inautenticità di ogni evasione, infingimento, ricatto emotivo o compensazione ha preferito, o è stato costretto da una forza superiore a preferire, l’assolutezza irrevocabile dell’annientamento, e alle molte luci illusorie di un teatro dell’anima e delle relazioni le tenebre eterne del non essere più?
«La mia vita in clinica slittava come una ruota nel fango, il tempo era fermo, i compagni di pena, anime, corpi, volti fra loro contigui e remoti, estranei, legati solo dal filo sottile della terapia». «Cominciava un’altra giornata identica alle precedenti e alle future, stesso ritmo, stesso ristagno della calura, stessi farmaci», Canali ricorda in Autobiografia di un baro6. La clinica di Canali, «elegante rifugio di folli», è spazio letterale, una clinica psichiatrica con il suo corpusdi regole, che, per convenzione, ospita l’incapacità umana di realizzarsi nell’esperienza comune, l’inoltrarsi oscuro nella malinconia depressiva da parte di solitudini monadiche, di desolazioni claustrali concluse nella svalutazione degli stimoli esterni, di vite stagnanti e coartate, fisse nell’esecuzione del tristemente – perché consapevole della sua insensatezza – rituale anancastico. La «quiete spettrale» della clinica è l’esito dell’osservanza di un codice di comportamento volto a contenere reazioni psichiche incontrollate. Per esperienza diretta, Alda Merini descriverà più volte, e senza sconti, i comportamenti degradanti in voga nell’era manicomiale – zone di spoglie di ombre, di odori, di urla, e di rumori indistinti nella notte –, i quali tuttavia, per assurdo, costituivano un riparo dalla dannazione vera e non indotta della realtà esterna, tra gente prevenuta e senza amore. Sulla omologia tra scompenso emozionale, coazioni nevrotiche, la terra straniera del luogo di cura ed esiti stilistici in Canali Cesare Garboli scriveva che «versi e ritmi ineguali, grandi e sformate cadenze dai lunghi piedoni tristi, meditativi, familiari, i falsi esametri di Canali vanno avanti e indietro come dei passi immaginari dentro una stanza, girano sempre intorno allo stesso punto, non vengono a capo di niente e intanto scandiscono un fallimento totale»7. Autobiografia, nevrosi, i «riti d’automa» degli asserviti al loop della clinica avevano incrementato la prima sezione della Deriva (argomento della seconda è il Partito, che nel 1958 espulse il compagno Canali, infedele alla linea: «fui radiato su posizioni ‘revisioniste’»): «Non voglio più restare in questa terra di nessuno / regolata da scansioni di orologi e di calamite / dalla esigente ragnatela dei farmaci, / dal venale rapporto coi guaritori» (Ritornare)8.
Logofobia o logorrea, il linguaggio che si parla, o che si pensa nell’autoestraniamento nella clinica è in funzione di una anamnesi di se stessi, se vogliamo è un linguaggio dei sintomi – che progressivamente accentrano l’attenzione del soggetto nevrotico, impigliato nelle maglie di un monologo egocentrico – senza rinsaldare la rimozione. Ma la clinica di Canali è inoltre luogo metaforico, ove si cerca di afferrare il nesso tra un destino personale e la categoria dell’esistere, dunque si allude alla vita stessa, che può essere sensatissima o senza senso, normale e diversa, fondata sulla fiducia oppure sul sospetto nei confronti sia dell’esperienza sensoriale sia dei processi razionali; e déraison, più che controsenso, è figura riflessa ma alterata del senso, per speculum et in aenigmate – del resto, in Rimbaud lo «sregolamento di tutti i sensi» è raisonné, si traduce in «sofismi della follia», in affannose sottigliezze intellettuali che trascendono i limiti della pura ratio ratiocinans per il fatto di averli dilatati e sollecitati all’estremo, tanto che si potrebbe dire, con Shakespeare, che anche nella follia «c’è del metodo». «Ragione», comunque parola di pianura, luogo alienante, radicalmente estraneo all’altitudine («salire verso l’alto» per predisposizione alla malattia), ai tempi e agli abissi del Berghof, dello Zauberberg –, luogo di incantesimo, che promuove incantesimo. Come in poesia, zona dell’interruzione dei nomi convenuti, d’infrazione di quell’arbitrarietà e convenzionalità del segno linguistico che sono alla base della comunicazione ordinaria come della conoscenza scientifica, ma che vengono al contrario per definizione sovvertite dal discorso poetico, contraddistinto di per sé dall’autonomia del significante, e quindi guidato più dall’onda vibrante dei suoni – dove si fondano accordi e sensi profondi – che dal rigore dei significati e delle loro connessioni razionali.
Condanna, ossessione, oppressione, ma anche privilegio, domanda d’essere: c’è un profondo, tragico, vantaggio nella malattia, una intensità delle fonti emotive nel quotidiano emozionale, talora condizione necessaria di energia e di resistenza morale. Da questo profilo, la clinica insinua il dubbio che nel malessere psichico possa balenare una lucidità altra, una maggiore tensione vitale rispetto a una regolare fisiologia funzionale, un’autocoscienza intemperante («le parole / sembrano senza senso o troppo vere», Clinica nel vento), cioè, ancora con Ottieri, che si tratti di una «malattia dell’autocoscienza esagerata»9. Una consapevolezza ipertrofica di sé. Il divario che spesso intercorre tra salute e malattia, del resto, non è poi così esorbitante, e di ciò si fa spesso esperienza nel corso della vita, non esclusa, anzitutto, la nostra. Si possono addurre fattori endogeni: «Ma quale endos? Psichico, inconscio o biochimico?»10. Si domandava Plantagenet, protagonista di Lunar Caustic di Malcolm Lowry, «se il dottore non si chiedeva mai che senso c’era nell’adattare dei poveri matti a un mondo nocivo sul quale matti solo più scaltri esercitavano un’egemonia quasi suprema, dove il comportamento nevrotico era la norma, e non c’era altro che l’ipocrisia per rispondere alle fiamme del male». Plantagenet sosteneva, con esplicito riferimento a Rimbaud (e a un bateau ivre si commisurava), che «quel senso di decadenza, la necessità di distruggere il passato, il senso di vertige» sono universalizzabili. Una volta fuori del limes della clinica, le barriere dell’ospedale psichiatrico continueranno ad essere avvertite come impedimento spirituale. E non sarà neppure casuale che solo in occasione di un volontario ricovero ospedaliero Plantagenet scopra gli umani sentimenti: «È abbastanza strano, non le pare, che io abbia dovuto fare tanta strada, dall’Inghilterra a questo manicomio, per trovare due persone che mi stanno veramente a cuore»11. Echi danteschi, Alex Falzon scrive nell’Introduzione a Lowry, risuonano «in quell’ospedale psichiatrico così accessibile, eppure così avulso dal mondo, dove gli internati percorrono incessantemente i corridoi in attesa di una salvezza che non giunge mai»12.
Se da un lato la clinica metaforica, nel suo stacco dalla letteralità, nel suo elevarsi dal contingente, paradossalmente relativizza gli interrogativi fondamentali sollevati dalla clinica letterale, imbrigliata nella sua verità circostanziale di questo particolare teatro di ombre chiuso alla logica, quindi nel suo carattere di eccezionalità, dall’altro, e di conseguenza, tende a naturalizzarli. Sugli orli della dissoluzione della clinica si ridescrive un umanesimo senza travestimenti o aloni di menzogna: essere uomo vuol dire essere malato, diceva Thomas Mann, magari mosso da ragioni diverse, molto legate allo spirito tedesco (la filosofia della malattia, la malattia come apprendistato in Novalis, ad esempio). E a Nietzsche: «nessuno più di lui ha reso omaggio al dolore. ‘La capacità di soffrire più o meno profondamente determina il diverso valore degli individui’, egli ha detto»13. È il legame, centrale in Mann – e distribuito in quasi tutte le sue opere –, tra malattia e conoscenza. La malattia è eletta a criterio di valutazione. La malattia, Castorp diceva, è la «via geniale» per la verità, che passa attraverso la morte. Ad vivendum moriendum, morire per essere. Tuttavia, non è la malattia in sé a istituire l’equazione malattia-genialità, ma il quadro spirituale ed etico che essa ingenera in soggetti iperricettivi e ricchi di qualità intellettuali. Ragioni non più essenziali, quelle di Mann, di quelle che muovono Canali, che si spinge molto oltre la rubricazione di quei fenomeni psichici anomali che traspaiono dalle tenebre della nevrosi. Neppure per Canali la condizione umana può riscattarsi da se stessa. Il rictus allora è la dimensione di emblema di una contrazione forzata e di una misura non più solo occasionale o minoritaria, marca «il segreto volto che ognuno di noi porta sotto la maschera della sua dignità e superbia»14. Qualcosa fa pensare a Gesualdo Bufalino, nella Appendice a Diceria dell’untore.

Tema dell’olocausto: la malattia come stigma-stemma, itinerarium necis che ambisce a farsi itinerarium crucis, vanitosa imitazione di Cristo. Così la malattia sfiora i confini oscuri del sacro. Tema della malattia come punto di fuga, e del contagio come tramite mistico e strumento d’onnipotenza omicida. Tema della guarigione come infrazione, tradimento di un patto mafioso fra moribondi, sospensione a divinis, degradazione (e tuttavia umanamente sperata con susseguenti malefedi di comportamento). Tema dell’occultamento: il sanatorio non solo campo di sterminio, ma anche isola, fodero, castello d’Atlante; la morte come tana prudente. Tema dello spionaggio: voyeurismo come salvaguardia e salvacondotto (assistere piuttosto che vivere). Tema del processo (con sentenza oscura quanto la colpa). Tema della memoria e del sogno, con confini incerti fra l’una e l’altro.15

Ho appena ricordato Mann circa la solennizzazione della malattia, ma si potrebbe risalire alle origini della letteratura malata, se l’elenco non fosse davvero esagerato. Un cenno breve e, ovviamente, insufficiente. Asclepiade e l’accento malinconico dei suoi epigrammi, la aegritudo di Tibullo tra i greci ed i latini. E Lucrezio, il quale scrisse il suo poema per intervalla insaniae («or che di mente ho lucido intervallo», gli farà eco Ariosto), nei sereni intermezzi in cui dal magma del delirio riemergono i limpidi contorni della coscienza letteraria (e per questo nel poema, secondo Cicerone, i lumina ingeni si alternavano alla multa ars, quasi che il rigore della forma disciplinasse e controbilanciasse l’aleatorietà dei bagliori dell’illuminazione). Nel Medioevo la acedia di Petrarca nel Secretum; nel Seicento, Robert Burton con la sua Anatomy of Melancholy; la malinconia «ninfa gentile» di Pindemonte, più soave che tragica, lamentosamente melodiosa, del Settecento rococò e neoclassico; l’Ode on Melancholy di Keats, la follia di Hölderlin e di Richter in età romantica; poi lo spleen di Baudelaire e dei decadenti, che si tradurrà nella condizione degli scapigliati del secondo Ottocento italiano; Dostoevskij, che attraverso il principe Myškin espone minutamente la fase di aura, di «luce interiore», di pienezza che precede la crisi, quegli attimi di «estatica fusione con la sintesi suprema della vita»: «tutti quei lampi e quegli sprazzi di più alta sensazione e autocoscienza, e perciò anche di ‘esistenza superiore’ altro non erano che malattia» (come traduce Alfredo Polledro). Nell’etimo novecentesco, l’inettitudine di Zeno, le sue somatizzazioni. A forza di analizzare la salute ci si ammala (Freud: «nel momento in cui ci si chiede il significato e il valore della vita, si è malati»). La vita è originalità, imprevedibilità, a tratti assume una fisionomia charlotiana, a tratti sembra «una burla», più o meno «riuscita». Ma anzitutto «la vita è una malattia», che a differenza delle altre malattie è malattia mortale, malattia irredimibile, appunto, se non con la morte – e tuttavia l’eccesso di coscienza in Zeno ha un esito elitario; malato di inettitudine, egli si distingue sia dal superuomo sia dall’uomo comune: «E perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all’umanità quello ch’essa ha di meglio?» (a Valerio Jahier, 1927). E Michelstädter, nell’ideale vanamente perseguito di un’esistenza persuasa, schiacciata invece dal peso dell’impersuasione della condizione rettorica. La poesia crepuscolare, per tutti: «E le fontane cantano / dietro le bianche porte. // Ah! Sono io dunque colui / che non dormirà più / che non sognerà più / fino alla morte?» (Corazzini, L’ultimo sogno). E Campana, in cui un tratto linguistico tipico dell’alienazione mentale (parafasie, l’insistito e ossessivo balbettio ecolalico, la sfrenata autonomia del significante che difficilmente si flette in una qualsiasi logica concettuale o fattuale) diviene – come, in modo più strutturalmente programmatico, in Amelia Rosselli, e per certi aspetti in Lorenzo Calogero, altro cantore di una follia conscia e sapiente – strumento retorico e cellula stilistica del tessuto poetico. Nel Novecento, appunto, Amelia Rosselli e Sarah Kane (quest’ultima, anche attraverso il codice ansioso dell’anima nell’ora magnetizzante e fatale, l’ora dell’impulso suicidale, in 4.48 Psychosis: «At 4.48 / the happy hour / when clarity visits». «Happy hour» richiamata anche da Wisława Szymborska: «Ora del chissà-se-resterà-qualcosa-di-noi. // Ora vuota. / Sorda, vana. / Fondo di ogni altra ora», Le quattro del mattino, nella traduzione di Pietro Marchesani), hanno fatto più di altri di una malattia consapevolmente vissuta una dolente e insieme rigorosa fonte di ispirazione. Alcuni grandi americani, lost e beat, nei quali le nevrosi depressive si intrecciano agli abusi di alcool e droghe. Sartre: la nausea è il prodotto di una ponderata osservazione dell’esistenza, nulla la giustifica. Di qui: «cacciare l’esistenza fuori di me». Pavese: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». E il protagonista del Male oscuro, cui non resta che rifugiarsi nel paese dei racconti paterni, finire i suoi anni nell’emarginazione, bruciare i propri scritti e le foto che raffigurano suo padre morto, e prepararsi, a sua volta, a morire: «e poi sarà tempo di dire Nunc dimittis servum tuum Domine, forse è già tempo». Ma come non dire, ad esempio, del «limbo», della perenne sospensione di Luzi? E come non ricordare il «Detto tutto.» di Remo Pagnanelli, explicit glaciale della sua, per dirla con Handke, «infelicità senza desideri», che chiude irrevocabilmente con «il peso del mondo»? «Quando il cerchio si stringerà / canticchiando la solita solfa ne varietur, / il continuum inammissibile dell’opacità, / tu morte impertinente, salvifico aroma / spiccami dall’agenda e saltando qualche / orario accelera»16.
La malattia, di per sé stato di transizione, di divenire, «strada geniale», è artisticamente stilizzata in analogia con la natura polisemica del segno poetico. La metafora è malattia del linguaggio, la parola ambigua, polisensa e spesso antifrastica, contraddittoria e ingannevole è tipica del linguaggio degli alienati, così come la percezione alterata e straniata della realtà. La grandezza di un discorso letterario dipende forse dal grado di consapevolezza e di lucidità attraverso cui è filtrata quell’iniziale condizione di alienazione semantica. La banalità dell’artista folle ha un innegabile fondo di verità. La metafora come «patologia del linguaggio», nel suo deformare la rete verbale declinandola verso la logica stranita dell’improprietà espressiva, assomiglia alla malattia, se la salute – così nell’ottica del Berghof – dà luogo a qualcosa di referenzialmente irrigidito, intorpidito, staticamente fattuale. La metafora non è ornamento, e può dare accesso alle cose. Come un’esperienza di soglia, che, stando alle varie etimologie, è ciò che permette una entrata e insieme un procedere oltre, un avanzarsi, un trasformarsi all’interno dell’area sfocata di confine, della frontiera mobile – quel margine incerto tra il prima e il dopo, tra il dentro e il fuori, il luogo dello stazionamento nel mistero (i guardiani della soglia custodi del mistero), Agamben docet17 – che intercorre tra i due termini dell’accostamento. E nel vacuo e limbale interstizio temporale frapposto tra l’uno e l’altro estremo – per altro volubili e divenienti – della trasposizione metaforica, il discorso fluttua in una logica di quantico indeterminismo, di incongruenza e differimento sospeso, si muove nel caos del negativo impronunciato e nell’assenza, nella soglia dell’attesa – zona ambigua dove le cose prendono o non prendono senso o intelligibilità – di una congiunzione tra il nome e il silenzio, di una ritrovata coincidenza, e conseguenza, di nome e cosa, nella quale consistono in fondo la funzione e il fine ultimo del fare letterario. L’incertezza, la sfumatura, il nascondimento o l’indecidibilità del messaggio sono, del resto, tipici di quella che una lunga propaganda (dal positivismo e dal superstite classicismo tardo-ottocenteschi fino alla retorica dei totalitarismi del Novecento) definì «arte degenerata», spesso associandola a generi, categorie e nature (quelli della donna sensuale e volubile così come dell’ebreo, del mistico come del folle) considerati di per sé instabili, ondivaghi, insidiosamente fluidi e sfuggenti.
Torniamo alla discesa infernale di Canali. In questa «clinica in versi» (secondo la definizione di Garboli) che è Il naufragio, lo stile per lunghi tratti confessionale della narrazione ospedaliera configura l’odissea di uno spirito anelante il passaggio dal disadattamento all’adattamento a un incolore sopravvivere. «La guarigione non esiste. Può esistere soltanto la modificazione dell’umore […]. La guarigione non è vivibile né raccontabile. Siamo nel mistero fondo; il fondo del mistero della guarigione è più fondo del mistero della malattia». «La guarigione è un soffrire meno, facendo e pensando esattamente le stesse cose di prima»18. Questo Ottieri fa dire nella eterogenea sintassi del Poema osceno a Pietro Muojo, suo immodesto alter ego che in un altro grande malato e scriba introflesso della nostra letteratura, Gozzano, avrebbe forse suscitato sentimenti di insofferenza (e tuttavia: sono maniere differenti di trasfigurazione della souffrance per malattie sistemiche differenti) per un qual certo snobismo di Muojo – quel suo «vanto di soffrire» – che, tra ideologia e malattia, nell’incontinenza straripante del testo appare troppo interessato a questioni estetiche, al proprio stile «impuro», alla politica e al mondo esterno, a fantasticherie, a stravaganze e velleità di sesso e insieme troppo assillato dall’angoscia della morte per essere davvero indifferente alla vita e alle passioni. Ricordiamo la finzione letteraria (finzione, quindi, in quest’altro caso) dell’agonizzante apocrifo e fraudolento, dell’impostura lirica del tragico fallace, del falso tisico o «finto morituro» ostentata da qualche poeta dell’età giolittiana dai moduli stanchi e dalle pose da inguaribile agonizzante che incrementa uno stereotipo poetico dalla vena dimissionaria, con l’esibizione in versi di sintomi vaghi e senza radicamento in quella malattia di cui Gozzano argomenta invece con eufemismi e traslati e litoti dello spavento e dello sgomento estremi, trattandosi di una tabe di natura non letteraria, mettendo in rima le diagnostiche e le indicazioni terapeutiche dei «dottori»: «Nutrirsi… non fare più versi… nessuna notte più insonne… / non più sigarette… non donne… tentare bei cieli più tersi». Per poi procedere con una «radioscopia»19. A Olindo Guerrini, e alla sua sorte adulterata: «Per quel passato, pel destino bieco / tu mi sei caro, finto morituro / che piangi e imprechi e gemi nello strazio. // Io non gemo, fratello, e non impreco: / scendo ridendo verso il fiume oscuro / che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio» (Stecchetti). E nei Colloqui (I colloqui, I), dove la malattia si intreccia con la poetica, con la malattia della poesia: «Un libro di passato, ov’io reprima / il mio singhiozzo e il pallido vestigio / riconosca di lei, tra rima e rima». Ma anche la letteratura è assenza, rifugio, quindi difesa, e finisce per scalzare l’esistenza e l’esperienza («rinnegherei la fede letteraria / che fa la vita simile alla morte», Felicita). Con la letteratura l’«amico del crisalidi» cerca di ingannare la vita e la «Signora vestita di nulla» per un differimento del vuoto alle viste. «Vïaggio per fuggire altro vïaggio», diceva a proposito del suo viaggio in India. Invece anche l’itinerario indiano non fu che l’eterna visione dell’esistenza e della scrittura come «parafrasi della solitudine e dell’esilio» (Un Natale a Ceylon).
La scrittura poetica di Canali, nell’onda aritmica che sa il deragliamento dei ritmi biologici dovuti alla permanenza nella clinica, tratteggia, per così dire, un intrico, nodo, groviglio (nel textus inteso come intreccio e tessuto nell’accezione più vera) non diacronico di stati interiori, di strumenti per terapie, di reticenze, di riecheggianti presenze dei «gestori del morbo», i consiglieri dell’adattamento sociale, dalla «voce forte e normale», nel basso continuo dell’ironia del soggetto poetante: elementi che si accalcano, e sembrano contaminarsi e confondersi, scambiandosi forme e contorni come in un primigenio coacervo psichico – contaminazioni e trapassi che traducono l’«assedio» della malattia –, proprio mentre vengono illustrati nel dettaglio e scolpiti senza mascheramenti linguistici. Nel non divenire del verso, il dettato si svincola dall’espressione ritmica, dalla musicalità, e si comprime al limite, in significanti tutt’altro che eufonici e tutt’altro che attenuati, con l’effetto di una contrazione e di una conflagrazione dei singoli e minuti particolari della clinica, che testimoniano un’angoscia unanime a partire dal deserto emotivo e atono della propria esperienza dai tratti nevrotici («i miei scarti palesi / dalla norma» – ove non sfugga che «scarto dalla norma» è anche, convenzionalmente, per il formalismo e lo strutturalismo, la caratteristica essenziale dello stile letterario, oltre, per la psichiatria, la anomia del malato e del suicida). Ed è dal punto di vista sincronico degli elementi ancora ritmicamente non forgiati e in parte informi che si coglie il cedimento dell’integrità individuale nelle regressioni, nelle ritualità ossessive di addestramento della pratica clinica, nello stallo, nell’aggirarsi, «ubriachi di benzodiazepina», in uno spazio penitenziale sede di una «disperazione senza approdi». Il poeta, insomma, mostra con maggiore evidenza e più disilluso abbandono, venendone riassorbito e travolto, quello stesso caos che tenta di ordinare e rendere intelligibile attraverso la nominazione poetica. La quale, da possibile, classico strumento di catarsi e di conferimento di senso (nell’ottica forse dell’antico pàthei màthos) diviene al contrario specchio ulteriore, amplificante e deformante, della stessa angoscia senza farmaco possibile. Un po’ come nel Male oscuro di Berto o nel Campo di concentrazione di Ottieri, la clinica psichiatrica è un cronòtopo simile al lager di Levi: una babele di lingue contaminate e indecifrabili, una sofferenza insensata e senza riscatto, un indefinitamente sospeso limbo che ha però le tinte accese e gli acuti tormenti dell’inferno. Invano Canali tenta di ricomporre l’identità frastagliata assumendo la poesia come segnale di presenza (la «valida eccezione / alla regola ferrea di svanire») di un’esistenza comunque inestetica («ho il vizio di scrivere ma non / la virtù di vivere», A una figlia ignota), dove lo sperpero di sé è oggetto di interpretazione più che di nostalgia. In Spezzare l’assedio la scrittura viene definita come una diversione dalla alienità, come strategia antifobica: «Scrivo dunque per cercare scampo, non so se avrò lettori, né mi curo di essi. Semplicemente cerco di sopravvivere, e come al solito, volto a recuperare frammenti del passato, ma non in una programmata recherche letteraria, bensì in un’ansiosa e desultoria retromarcia lungo le molliche di pane che ho lasciato cadere lungo la via nell’illusione di non smarrire la strada»20. La surrogazione letteraria non tiene, nessun regime estetico potrà ricostituire questa identità annegata, granulare e intermittente che costantemente si confronta con il proprio profilo larvale, con lo svanimento degli affetti e con l’esilio volontario, oppure dovuto al tipico evitamento dell’amico disforico, il quale incarna la minaccia dell’infrangersi di un equilibrio che si crede raggiunto: «Dove siete miei amici a darmi forza / per tornare alla lotta e non sognare / impossibili assalti sempre a tiro / d’un centralino dai legami effimeri» (Realtà e memoria); «mi avete abbandonato […] / al silenzio / d’un telefono, perno dell’abiura / dal polisenso verbo dell’esistere» (Agli amici). E ancora: «Non il pegno / di un nostro comune lessico / dimenticato m’ispira, ma il patto / di conservare il senso, il simbolo di un’idea / fraterna in così estranea / durezza che attornia / i superstiti» (Fantasia). A una remissione come adattamento al montaliano vivere in bassissima percentuale Canali giunge dopo aver sezionato quelle che, in Stilemi, chiamava «irriverenti memorie / le storie, le scorie»21 dell’esistenza mediante una analisi molecolare volta verso il prima, uno sguardo sulla psicogenesi della psicosi. Tra ricordo, rêverie, paramnesie e teorizzazioni eccessive: «La mia vita aveva radici / avvelenate. Ora che non ho / più vita, ma una sequela / di giornate slegate, allucinate, il veleno è passato nella mia voce altezzosa / o in apparenza dimessa. Non prendetela / dunque sul serio, è solo / una foce di rivi / inquinati da amore / di arido falansterio o da odio / dolente d’integri vivi» (Metàstasi).
Ancora una divagazione. Il concetto espresso negli endecasillabi di Ipotesi – che quasi immediatamente seguono Ancora dalla clinica – è una antitesi: nella vita dell’uomo c’è il vuoto, e il vuoto è un aut aut. Aut, una manifestazione paradossale di un Dio paradossale, che è «leone» e «agnello» insieme, che tiene uniti sentimenti di segno divergente. Di questa presenza ipotetica sono il riflesso le quotidiane contraddizioni ambivalenti, «le antinomie delle nostre giornate». Aut, una manifestazione del paradosso e nulla più, cioè il vuoto che «regna indistruttibile», il vuoto senza Dio. In questo caso l’unica parvenza del divino, per l’uomo, è nel processo di sostituzione: infrangere i confini dell’io praticando gli affetti. Forse la criptocitazione dantesca22 sigla questo sogno vano, «fuoco di vita apparso in una landa, / sfiorita». Cavalcante si interroga sull’esistenza in vita di Guido. E qui è l’inverso: l’uomo-creatura-figlio si interroga sull’esistenza ipotetica del divino. E sulla possibilità degli affetti che potrebbero surrogarlo. I tre versi finali danno l’idea di una terza possibilità: l’uomo si illude che ci sia un Dio, e quindi lo crea, se ne fa l’idea mentale: «una forma indiretta, contro il vuoto, / di ricondurre il sacro nella vita»23. E questa idea mentale inizia a prendere una sua specie di vita autonoma, e dà senso al futuro, tuttavia a un futuro che «giunge inosservato». Vuoto e senso sono contigui anche in virtù di una loro intrinseca e mutua tensione. «L’amianto che salva, l’embolo / che uccide sono corna / dello stesso dilemma» (Credo perché assurdo), dove «dilemma», un po’ alla maniera gozzaniana, cioè per smorzare l’effetto tensivo – qui la coincidenza drammatica di vita e di morte – rima con «flemma». Metricamente ineccepibile, Ipotesi, pesante come il peso di un poeta, forse poco musicale («traggo la vita fra dissoni / accordi di voci»24) per la costante tendenza di Canali a dare la propria versione delle cose.
Fuori di questa linea privata, in Ancora dalla clinica, la fenomenologia degli automatismi e degli asettici orrori del luogo di cura che innescano un riscontro continuo tra i diversi livelli dell’io. Quindi il parallelo si estende ai ruoli che il protagonista di questa catabasi ha rivestito nel tempo: è stato figlio, seppure «per ingorghi ereditari o confuse / esperienze» abbia in testa «solo scissi neuroni» (Paragone). Non siamo lettori ipocriti. Rimando a un’intervista25 di Canali, veramente capitale e sul filo dell’indecenza. C’è una particolare difficoltà di fronte alle donne, che Canali spiega. La base del dolore è anche nel non poter dare una misura alla persona smisurata delle donne, perché per il nevrotico non esistono le donne, ma la donna. Ci si può spingere a dire che l’ideale è il tormento? In effetti, l’ideale e il tormento coesistono. Si effigia come un uomo infelice cui l’amore generava un senso di inadeguatezza, al punto che evitava di coinvolgersi emotivamente con la donna per non sentirsi incestuoso. Ma è stato marito, è stato padre: «ad un certo punto ho generato una vita» (Dare e avere).
Al generale senso di dimenticanza, dagli esiti talora elegiaci, a questo scorgersi come traccia svanente, alla percezione della vita che si dilegua («Amavo i ponti / sul fiume ma ora / soltanto le assenze», Atmosfere), più avanti nel libro subentrerà una tensione ironica in un dettato forse più scomposto ma più essenziale. Si accampa il moto frontale di un accento quasi derisorio, stemperato in inflessioni che riconfermano l’attraversamento dell’insania come una questione non solo privata o circoscritta agli astanti della clinica. Barare anche per il tramite dell’ironia, per dissimulare «un’infelicità, un dolore, un fallimento» (come dichiarato nell’intervista ricordata) anche nell’aver schifato l’esistenza, per disperdere l’infinita nostalgia del desiderio di tornare al prima, quando la vita non doveva quadrare con l’attuale statuto di meccanismo biologico sottomesso a regole coatte.
A un certo punto del libro il tono cambia, si fa assertivo, alle domande consegue qualche acquisizione, e la medesima consapevolezza passa per nuove soluzioni espressive: come nota Spagnoletti, una struttura versale più agile a rima per lo più interna spodesta il verso lungo dall’andamento narrativo, «declinazioni beffarde» spezzano il flusso dei pensieri del degente. Lo stesso materiale verbale pare smentire l’abisso che Canali aveva precedentemente dato per tratti, per così interdire la possibilità di essere preso alla lettera. Allora tutto è parzialmente vero e parzialmente falso. Che vuol dire, ad esempio, «risalita verso la normalità»? Chi è normale o regolare, qual è la norma o la regolarità? Non comporta qualche problema – sia almeno legittimo pensarlo – affermare che la norma è, come si usa dire, «l’armonia tra il soggetto, il proprio Io e il proprio ambiente»? Non potrebbe questa accezione implicare l’omissione di eventuali interferenze nell’armonia dell’altro, nella intersoggettività? E qual è la nozione di «anormalità»? Sul carattere relativo di nozioni come «normalità» e «anormalità» intervengono Watzlawick-Beavin-Jakson: «una volta che si sia accettato il principio di comunicazione secondo cui un comportamento si può studiare soltanto nel contesto in cui si attua, i termini ‘sanità’ e ‘insania’ perdono praticamente il loro significato in quanto attributi di individui. Analogamente la nozione di ‘anormalità’ diventa molto discutibile, perché ora generalmente si è concordi nel ritenere che la condizione del paziente non sia statica ma vari al variare della situazione interpersonale e dell’ottica preconcetta dell’osservatore. Inoltre, quando si considerano i sintomi psichiatrici come un comportamento che si adegua a una interazione in corso, emerge uno schema di riferimento che è diametralmente opposto alle teorie psichiatriche classiche»26.
Non esiste una risposta univoca. Chi è solo disturbato, e non esula da comportamenti standardizzati, e chi è invece malato, nel qual caso il suo disturbo è funzionale, ha cioè un’eziologia psicogena? Oppure normalità o anormalità psichica sono questioni di pertinenza della statistica? Chi è disilluso, chi troppo illuso? Esistono solitudini inferiori e solitudini superiori? Diceva Alda Merini, in un’intervista del 1997, che «il giudizio sulla malattia mentale di solito viene da persone che non sanno assolutamente cosa sia, ma è la partenza, l’avvio per un’eterna dannazione». Si è anche detto che l’anormale è un soggetto uguale agli altri, con la differenza che è disperatamente alla ricerca di un senso che riguarda tutti, quindi anche ogni Lebenswelt non psicotica27.
Implicite interrogazioni, implicazioni alluse che si sovrappongono, espresse in quest’altra fase del Naufragio con una intonazione meno contratta a livello emotivo, dove al discordante corso dei fonemi si saldano serietà di asserti, autoirrisione, tendenza a mistificare se stesso e insieme ai vani e «venali» sforzi dei terapeuti. Variazioni sul tema: «per la sinistroconvessa – fulcro / a livello del primo / metàmero lombare – andrò alla Messa / ultro (spontaneamente in latino) / con mente serena» (Referto radiografico). Più indietro: «Argon (ἀργός=inerte) gas / indolore incolore insapore / centesima parte dell’aria / ti somiglio» (Atmosfere). «Luca / finisci di raderti il viso da quasi / vent’anni senza sorriso» (Davanti allo specchio). Come osserva Spagnoletti, si tratta di una mutata disposizione espressiva che «non cambia la sostanza delle cose, ma ne aumenta il potere dissolvente […]. Ed è in questa omologazione dell’ossessione verbale con la piattezza della vita, per sempre ridotta ai livelli minimi, la novità tematica»28 dell’opera. E ora, per assurdo, alla domanda su cosa fossero le lacrime Canali potrebbe anche rispondere, astraendo dalla sovranità dell’ironia, con le parole che, nello Zauberberg, il dottor Behrens, coerentemente con la sua ideologia medica e chimica che tutto riconduce alle facoltà organiche, riferiva alle lacrime di Hans per la morte di Joachim: «col nome di quel prodotto ghiandolare alcalino e salato che la scossa nervosa provocata da un dolore intenso sia fisico che morale, spreme dal nostro corpo. Egli sapeva che fra i componenti di quel liquido v’erano anche la mucina e l’albumina»29.
In Ancora dalla clinica la declinazione del verbo al presente è funzionale. Anche nella circostanza di un uso con funzione atemporale, come nel caso di osservazioni o di verità di ogni tempo. Spicca «sembrava» – forse presente di passato, la forma imperfettiva sta comunque ad indicare l’indeterminatezza di una cosa passata e non compiuta –, che esprime la potenzialità nella vita, quando, appunto, la vita dava l’illusione di adempiere tutte le sue promesse. Il presente è la forma temporale nella quale vengono percepiti gli effetti, mentre le cause di questa landa desolata provengono da lontano30. Il tempo presente aggrava le tinte depressive nella dialettica ora-allora, il pensiero dell’ora viene per lo più avvertito in difetto rispetto ai giorni passati, da annoverare nel tempo perduto. Ma disponiamo solo del presente, qui dilatato e insieme esautorato, che sperimenta la sua inconsistenza. La depressione clinica estrania l’anima dal mondo, così il tempo dei malati non fluisce, e ci si bagna sempre nello stesso fiume («Il tempo del dolore è un tempo lento, ristagna e affonda»31). Nella Montagna incantata il tempo della pianura – del cui mosso scenario mondano a Davos si percepiscono solo gli echi –, cronologico, consistente quindi nella successione di momenti identici in rapporto tra loro, è la prova di una ricchezza di mondo, mentre a Davos, non a caso teatro di uno Zeitroman, si era come in una condizione di revoca del tempo, di ambiguità dell’idea della durata temporale, in una pausa languorosa da interessi, atti, volizioni. Così come nel tempo incantato della clinica, regno dello stato di estenuazione della malattia e della mancanza di mondo, sorge una nuova coscienza del tempo, cioè la sua dissoluzione nella immaginazione soggettiva ormai inconsapevole delle distanze temporali. Nella clinica la direzione temporale è di straniamento, caliginosa, greve e insieme evanescente, e come nel Berghof il tempo è legato al movimento e scandito dal consumarsi delle vite, «tra la meraviglia dei rari astanti» (Epigrafe, Ai rari astanti). Tuttavia, l’impercezione del tempo come estensione non preclude, né rallenta, il sentimento abbandonico, così la sensibilità temporale, cioè la cognizione della fuga del tempo, è incapace, a livello di stile, di affabulazione ritmica. Il tempo si calcola in trasformazioni, se vengono meno movimento e tensione emozionale verrà meno anche l’esperienza temporale. Il tempo dei malati al limite si inflette nella discontinuità di attimi e di voci avvolte dal torpore e dall’oblio e dalla polvere degli anni. In questo hic et nunc stagnante e indeclinabile alla perdita del passato e delle sue «amate ombre» si unisce la perdita del futuro, quindi del télos, e del senso della vita. Esorbitano dal filo del presente le memorie intraviste, vaghe o deformate, o messe a fuoco con «lo zoom del ricordo». Ma l’atemporalità è multipla: nella sospensione temporale in cui la clinica è trattenuta, nell’espandersi e ritrarsi senza illusioni di fuga dalla vita anteriore, nella dismissione di una identità psicologica che non ha origini riconoscibili (almeno in quei punti dove il protagonista si disegna come se fosse un’altra persona), nella trafittura del disapprendimento, nell’aver ormai disimparato il passato, «quando ancora sapevo ridere», «quando la mente sembrava una sciabola di battaglia, / lineare e illusoria al pari di una rivolta di poveri, / una pleurite secca curata con l’aspirina».
Pagnanelli, Clinica: «efficiente disordine. Bottiglie morandiane / metà opache, lembi di liquide rose sui guanciali, / veli veloci a coprire…»32. Quale risposta, allora, allo «stimolo dell’iminodibenzile» o alle altre, cosiddette, «modalità di intervento»? La medicalizzazione con le benzodiazepine è l’unico fattore che nel quotidiano oblio di sé e nella condiscendenza inerte ai paradigmi della clinica spinge all’azione automi serrati in «subconsce rassegnate agonie», «diverse solitudini» arrese al succedersi ripetitivo del gramo tessuto degli eventi in un tempo misurato dai protocolli sanitari. L’avversativo «Ma» – che introduce i versi finali della prima delle quattro strofe – non cambia una situazione di fatto, infligge piuttosto un richiamo, nella prospettiva della auctoritas del codice della cosiddetta «norma», a un ordine che ricomponga la dispersione in una relegazione forzata dove incombe l’idea di esistenza percepita come attesa ed epicedio per la «soluzione finale». L’esistenza è naufragante per statuto, uno sguardo da recluso oltre i vetri – «lacrimosi», avrebbe specificato Corazzini33 –, margine insuperato verso una libertà inconsistente. E l’estate stessa, evocata nell’ultima strofe, non è che il detestabile emblema dell’esplosione della vita, e forse anche per questo, nei versi conclusivi di Ancora dalla clinica (e del libro, in Evocazione), Canali dice di rimpiangere il gelo dell’inverno, quella stagione, in una inversione di climi interiori, anteriore al già leopardiano «apparir del vero». E quando l’inverno verrà «con i tuoi guai, / ti potremo anche / maledire». «Allora sarà indifferente, credo, / resistere o cedere alle mattutine / serenate della morte o all’abbraccio / della vita»34. Quindi non c’è stagione che valga, la sindrome depressiva non è un disturbo affettivo ambientale o stagionale ma un fatto strutturale, dirà più volte Ottieri lungo Il poema osceno, quasi in risposta alle illusioni che gli addetti ai lavori tentano di instillare negli psiconevrotici o negli alienati, a seconda del loro quadro psicologico, o della loro caratterizzazione clinica: «Il dottore è sempre supposto / sapere più di te, / perciò ci vai, / ma tu ormai rischi / sapere più del dottore»35. Ancora Ottieri: «La morbosità nervosa e mentale è appunto un intrico di radici il cui misterioso affondare è spesso l’anima della malattia. Malattia è il non sapere mai tutte le cause, è il buio smarrimento del senso dei precedenti, della ‘ragione’ o delle ‘ragioni’ dei legami chiari e innocenti con la realtà; per questo la psicoterapia non è che il loro inseguimento all’infinito»36.
In Sur la lecture, quella poco ortodossa introduzione alla sua traduzione di Sesame and Lilies di John Ruskin, Proust, tra le altre cose, scriveva che ci sono «casi patologici per così dire, di depressione spirituale in cui la lettura può diventare una sorta di disciplina terapeutica». La lettura può costituire un trattamento psicoterapico perché ha il potere di scuotere da quell’essenziale apatia, da quell’accidia indolente da cui il soggetto disforico non riesce a trarsi con le sue sole forze. Stimolo che proviene da un intervento esterno, da esercitarsi nella solitudine (che tuttavia Canali diceva di non amare), lontani dalla conversazione mondana che è all’origine del tempo perso. È in un contesto di separatezza e di asocialità che in individui d’eccezione – com’è stato Luca Canali – può risvegliarsi una qualche «attività creatrice», originale: dietro «l’impulso di un’altra mente, ma accolto in piena solitudine»37. Come dire, l’essenza della lettura secondo Proust. La quale, se vuole essere un’esortazione o un richiamo a colmare un difetto del volere, non può permettersi di ingenerare fenomeni bovarystici di istituzione di identità sostitutive. Alcune idee di Proust sulla lettura si addicono al caso di Canali, dei cui disagi per altro sappiamo soltanto ciò che egli ha scritto o ha detto pubblicamente. Conosciamo però la sua opera dotta e molteplice. E forse quello che non ha fatto la psicoterapia è riuscito a farlo proprio la lettura. Latinista insigne, scrive un libro38 singolare, dove sottopone ad analisi sette poeti latini che spiccano per l’alto grado di complessità delle loro opere, autori cui è restituita una vita reale, quella di antieroi del nostro evo. Quindi non c’è confronto con il mito, ma con una sensibilità resa moderna dall’introduzione dell’inconscio. Nel setting comunque intemporale, remoto nel tempo e nello spazio, in cui avvengono questi incontri, questi dialoghi composti di storia e di invenzione, scopriamo infatti che anche a una distanza infinita «ognuno soffre la sua ombra». Da Lucrezio a Catullo agli elegiaci, il mellifluo ma esiziale amatorium poculum (come nel mito biografico tratteggiato da Girolamo nel Chronicon) ha assunto le tinte e gli aromi più diversi. Dal trasporto e dallo stordimento alla malinconia dolcemente malata, dalla sensualità e dalla seduzione venate di mondana ironia all’illusione spasmodica di un possesso carnale che proprio trovando il proprio compimento si dissolve nella tensione vana alla infinità della gioia.
E per riallacciarmi al discorso sul talora labilissimo discrimine tra salute e malattia, nonché sulla supposta compromissione cognitiva a causa della depressione, rimando ad alcune riflessioni di Canali – che pure aveva sostenuto l’estraneità tra malessere psichico e creazione, screditando l’ipotesi del soggetto genializzato ad opera della malattia, quindi l’equazione malato-voyant, e indirettamente anche la stretta affinità, di cui parla Freud, tra artista e nevrotico – apparse nel 1964 sul «Contemporaneo».

È stato più volte asserito che i morbi del corpo e dell’anima fanno velo alle facoltà razionali, e che non di rado i loro fantasmi sono scambiati dai medesimi infermi pensanti per ferrate costruzioni logiche, laddove invece essi divergono al massimo nella loro allucinata certezza dalla realtà delle condizioni oggettive. Così, secondo tale proposizione, le neurosi e i deliri, per non parlare di più tangibili guasti organici, sublimando in concezione del mondo possono tutt’al più costituire la base di una poetica, o comunque un’immaginazione privata, ma non l’avvio ad un processo conoscitivo. Al contrario io mi chiedo se la salute, cioè il perfetto equilibrio corporeo, l’inavvertito ciclo delle funzioni e il fluire dei processi mentali negli argini di una realtà convenuta, non elimini quell’attrito col mondo, quel continuo arrovellarsi in se stessi, quell’aberrare dai pensieri comuni da cui discende in ultima analisi la capacità di intravedere oltre i limiti della relatività funzionale qualche barlume di verità più diffusa. Comprendo bene che la salute, in tal modo definita, sia il più efficace strumento di attacco, o quantomeno di attiva difesa, in una società in cui la lotta spietata è divenuta condizione di vita; e che un corpo e una mente ben sani, senza aritmie e senza ingorghi siano i mezzi più adatti a sussistere, a smemorarsi nella selvaggia felicità delle azioni, nella ottusa ma onorevole beatitudine delle idee strumentali, nel deciso procedere, nell’imperturbabile fede nell’apparenza delle cose, insomma nella propria saldezza animale neppure sfiorata dal sospetto che quel livello, quella dimensione, quel profilo siano soltanto una, neanche la più attendibile, delle infinite ipotesi del mondo. […]. Ci sono momenti in cui sembra estremamente facile vivere come gli altri, spensierati e persino in eccellente salute: basterebbe rompere quell’attrito con la società e con gli individui in essa integrati, uniformarsi alle loro consuetudini, alle loro leggi, ai loro commerci e balordi ideali, distendersi insomma e galleggiare nella corrente; ma come desiderare ciò, se questa resa tranquillante (l’unico vero tranquillante delle terapie moderne) esaurisce al contempo la volontà di battersi, di riflettere, di comunicare e sia pure di distruggersi in un urto continuo e senza speranza? Senza speranza, appunto, come un morbo incurabile che nell’epidemico ottuso benessere sia l’unica forma superstite di stravolta salute. Ed ecco perciò quelle perversioni e quei morbi risolversi in ribelle affermazione di vita, in una sorta di rivoluzione privata, sia pure votata alla disfatta dell’io.39

Molto emblematicamente, ad esergo a queste sue riflessioni Canali ha posto un punto del Tractatus di Wittgenstein. «Per una risposta che non si può esprimere, nemmeno si può formulare la domanda. L’enigma non c’è… Noi sentiamo che se tutte le possibili domande della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati. Certo, non rimane allora alcuna domanda; e questa è appunto la risposta. Il problema della vita si risolve quando svanisce. (Non è questa la ragione perché uomini, cui, dopo lungo dubitare, il senso della vita divenne chiaro, non seppero dire in che consistesse questo senso?)»40.

Note

  1. L. Canali, Il naufragio, Prefazione e note di G. Spagnoletti, Milano, Rizzoli, 1983. Le citazioni da Canali senza specificazioni o rinvii in nota si riferiscono solo al Naufragio.
  2. O. Ottieri, Il poema osceno, Milano, Longanesi, 1966, p. 116.
  3. L. Canali, Autobiografia d’un baro, in Autobiografia di un baro. Cronache di un mito al tramonto, Milano, Bompiani, 1983, p. 214.
  4. Th. Mann, La montagna incantata (1924), tr. it. di B. Giachetti-Sorteni, Varese, Dall’Oglio, 1984, vol. I, cap. quinto. Il quale – acquisito dalle teorie del professor Krokowski che «Il sintomo della malattia è un travisamento dell’attività amorosa, ogni malattia è una metamorfosi dell’amore» (Ivi, p. 143) – si chiude con la indimenticabile dichiarazione d’amore di Hans, improntata all’ideologia medica del dottor Behrens. Le parole di Hans enfatizzano le facoltà organiche, la trasparenza e la bellezza interiore, cioè la bellezza organica del corpo, come in un’immagine radiografica (che Hans chiederà a Clawdia come il suo ritratto più intimo) che contestualmente raffigura la vita e la morte nella misura in cui ritrae lo scheletro. La prossimità di amore e morte attribuisce all’amore una superiore completezza e lo trae da qualsiasi forma ordinaria e imperfetta dell’esperienza. Con Clawdia, qui, Hans parla in lingua francese, così come si parlerebbe in sogno: Je t’aime, je t’ai aimée de tout temps, car tu es le le ‘toi’ de ma vie, mon rêve, mon sort, mon envie, mon éternel desir… […].Oh, l’amour, tu sais… Le corps, l’amour, la mort, ces trois ne font qu’un. Car le corps c’est la maladie et la volupté, et c’est lui qui fait la mort, et voilà leurs terreurs et leurs grandes magies! Mais la mort, tu comprends, c’est d’une part une chose malfamée, impudente, qui fait rougir de honte; et d’autre part c’est une puissance très eternelle et très majestueuse […]. Oh, les douces régions de la jointure intérieure du coude et du jarret avec leur abondance de délicatesses organiques sous leurs coussins de chair! Quelle fête immense de les caresser ces endroits délicieux du corps humain! Fête à mourir sans plainte après! Oui, mon dieu, laisse-moi sentir l’odeur de la peau de ta rotule, sous laquelle l’ingénieuse capsule articulaire sécrète son huile glissant. Laisse-moi toucher dévotement de ma bouche l’arteria femoralis qui bat au front de ta cuisse et qui se divise plus bas en les deux artères du tibia! Laisse-moi ressentir l’hexalation de tes pores et tâter ton duvet, image humaine d’eau et d’albumine, destinée pour l’anatomie du tombeau, et laisse-moi périr, mes lèvres aux tiennes!
  5. «Caro Søren, mi dispiace deluderti, ma la follia non ha profondità, è solo un piatto deserto, sconfinato, certo, ma alto solo qualche centimetro. Prova a scavare anche tu, non troverai nulla e presto ti accorgerai che è solo polvere distesa, e, forse, qualche volta sentirai anche l’odore di un fumo acre e amaro. Non c’è profondità nella sofferenza, c’è solo un sordo dolore, non c’è nulla che tu possa scoprire solo vivendo; non farti ingannare dal facile presagio che vuole ‘profonde’ le cose ignote, e dense e grevi di sapienza le cose occulte, o che ci sembrano occulte; è il mito della bellezza di ciò che non si sa: quando i lumi della ragione raggiungeranno i pretesi abissi dell’inconscio, ci accorgeremo che quei terribili fondali sono solo aggraziati prati di collina e che le tenebrose pianure piene di mostri sono solo ameni ruscelletti dalle chiare e fresche acque». Firmato: «un neorazionalista di guardia, Dario Grossi». In G. Di Petta, C’era una volta il manicomio (dal diario di un giovane medico), Roma, Edizioni Universitarie Romane, 2014, p, 159.
  6. L. Canali, Visita della figlia, in Autobiografia di un baro, cit., pp. 103-104.
  7. C. Garboli, Antologia critica su Il naufragio, cit., p. 11. Cfr. anche Introduzione a Luca Canali, Versi da una clinica, in Almanacco dello Specchio, Mondadori 1979. Dove, a proposito di alcuni testi precedenti di Canali, si legge: «Dico subito che il ritmo, il sermo scelto per questi ragionati vaneggiamenti da paziente imbottito di psicofarmaci (ritmo prosastico e colloquiale, stile quotidiano e feriale) ha tutta l’apparenza di un ritmo tradotto dall’esametro o da metri lirici di un Orazio devastato […]. Nessuna idea, naturalmente, di ‘riproduzione’ né barbara (carducciana) né più corretta, cioè pascoliana. Nell’orecchio di Canali è semplicemente entrata una musica. Entrata dal di fuori: la musica di esametri lunghi […], tradotti fino alla nausea, prima per vocazione, poi per professione, prima il De rerum, poi l’Eneide, masticati prima masticando Lucrezio e Virgilio, poi pensando a se stesso, sempre più a se stesso».
  8. L. Canali, La deriva, Introduzione di G. Spagnoletti, Milano, Rizzoli, 1979.
  9. O. Ottieri, Il poema osceno, cit., p. 349 (designazione che dà il titolo a questa riscrittura).
  10. Id., Contessa, Milano, Bompiani, 1975, p. 26.
  11. M. Lowry, Caustico lunare (1963), tr. it. di V. Mantovani, Introduzione di A.R. Falzon, Milano, Mondadori, 1988, p. 92 e 118.
  12. Ivi, p. 16.
  13. Th. Mann, Saggi. Schopenhauer, Nietzsche, Freud (1960), tr. it. di B. Arzeni e I.A. Chiusano, Introduzione di R. Fertonani, Milano, Mondadori, 1980, p. 86 (Mann si riferisce all’af. 270 di Al di là del bene e del male). In Doctor Faustus, il diavolo a Adrian Leverkühn: «La malattia, tanto più se è seria, scandalosa, discreta e segreta, stabilisce una certa antitesi critica al mondo, alla vita dozzinale, ispira sentimenti di ribellione e d’ironia contro l’ordine borghese e spinge il suo uomo a cercar protezione nello spirito libero, nei libri, nel pensiero». È «la malattia creatrice, la malattia che largisce la genialità, che scavalca gli ostacoli e nell’ebbrezza temeraria balza di roccia in roccia, è mille volte più benvenuta nella vita di quanto non sia la salute che si trascina ciabattando. Non ho mai udito una cosa più sciocca dell’affermazione che dai malati possa venir soltanto una cosa malata». Doctor Faustus, La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico (1947), tr. it. di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1996, pp. 269 e 280-281.
  14. L. Canali, Il sorriso di Giulia, Roma, Editori Riuniti, 1980, p. 98.
  15. G. Bufalino, «Guida-indice dei temi», in Appendice a Diceria dell’untore, Prefazione e cura di F. Caputo, Milano, Bompiani, 1994, pp. 175-176.
  16. R. Pagnanelli, Continuum (1976), in Epigrammi dell’inconsistenza, a cura di E. De Signoribus, Grottammare, Stamperia dell’Arancio, 1992, p. 59 (postumo). Ora in Quasi un consuntivo (1975-1987), titolo emblematico di una selezione della sua opera in versi, a cura di D. Marcheschi, Donzelli, Roma, 2017, p. 46. Ma è altrettanto emblematico, e soprattutto sconcertante, se si considera che il consuntivo è stilato nei versi del periodo dell’esordio poetico di Pagnanelli, Dopo (1978-1981). Fin da allora una cadenza ironica tradisce la lucidità senza speranza di continuare a elaborare verbalmente e meditatamente la propria esperienza (giacché, per lui, la poesia non è una successione di sillabe consolatorie o un logos autoterapeutico o una autotanatografia ma, nell’ottica di una «conservazione attiva» della tradizione, è un investigare il senso dell’inconsistenza; è martyrion, in particolare quando, con i suoi eteronimi, esce da una configurazione monologante), ad incidere nell’orizzonte poetico di fine anni Ottanta, nel momento stesso cioè in cui veniva visitato dal pensiero della dissoluzione. Come accade nella forma del carmen solutum dei Preparativi per la villeggiatura, con i loro giochi d’eco e le loro riprese vagamente ecolaliche, in una versificazione, qui, quasi scandita per sintagmi: «tra un tentativo e l’altro (suicidario), scrivo un saggio di sudario su Viaggio d’inverno, preparo un libro dal titolo Atelier d’inverno (sussidiario). L’inverno è in me, certamente. Parcamente mi consolo in tombeaux di autori celebri. Anche qui, vedete, conati (clonazioni), disperazioni disperanti, dispersioni» (in Preparativi per la villeggiatura, date liminari 1985-1987, Montebelluna, Amadeus, 1988, p. 56, postumo). Ivi. p. 12: «non sudati, come gli dèi, mai», il tocco del grande poeta: l’eterno che entra con passo lieve, senza farsi accorgere, nel tempo, nell’immanenza più esigua e transeunte. Ricollegandomi all’esergo da Pagnanelli, quanto alla metafora del vento che entra, forse l’autore aveva in mente, oltre il Cimitière marin di Valéry, il Caproni di Dopo la notizia, dove il vento è appunto quello mobile-immobile della «morte che vive», dell’istante eterno che fonde in sé tutti i momenti e li azzera. O ancora, il Montale di Vento e bandiere, dove il ritorno del vento, assente la donna, testimonia di una sconnessione, una fenditura, una sfasatura del tempo che «non mai due volte configura / in egual modo i grani», gettando l’uomo nello smarrimento eppure salvaguardando il suo benché esile margine di scelta e di autodeterminazione nell’istante del nome scevro da connotazioni personali.
  17. Agamben, in una delle sue riflessioni sulla soglia, qui a partire dal progetto di Carlo Scarpa del riutilizzo, per lo IUAV, della porta del Convento dei Tolentini: «La soglia diventa uno spazio in cui possono avvenire mutamenti, passaggi e persino fenomeni di flusso e riflusso come nelle maree». In G. Agamben, «Porta e soglia», in Quando la casa brucia, Macerata, Giometti&Antonello, 2021, pp. 23-34.
  18. O. Ottieri, Il poema osceno, cit., p. 172 e 417.
  19. G. Gozzano, Alle soglie, I, I colloqui.
  20. L.Canali, Spezzare l’assedio, Milano, Bompiani, 2003. p. 124.
  21. Id., Stilemi, Milano, Società di Poesia,1982, p. 16.
  22. Inferno X, quando Cavalcante de’ Cavalcanti chiede del figlio: «Non fiere gli occhi suoi lo dolce lome?».
  23. L. Canali, Il vuoto, in Stilemi, cit., p. 26.
  24. Id., Sfida, in Stilemi, cit. p. 48.
  25. Apparsa su «la Repubblica», 29 settembre 2013. Si leggeva in Spezzare l’assedio (cit., p. 179): «Sono sempre stato scisso fra teneri paradisi e inferni postribolari. Ho sempre inconsciamente suddiviso le donne in caste divinità o turpi meretrici, senza mai umana commistione possibile, senza mai amalgama fra le due immagini crudelmente contrapposte della madre e dell’amante. Il tanto perseguito e praticato erotismo ha sempre conservato in me lo stigma dell’osceno, al punto d’indurmi a rinnegare il mio stesso concepimento e l’amplesso coniugale che l’ha provocato. È questa, ne sono certo, la radice del mio male, che m’accompagnerà fino alla morte, accelerandola».
  26. P. Watzlawick, J.H. Beavin, D.D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi delle patologie e dei paradossi (1967), tr. it. di Massimo Ferretti, Roma, Astrolabio, 1971, p. 40.
  27. Di seguito due versioni che hanno condizionato due evi. Scriveva Kierkegaard, assorto nel problema religioso, che la malattia non remissibile né redentrice è il filisteismo acquiescente, mentre la disperazione, ovvero la percezione della nostra incompletezza, è malattia che conduce alla consapevolezza del senso eterno della vita. «Colui che senza affettazione dice di essere disperato è, in un senso dialettico, un po’ più vicino alla guarigione di tutti quelli che non sono ritenuti e non si ritengono essi stessi disperati. Ma appunto questo […] è il caso comune, che gli uomini vivono senza diventare consapevoli di essere determinati come spirito; e da ciò deriva tutta quella sicurezza, contentezza della vita e via dicendo, tutto quello che è proprio disperazione. Coloro, invece, che dicono di essere disperati, sono normalmente o quelli che hanno una natura tanto più profonda da doversi fare consapevoli di essere spirito, o quelli che avvenimenti gravi o decisioni terribili hanno aiutato a farsi consapevoli di essere spirito, cioè sono o gli uni o gli altri; perché molto di rado si trovano certamente coloro che in verità non sono disperati». In S. Kierkegaard, La malattia mortale. Saggio di psicologia cristiana per edificazione e risveglio di Anti-Climacus (1849), tr. it. di M. Corssen, Introduzione di R. Cantoni, Roma, Newton, 1981, p. 22. Da tutt’altro versante, quasi un secolo dopo, e nella prospettiva dell’interconnessione e della specularità di mente e corpo, Wilhelm Reich: «È possibile continuare a occuparsi delle nevrosi di singoli individui così come si presentano nello studio privato dello psicoanalista? La malattia psichica è un’endemia della popolazione che opera in modo sotterraneo. Tutta l’umanità è psichicamente malata» (La funzione dell’orgasmo. Dalla cura delle nevrosi alla rivoluzione sessuale e politica, 1927, tr. it. di F. Belfiore, Prefazione di R. Madera, Milano, Il Saggiatore, 2010).
  28. G. Spagnoletti, Prefazione al Naufragio, cit., p. 10.
  29. Th. Mann, La montagna incantata, cit., vol. II, p. 216.
  30. «Se vuoi conoscere i tuoi pensieri di ieri osserva il tuo corpo oggi / se vuoi sapere come sarai domani osserva i tuoi pensieri di oggi», in F. Battiato, M. Sgalambro, Il cammino interminabile, in Ferro battuto, 2001.
  31. G.L. Ferretti, Reduce, Milano, Mondadori, 2006, p. 23. Il riferimento non è casuale. Il Ferretti che nei suoi testi designa, allude, devasta e rigenera – con cadenze insistenti, nel rafforzamento semantico della parola per accumulazione asindetica, con la ripetizione ossessiva, con l’espressivo straripamento verbale, con lo sconfinamento nell’antimelodico dopo una dilazione dell’elegiaco – è stato operatore psichiatrico (e ciò potrebbe aver condizionato, e in maniera sublime, testi come Curami, ad esempio), e certi stilemi forse derivano proprio dal ricordo commosso di esseri sofferenti. E quella che a volte potrebbe apparire una ostentazione di scomposte ecolalie altro non è che un parlare liberamente e disinibitamente, pressappoco nel senso che i romantici accordavano alla nozione di «ispirazione».
  32. R. Pagnanelli, Clinica, in Preparativi per la villeggiatura, ora in Quasi un consuntivo, cit., p. 103.
  33. S. Corazzini, Toblack, III: «Ospedal tetro, / buona penitenza per i fratelli misericordiosi / cui fece di sé Morte pensosi / nella quotidiana esperienza, // anche se dal tuo cielo piova, senza / tregua, dietro i vetri lacrimosi / tiene i lividi tuoi tubercolosi / un desiderio di convalescenza». («Rugantino», 27.X.1904, poi in L’amaro calice, uscita a Roma nel 1904 con la data del 1905).
  34. L. Canali, Anticlimax, Cosenza, Edizioni Orizzonti Meridionali, 1999, XXIX, p. 38. Riedito nel 2014 dalla Biblioteca dei Leoni, Introduzione e cura di Paolo Ruffilli.
  35. O. Ottieri, Il poema osceno, cit., p. 134.
  36. Id., L’irrealtà quotidiana, Parma, Guanda, 2004, p. 66.
  37. M. Proust, Sur la lecture, introduzione alla sua traduzione di Sesame and Lilies (1906) di John Ruskin, ora in Id., Il piacere della lettura, tr. it. e postfazione (Proust e la traduzione) di D. Feroldi, prefazione («Il nostro cuore cambia»: Proust e le rivelazioni della lettura) di E. Trevi, Milano, Feltrinelli, 2016, pp. 39-40.
  38. L. Canali, Ognuno soffre la sua ombra. Da Catullo a Giovenale: i grandi nevrotici della poesia latina, Milano, Bompiani, 2003.
  39. Id., Il silenzio delle pulci, estratto da «Il Contemporaneo» del N. 75-76, Milano, Parenti, 1964.
  40. L. Wittgenstein, Tractatus logico-filosoficus (1921), Introduzione di B. Russel, tr. it. e cura di G.C.M. Colombo, Milano-Roma, Bocca, 1954, § 6.52, pp. 283-285. L’epigrafe del Silenzio delle pulci riproduce solo la parte centrale delle parole qui riportate.

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