Ragionare «sobriamente» e osservare con «intemperanza». Malattia e ricerca medica nelle riflessioni scientifiche di Francesco Algarotti
Denise Aricò, Ragionare «sobriamente» e osservare con «intemperanza». Malattia e ricerca medica nelle riflessioni scientifiche di Francesco Algarotti, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 53, no. 3, giugno 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.9920
1. «Io sono divotissimo di messer Cornaro … »
Aprire i Pensieri diversi di Francesco Algarotti, usciti postumi nel 1765, significa accedere direttamente ai materiali e ai ragionamenti di uno scrittore pronto a registrare con lucidità sobria e acuta i fatti culminanti del Settecento italiano ed europeo. Vi rifluiscono recensioni e appunti, pronti per un eventuale impiego, pieni di vita e di colore, di figure e di notizie singolari, torniti in forma di aneddoti di varia lunghezza, privi di titoli o numeri progressivi, a differenza delle riflessioni del barone di Montesquieu o degli schemi lemmatici dell’Encyclopédie1. I Pensieri diversi, temperati da una scioltezza nobile e naturale che piacque anche a Leopardi, sono capaci di indicare le ragioni più generali di una società in trasformazione, dove si confrontano le discussioni sui conflitti militari e le scoperte scientifiche del giorno, le strategie del nascente giornalismo nell’orientare l’opinione pubblica, le responsabilità dei legislatori nel perseguire la «pubblica felicità. 2»
Quando si tratta di Algarotti, letterato e viaggiatore, verrebbe proprio voglia di parlare di evidenza realistica. Il suo nuovo modo di accostarsi al reale ubbidisce alla logica di un savant trasferita in un’arte di alta e civile divulgazione. Si prenda il tema della malattia, carico di una solenne memoria letteraria; invano si cercherebbe nelle sue pagine qualcosa di sinistro. Malati o morenti non sono mai calati in un’atmosfera di freddezza funebre o di gravità grottesca:
«Ognuno muore come ha vissuto. Il sig. di Lany matematico essendo in agonia, e non conoscendo più persona, dié solamente risposta al sig. di Maupertuis, che gridandogli nell’orecchio gli domandò, qual fosse il quadrato di sessanta. Malherbe, in punto di morte si storceva agli errori di lingua, che nello esortarlo a ben morire commetteva il suo confessore. Il cavalier Bajardo, ricevuto un colpo mortale alla giornata di Rebec, si fa porre sotto a un albero con la faccia volta a’Tedeschi, dicendo che, poiché non avea mai de’suoi dì volto le spalle a’nemici, non voleva nemmen farlo l’ultimo giorno della sua vita.3»
Nemmeno la sua esistenza d’infaticabile osservatore e di giudice indulgente di sé stesso, con il suo corredo di malesseri e di malinconie ipocondriache, emerge dall’epistolario toccata da una realtà volgare e terribile. Così, per esempio, scriveva questo “Orazio” moderno:
«Che debbo io dire, […] che da quel tempo sino ad ora ho languito d’infermità di stomaco: e chi dice infermità di stomaco, dice pur troppo mille diavolerie. Ho provato medicine, acque, e tutto è stato niente. Da alcuni giorni in qua mi vo rimettendo per virtù sovrana della polenta presa a digiuno, che è divenuta il mio cioccolatte. Ma non basta la polenta, se tu non vivi sobriamente. E così fo. Dimodoché messer Luigi Cornaro dalla vita sobria è il mio duce e il mio maestro. Io non passo mai dinanzi al suo palagio, che non benedica quel buon Nestore della medicina. 4»
Scegliere di militare tra i seguaci del gentiluomo veneziano, padre della dietetica moderna, significava indossare la divisa di un moralismo colto e sorridente ispirato, se non al rigore, all’ordine. Non è difficile rinvenire testimonianze di questa indisposizione comparsa negli anni della giovinezza e sempre affrontata con fiducia nei medici, una condizione che l’amico Francesco Maria Zanotti scelse addirittura come modello letterario di raccoglimento elegiaco5. All’abate Flaminio Scarselli che lo invitava a Roma, Algarotti confidava in un’altra occasione:
«questo nuovo insulto che ne ho provato, unito con una magrezza che potrebbe esser un principio di etisia mi ha fatto lasciar da banda il pensiero del mio viaggio, e mi ha fatto ricorrere all’avena ai brodi di vipera, a quello che credo per consiglio dei medici essere più il caso pel mio male6.»
2. Medicine per lo spirito
La fisiologia aristotelica ha lasciato il posto a quella più dinamica della scienza post-galileiana e la malattia, nelle riflessioni di Algarotti si converte in occasione d’intervenire nelle cose del mondo con un discorso ricco d’intimità e un tono arioso: «una delle migliori medicine è che lo spirito spassi in cose dilettevoli e belle»7 sosteneva e, una volta a Berlino, esiliate «le gocce, e le polverine alla moda, delle quali anche qui ve n’è un morbo», ammetteva che era facile dimenticare le regole della dietetica quando si era invitati alle «cene del re» di Prussia, dove si poteva gustare la conversazione frizzante dei commensali condita dagli aromi del Tokay. Forse, soggiungeva maliziosamente, avrebbe ceduto anche messer Cornaro8. In quest’anamnesi medica eterodossa inseriva «la conversazione con le Muse» sugli autori prediletti, cui aggiungeva gli esercizi prescritti dall’ippoterapia:
«Posi adunque tutti i ricettarj sotto la sella di un cavallo, e da qualche tempo in qua cavalco un pajo d’ore quasi ogni mattina. E già godo d’aver trovato vero quel detto di Plinio: equitatio stomacho, et costis utilissima; e quello aforisma del Sidenamio, che il cavallo è la china degl’ipocondriaci. Il più delle volte a rendere più dolce il rimedio ci vado in compagnia di qualche amico, e se non altri, ho la compagnia delle muse9.»
Il suo biografo Domenico Michelessi lo descrive sempre occupato a leggere e studiare «le notti intiere, senza che paresse poi ch’egli studiasse, mercé il buon uso e la buona distribuzione, che seppe fare del tempo; poiché senza mai tralasciare uffizio alcuno, passava dai libri alle usanze urbane, e alla lieta e gioviale conversazione»10. L’apprensione per le critiche, l’etisia prima temuta poi conclamata, minavano però la sua salute: «sopravvennero i mali dello stomaco e de’ nervi, e l’ipocondria, malattia familiare de’ temperamenti sensibili, e specialmente delle persone di viva fantasia e studiose.11»
Il colloquio tra amici si conferma come il rimedio più efficace contro la «malinconia», ora che la sua interpretazione moderna sanciva un nuovo statuto soggettivo nella ‘gens de lettres’ e un rapporto positivo con la società12. Il soggiorno a Pisa, in un clima più adatto alle sue condizioni, diede ad Algarotti l’opportunità di dedicarsi a una revisione delle sue opere lieta e alacre, che continuò sino alla scomparsa. Il Michelessi lo mostra ritratto nella sua fattezza più quotidiana, dove la vita sembra misurata dall’ansia di un progetto stilistico, mentre, sdraiato, abbozza sul foglio le linee del proprio monumento funebre, aspettando la fine «senza querele, e con filosofica costanza.13»
3. «Nemo solus satis sapit»
A leggere questi pensieri ciò che prende sempre più evidenza è il discorso sul significato della scienza nel mondo contemporaneo e sul senso dell’efficacia delle più recenti esperienze speculative, non solo occidentali. Nella biblioteca medica che si è composta sin qui, sommando le tessere del racconto di Algarotti, sfilano, dopo i nomi di Caio Plinio Secondo e Alvise Cornaro, quelli del fisico Thomas Sydenham, tra i primi studiosi del vaiolo e della scarlattina, e di Lorenzo Magalotti, allievo di Marcello Malpighi.
La cosa non stupisce. Giammaria Mazzuchelli ci ricorda che Algarotti aveva formato le sue competenze di anatomia e medicina sugli scritti di Iacopo Bartolomeo Beccari, «le cui lezioni sulla fisica sperimentale regolarmente udiva nell’Instituto; e si compiacque di assistere a varie sezioni del corpo umano per vedere in effetto ciò che prima aveva egli letto e studiato.14»
Nell’Università bolognese, ascoltando le lezioni di astronomia di Eustachio Manfredi, Algarotti era stato contagiato anche dalla personalità del suo maestro, uomo di lettere e scienziato, e sotto la sua guida aveva condotto esperimenti per verificare le teorie newtoniane sulla scomposizione della luce. Aveva poi realizzato dimostrazioni pratiche con i prismi ottici nelle sale dell’Istituto delle Scienze e delle Arti aperte a un pubblico non esclusivo, «come si fanno giornalmente in Parigi; e le donne gentili vanno a vedere dal Nollet refrangere diversamente i raggi, come vanno alla Zaira del Voltaire», notava con compiacimento nel Newtonianismo per le dame uscito nel 173715. Se può parere superfluo ricordare la fortunata produzione teatrale di Voltaire, è forse utile presentare Jean-Antoine Nollet, membro dell’Académie des Sciences di Parigi e della Royal Society di Londra, nonché ambizioso scienziato alla corte di Luigi XV, dov’era solito allestire spettacoli di ottica e di elettricità al cospetto di dame e cavalieri. Un avvertito cerimoniere, insomma, che Algarotti definiva con un sorriso l’«arconte in questa provincia della filosofia. 16»
Lo studioso veneziano concordava con gli ideali baconiani finalizzati dai sodali dell’Istituto fondato da Luigi Ferdinando Marsili a realizzare un programma di social welfare che promuoveva l’alleanza tra gli scienziati e coloro che svolgono mestieri pratici, soldati, architetti, artigiani, secondo gli obiettivi del consorzio londinese17.
Tra i Pensieri diversi se ne incontra uno, dove gli araldi della nuova epistemologia appaiono abituati a praticare un lavoro d’équipe, certi, con Plauto, che «nessuno può dire di saperne abbastanza, se pretende di lavorare da solo.18» Si ascolti:
«Con la scorta dei Galilei dei Malpighi dei Torricelli dei Borelli de’ Santorj de’ Guglielmini de’ Cassini ed altri fecero tra noi le scienze tali progressi, che forse il seicento sarà per alcuni posto sì di sopra degli aurei tempi di Leone. Malissimo sonante sarà senza dubbio una tal proposizione agli orecchj de’ più tra i letterati. Fanno essi più caso di un sonetto nello stile del Petrarca, […] che non fan caso della scoperta del peso dell’aria e del teorema dell’accelerazione dei gravi, che nel passato secolo fecero in gran parte mutar faccia alla filosofia.19»
In questo frammento Algarotti accomuna i nomi di scienziati che nella cultura barocca, ossessionata, per lui, dal gusto del vano e dell’ozioso, sulle orme di Galileo Galilei avevano avuto il merito di promuovere una ricerca dalla forte impronta sperimentale. Da Marcello Malpighi e il suo allievo Domenico Guglielmini, sino all’istriano Santorio Santorio, padre della fisiologia moderna, all’astronomo napoletano Giovanni Alfonso Borelli e al matematico Evangelista Torricelli, essi rappresentano i diversi indirizzi della stessa riforma del pensiero che associava strettamente indagine scientifica e diffusione delle nuove scoperte, progresso tecnologico e perseguimento della «pubblica felicità»20.
4. Il microscopio del Talete moderno
Nelle pagine scientifiche di Algarotti non sono rari nemmeno i riferimenti al mondo accademico bolognese, presidio del sapere scolastico, dove «mercé di un gergo filosofico, tenevano altre volte riputazione i filosofi dinanzi alla moltitudine; ma già non potevano così agevolmente darla ad intendere ai sani ingegni.21» Cosicché non si resta neppure sorpresi quando s’incontra quest’asserto:
«La prima cosa in ogni scienza è fare una giusta ragione delle proprie forze, e non presumer troppo di sé medesimo. Quanti non vi sono, che col dire di gran paroloni, andar tronfj, e sputar tondo, vorrebbono far credere di aver trovato il fondo dello scibile! Non dubitano mai di non sapere, vi spiegano ogni cosa, decidono di tutto: sono ciechi, che si danno aria di passeggiare per un giardino colla medesima franchezza di quelli che ci veggono; ma alla prima vasca che si fa loro tra’piedi, vi cadon dentro, e fanno levar le risa de’savj.22»
Algarotti allude all’aneddoto filosofico tramandato da Platone, secondo il quale l’astronomo Talete, intento a scrutare le stelle senza far caso a dove metteva i piedi, cadde in un pozzo, suscitando l’ilarità di una servetta tracia23. Il bersaglio di questo attacco sono quanti si oppongono ai fini di una scienza utile, operante su lunghi cicli. Il tratto che li caratterizza negativamente è la mancanza di curiosità e quello che Antonio Conti definiva il «fasto pedantesco». La loro «boria» intellettuale per Algarotti è pericolosa soprattutto quando si tratta della medicina, «arte congetturale e micidiale» come la guerra24.
Se Emanuele Tesauro a fine Seicento nel frontespizio allegorico del Cannocchiale aristotelico aveva dotato lo Stagirita di un telescopio per potenziarne la vista mentale, Algarotti, che condivide la coincidenza tra visione e sapere, promuove il microscopio a simbolo metonimico del nuovo abito scientifico. Invita dunque il suo “Talete moderno” a procurarsene uno per distinguere «quella infinità di animaletti, ne’ quali, come si osserva col microscopio, brulica quel pattume, che si appasta a’denti e alle gengive» e conquistare il mondo invisibile, penetrandone «la scorza» esteriore25. Nei nuovi orizzonti dischiusi da uno strumento che non per nulla era già in uso fra i Lincei, l’analisi degli «animacula spermatica» scoperti da Antoni van Leeuwenhoek gli fa pensare alle Osservazioni intorno agli animali viventi che si trovano negli animali viventi, che per Francesco Redi rappresentarono un punto di arrivo nella smentita delle verità della medicina umorale, incapace di riconoscere le aggressioni di agenti biologici esterni a un organismo26. Basterà allegare questo proclama: «il fine della medicina è il guarire le infermità del corpo umano, e non il farvi su di belle dicerie. Un grandissimo abuso è ancora il voler oltrepassare i confini della scienza che un tratta, e il voler farle vestire i modi e il genio, dirò così, di un’altra»27.
La lingua scientifica chiara e scandita, dove precisione e cordialità si uniscono per raggiungere un pubblico più ampio, funge da antidoto alla dispersività della competizione fra aree di esperienza medica, ecclesiastica, popolare. Il bersaglio polemico di Algarotti è l’erudizione enciclopedica e inclusiva, inquinata da chi usa consapevolmente l’«ingegno» per confezionare «belle dicerie» che facciano colpo sul volgo, confondendo la fedeltà al reale e al destino degli uomini28.
5. L’arte antica «delle sperienze e dell’osservare»
Chi sfogli il carteggio e le pagine dello zibaldone comprende quanto variegato fosse il quadro epistemico bolognese e italiano. I «brodi di vipera», i «decotti», la «polenta» assunta a digiuno, seguendo le prescrizioni mediche, al posto dell’aristocratico «cioccolatte», smentiscono facili simmetrie tra nuova scienza e modernità da una parte e tra aristotelismo e posizioni retrive dall’altra, lasciando scorgere un universo brulicante di medici, chirurghi, speziali, ciarlatani, droghieri, religiosi e di saperi in stretta relazione tra loro29. Del resto, ricorda Piero Camporesi, il mito terapeutico delle carni viperine, cui erano saldamente devoti, oltre a Saverio Bettinelli, anche Francesco Redi, padre della parassitologia moderna, e Giovan Battista Morgagni, fondatore dell’anatomia patologica, sarebbe sopravvissuto fino ai primi decenni dell’Ottocento. La persistenza di queste radicate credenze è un altro aspetto della lentezza del cambiamento dello scenario galenico nel quale la farmacologia si confondeva con la dietologia, con un passaggio continuo dal paiolo all’alambicco30.
A Bologna dove, aggiunge Ezio Raimondi, «era assai forte un ethos accademico nel quale tradizione e progresso tendevano di solito a unirsi, se non proprio ad armonizzare31», Algarotti riprova fermamente, come aveva fatto il suo amico Pierre-Louis de Maupertuis, la fiducia aristocratica nella logica astratta dei sistemi32. Lo scrittore veneziano si dichiara convinto di poter spiegare la molteplicità del reale interpretando i fenomeni secondo leggi di probabilità da non considerare mai come assolute. Lo scienziato, farà dire al marchese nei Dialoghi sopra l’ottica neutoniana, non deve appagarsi dei risultati cui perviene, né può accrescere le proprie conoscenze «in altro modo che ragionando sobriamente, e osservando, quasi direi, con intemperanza»; tentando cioè il difficile compromesso tra le esigenze del principio di coerenza e una flessibilità d’indagine talora spregiudicata33.
Del resto, «chi può sapere, se parecchie cose, le quali si credono trovate di questi ultimi tempi, non fossero note anche agli antichi; e se molte novità non sieno altro che dimenticanza?.34» Nella querelle tra gli antichi e i «sagaci» moderni Algarotti non si schiera mai risolutamente per i secondi che, anzi, sono stati spesso preceduti dagli avi, maestri «nell’arte delle sperienze e dell’osservare». L’elenco è nutrito,
«ma per tutti dovrà bastare l’esempio d’Ippocrate, il quale raccolse quanto la esperienza avea trovato nel fatto della medicina innanzi a lui, lo depurò lo rettificò, vi aggiunse le proprie sue osservazioni, e meritò che di lui si dicesse «tam fallere quam falli nequit». Gli aforismi in effetto e i prognostici di quell’antico Greco sono tuttavia gli oracoli dell’arte medica: e come i più profondi filosofi di oggigiorno non sono altro che i commentatori e gl’interpreti del Neutono, così adoperano verso il grande Ippocrate i Boerahve, i Sydenham e i più valorosi medici del tempo presente.35»
Nelle sue meditazioni acquista uno statuto scientifico anche l’aneddoto letto nella Britannia di William Camden. L’antiquario racconta di avere udito che ancora ai suoi tempi gli abitanti inglesi avevano l’abitudine di raccogliere e usare le erbe vulnerarie seminate secoli prima dai Romani ai piedi del “vallum” eretto a difesa dell’Inghilterra contro la Scozia: «in quel luogo medesimo, dove i soldati andavano ad affrontare il male, volevano quei savj antichi che vi trovassero anche il rimedio», chiosa Algarotti36.
6. «Il Giasone britannico» e «il male endemio de’ navigatori»
E perché non si creda che il padre della moderna corografia sia l’unica occasione d’incontro, si può accostare subito un altro referto, legato a George Anson, che nel 1740 aveva ricevuto dalla marina britannica il comando di sei navi per attaccare le colonie spagnole durante la guerra Sette Anni. I galeoni nemici non avevano però costituito l’ostacolo più temibile, perché:
«l’ammiraglio Anson, dopo superato con grandissimi stenti il Capo Horn, approdò all’Isola di Gian-Fernandez nel mare del sud, per ristorare la ciurma della sua flottiglia, e sanarla da un fierissimo scorbuto, di cui per una così lunga navigazione era misero pasto. L’uso de’vegetabili è il più efficace rimedio, come ognun sa, contro a quel terribile morbo. Di questi ne fece nell’isola una gran seminazione; non già per li suoi marinari, che fatto aveano con quei vegetabili, che avean trovati; ma a pro di coloro che approdar vi potessero nel tempo avvenire, i quali vi troveranno la più compita farmacia contro al mal endemio, dirò così, de’navigatori.37»
Dopo aver ripreso il viaggio, come il mitico Giasone, Anson abbordò e conquistò la Nuestra Señora de Cabadonga carica d’argento, fece vela per l’Inghilterra e nel giugno del 1744 doppiò il Capo di Buona Speranza, in Sudafrica. Algarotti, nel ‘discorso militare’ dedicatogli, loda l’avvedutezza con la quale il commodoro aveva mutato una sfortunata missione nell’opportunità di rafforzare il primato navale britannico e di correggere le mappe delle rotte oceaniche38.
La comparazione analitica dei sintomi raccolti dai malati di scorbuto durante il viaggio permise anche di studiare con un approccio sperimentale un’epidemia già nota a Ippocrate, ma che per la prima volta falcidiava l’equipaggio delle navi, la cui alimentazione difettava di cibi freschi. I risultati del primo “trial” clinico della storia, già condotto nel 1747 dal militare scozzese James Lind, non avevano però avuto nella letteratura medica la diffusione garantita dalla celebrità del Voyage Around the World in the Years 1740-1744 di Anson, uscito un anno dopo39. Algarotti, riportando l’ipotesi corrente nel dibattito sulla trasmissione dell’epidemia per via aerea, considerava, da parte sua, che
«egli è assai strano a pensare, come in mare, che è il proprio regno dei venti, l’uomo patisca principalmente per difetto di circolazione di aria; e come senza il ventilatore di Hales, e i tubi di Sutton, che la vanno tuttavia rinnovando nel corpo della nave, la ciurma cade in un lungo viaggio quasi tutta ammalata. Nello stesso modo avviene, che per difetto d’industria e di buoni ordini il popolo muor di fame in tal paese fertilissimo; e in tale altro è oppresso da povertà, non ostante che si trovi come immerso nell’argento e nell’oro delle Indie.40»
La sua tensione intellettuale d’intervenire attivamente nel mondo degli uomini e delle cose lo induceva a curvare in senso pratico e utilitaristico le sue letture aggiornatissime, avversando con vigore la malattia del «dottorismo», che dilagava nelle aule universitarie. Ne sono eloquenti conferme i richiami alle nuove macchine agricole ideate da Jethro Tull o, in questo frammento, ai ventilatori meccanici ideati da Samuel Sutton e da Stephen Hales, fondatore della fisiologia vegetale, utilizzati in Inghilterra, ma non in Italia, per ridurre le sostanze inquinanti dell’aria negli ambienti chiusi delle sentine, delle carceri e degli ospedali41.
7. «Genio bolognese» e comunicazione scientifica
Interrogando il suo epistolario, si ha la riprova che Algarotti condivideva con altri “novatores” il dispiacere per gli effetti nocivi di quel «genio bolognese di non concludere mai nulla» diffuso, per Eustachio Zanotti, nella comunità intellettuale42. In una nazione dove la ricerca scientifica non godeva del credito riconosciutole in Francia o in Inghilterra, questo senso d’insoddisfazione faceva sembrare «tiepido» all’astronomo petroniano il tono usato dai «giornalisti di Lipsia» per comunicare alla “res publica” europea i risultati delle ricerche sull’ottica newtoniana da lui coordinate. Francesco Maria Zanotti, dal 1723 Segretario perpetuo dell’Istituto delle Scienze, aggiungeva che «ai fosfori trovati dal nostro Beccari anche qui in Italia altro non manca per essere pregiatissimi, se non che l’essere stati trovati in Londra, o in Parigi»43. L’abate Giammaria Ortes, da Venezia, gli faceva eco nel descrivere ad Algarotti una tradizione bolognese in cui sembrava venuta meno l’energia per crescere e consolidarsi:
«Il libro della Agnesi è un perfetto corso di Algebra presa in tutta la sua estensione, chiaro e ben ordinato. Chi l’ha scritto (e sarà stata l’Agnesi?) si fa conoscere possessore della materia, ma non amplificatore di essa, non essendovi né metodi nuovi, né alcuna nuova scoperta. In Bologna, appunto come voi dite, fanno de’ Lunarii, e dopo il libro del Verati sulla Elettricità medica, ora affatto screditata, non uscirono che le Efemeridi di dieci anni, principiando da questo, calcolate dal dott. Eustachio Zanotti, alle quali è preposta una ristampa della Introduzione alle Efemeridi, e vi sono le Tavole opportune del dottore Manfredi, con una Prefazione del detto Zanotti.44»
Alla “deminutio” di scienziate come Maria Gaetana Agnesi e Laura Bassi, l’abate, affetto da una forma acuta di misoginia, contrapponeva la consacrazione della filosofia sperimentale a Pisa, dove «i medici non parlano d’altro che di acidi e di alcali, perché appunto è alla moda anche la chimica.45»
Per comprendere il senso di questo bilancio conviene arretrare al 1737, anno in cui era stata istituita la prima cattedra di chimica italiana. Nel suo progetto di costruire un istituto modellato sulla Royal Society e l’Académie Royale des Sciences colbertiana, il Marsili aveva infatti notato che lo studio della «natura dei fluidi», di pertinenza della chimica, a Bologna era stato trascurato e che tale mancanza aveva allontanato la qualità della ricerca medica locale dai risultati raggiunti da Marcello Malpighi, tanto apprezzati nelle nazioni straniere. Il Beccari, cui era stata affidata, oltre a promuovere un ricco programma di attività sperimentali, si era quindi orientato verso l’analisi delle proprietà chimico-fisiche dei fosfori e dei corpi elettrici46.
In questa cultura composita e sincretistica l’elettricità era diventata un tema di moda. In molte città italiane ci si era cominciati a interessare del suo impiego in campo medico e molta curiosità aveva destato nel 1746 l’uscita a Venezia di un’operetta anonima intitolata Dell’elettricismo, ispirata al genere divulgativo promosso dal Neutonianismo per le dame di Algarotti. La novella galante introduttiva lasciava il posto al primo trattato in italiano di elettrologia, che includeva l’analisi di fenomeni elettrici applicati alla medicina e la descrizione di esperienze che si potevano eseguire con l’ausilio di pochi strumenti47.
Oltre che nei giornali e nei fogli volanti stampati, se ne ragionava nelle accademie, nei salotti e persino nelle piazze, dove medici arrivati in Italia al seguito dell’esercito della guerra di Successione spagnola, traendo partito dall’ingenuità psicologica di un certo pubblico, per realizzare guadagno offrivano lo spettacolo di diversi esperimenti. Sicché Algarotti stesso era costretto a concludere: «cotesta elettricità è pur entrata da qualche tempo anche ne’discorsi delle brigate gentili, e pare che elettrizzi tutti gl’ingegni.48»
8. «Tutti i nostri elettrizzatori di Europa debbono scappellarsi a cotesto Americano»
L’autore del trattato era comprensibilmente contento di nascondersi nell’ombra perché, come altri scienziati della prima ora, esitava ad affidare il proprio prestigio o la fama futura a ricerche dall’avvenire incerto. Anche Benjamin Franklin, l’«Americano» di cui parla Algarotti all’abate Giuseppe Antonio Taruffi, con il suo ‘bricolage’ casalingo di punte metalliche, fili di rame e campanellini, si era sentito dare del «ciurmatore» dai sodali della Royal Society. E anche quando l’elettrologia era entrata nel corpus della scienza sperimentale, Lazzaro Spallanzani, dal quale ci si sarebbe aspettati un giudizio conclusivo sui fenomeni discussi, aveva definito «giocolini» gli apparecchi elettrici di Alessandro Volta49.
La vicenda, meno nota ma non meno esemplare, di Gianfrancesco Pivati, sovrintendente alle stampe e revisore per la repubblica di Venezia, può indicarcene le ragioni più profonde. Il padovano aveva compreso che lo studio dell’elettricità avrebbe potuto aiutare terapie che promettevano di curare, fra gli altri disturbi, la costipazione, la sciatica, i reumatismi e i disturbi nervosi, e avendo iniziato una sistematica attività sperimentale con il Morgagni, si era occupato personalmente di allestire la “voce” elettricità nel Nuovo dizionario scientifico e curioso sacro-profano50. Maturata una discreta conoscenza del repertorio delle varie dimostrazioni eseguite negli anni precedenti in Europa, aveva stretto rapporti con istituzioni scientifiche e accademiche fuori dalla Serenissima e si era subito rivolto allo Zanotti, pregandolo di tenerlo informato sulle iniziative dell’Istituto bolognese, di cui era diventato socio51.
Il Pivati usava “tubi medicati” o “intonacature”, cilindri di vetro in cui aveva introdotto dei farmaci, che poi sigillava. Grazie allo strofinio, i tubi elettrizzati rilasciavano, insieme al fluido elettrico, i medicamenti che, penetrati nel corpo del paziente attraverso i pori della pelle e la respirazione, raggiungevano la parte malata, dove esercitavano la loro azione curativa. Su questa strada, Giambattista Bianchi, docente di anatomia all’Università di Torino, aveva inventato la terapia della “purga elettrica”, che consisteva nell’elettrizzare i pazienti mentre tenevano in mano dei lassativi.
Il dibattito sugli esperimenti innovativi realizzati con tubi elettrici appassionò subito anche la comunità scientifica bolognese52. Algarotti si era schierato con Leopoldo Marc’Antonio Caldani, seguace delle dottrine del medico svizzero Albrecht von Haller, e al fianco di Laura Bassi e Giuseppe Veratti, lettore di anatomia dal 1746, che prolungavano le ricerche prodotte all’università sul “fluido elettrico” impiegato come stimolante dell’attività corporea nella loro casa privata, dove avevano collocato una macchina per eseguire terapie sui pazienti.
Per lo Zanotti quelle di Pivati erano «meravigliose esperienze», e già si congratulava con il Morgagni del «grande accrescimento
«persona discreta, non ardito, non petulante, e sufficientemente istrutto degli autori che hanno scritto di quest’esperienze; ma mi pare troppo innamorato di stabilire questo suo sistema della medicina elettrica, e desiderosissimo di trovar gli effetti conformi alle sue idee; il che vedete quanto sia pregiudiciale ad un filosofo, e quanto con ciò sia facile a travedere, e ad esagerare nelle deduzioni.56»
9. «Il mondo si stanca di parlar lungamente della medesima cosa»
È proprio lo Zanotti a condurci nelle sale dell’Istituto bolognese dove, in una giornata di fine dicembre del 1747, si svolse la sessione dedicata alle “terapie elettriche”. I risultati furono subito sconfessati dal lettore di medicina teorica e di anatomia. Così scriveva al Morgagni:
«Queste cose del signor Bonzi dette nell’Accademia, e già molto prima sparse per la città, hanno levato tal rumore, che i più, o sia per lo peso di tali osservazioni, o sia per una naturale inclinazione a disprezzare i nuovi inventi, o sia per l’uno, e per l’altro, non temono spacciar per ridicole le esperienze del signor Pivati, e da non aversi in conto niuno. Quelli, che son più lenti nel giudicare, e che anche per questo sono, secondo me, i più savii, giudicano altrimenti; né per tutte le prove fin qui fatte depongono la speranza, che credono aver giustamente fin da principio conceputa nella elettricità medica. Di questo sentimento è il nostro signor Beccari. 57»
In questa vicenda, dove i progressi della ricerca scientifica furono legati all’ “immagine” del suo pioniere e a mezzi singolari d’informazione, sappiamo che giocò un ruolo non secondario l’abate Nollet, anche lui tra i sodali dell’Istituto felsineo, che da Parigi aveva criticato gli esperimenti italiani, raccogliendo i pareri contrastanti pervenutigli da numerose capitali europee verso le guarigioni di Pivati. Attento a evitare il sospetto di nutrire pregiudizi contro la nazione italiana, ma convinto di poter sfruttare per il prestigio francese le divisioni accademiche e l’incertezza manifestata dal papa Benedetto XIV di fronte a una materia così controversa, con abilissimo intuito diplomatico venne in Italia per assistere a prove sulle nuove terapie.
Dopo una sosta a Venezia, per salutare Algarotti, si diresse a Bologna, dove partecipò a una serie di esperimenti realizzati dai coniugi Veratti, di cui affermò di non ritenersi soddisfatto. Ai colleghi italiani suggerì maggiore cautela riguardo alle procedure di lavoro, ma usò toni sprezzanti nelle relazioni ufficiali inviate ai corrispondenti europei. Gli abitanti del “bel paese” vi erano dipinti come creduloni, incapaci di valutare con discernimento il cumulo di abili menzogne stampate, vittime com’erano dell’«amore per il meraviglioso». Questa crociata gli guadagnò la fama di alfiere della verità contro la scarsa competenza del Pivati e dei suoi sostenitori. E mentre Morgagni si affrettava a precisare di «non aver ragione di non cedere così tosto all’autorità degli uomini anche famosi»58, l’Ortes finiva il suo ragionamento con Algarotti considerando che il padovano, in fin dei conti, era «leggista di professione», non un medico, «poco filosofo» e «assistito da persone meno intendenti di lui.59»
Zanotti, deciso a evitare controversie pericolose per la reputazione dell’Istituto, non esitò a trasmettere al Nollet una lettera tranquillizzante sul mutato atteggiamento di Bologna nei riguardi dei “tubi medicati”: «qui non si parla quasi più di elettricità, o sia medica, o sia di qualsivoglia genere. Il mondo si stanca di parlar lungamente della medesima cosa.60» Più franco suona il bilancio del fisico Giovanni Vivenzio che, avendo partecipato a quei dibattiti dalla specola di Napoli, osservava che gli italiani erano facili a entusiasmarsi per le nuove scoperte, ma «altrettanto facili parimenti a tralasciarne, per mancanza principalmente di mecenati, le ulteriori investigazioni». Il medico nolano indicava alla monarchia borbonica il modello asburgico di governo come esempio, insistendo sull’importanza degli investimenti per l’istruzione pubblica e lo sviluppo economico61.
10. I rischi delle novità e i «discepoli dell’Eco»
Algarotti formulava una diagnosi simile molti anni prima e nella sua inchiesta critica sulle cause di questo insuccesso, dalle diverse testimonianze raccolte e dalla propria esperienza di osservatore curioso ricavava una smentita dei proclami dell’«arconte» francese e dei «discepoli dell’Eco», cioè di quanti sono soliti ripetere «le stesse obiezioni alle quali si è già data una risposta definitiva.62». E considerava:
«Certo si è almeno che nulla tentando, nulla si ottiene; e per un sinistro accidente avvenuto in un soggetto o due, non era poi forse da totalmente rinunziare a quello, che poteva esser di salute a migliaja di persone. Questi sì sono i casi, che i Principi possono essere di gran giovamento alle scienze. 63»
La stessa convinzione riaffiora in un’altra pagina dalla sapiente struttura stilistica e di cogente attualità:
«Dall’oriente ci è venuto il vajuolo; e dall’oriente ce ne è anche venuto il rimedio. Questo rimedio è la propagazione artifiziale della malattia, l’innesto del vajuolo medesimo. Tutte le sperienze e tutti i computi mettono il rimedio nella classe de’ migliori specifici. Lo mette in opera la Danimarca, la Francia, e sopra tutto la Inghilterra. La Italia vi è ritrosa, e non lo abbraccerà forse mai. Perché in tutto un popolo prenda piede una operazione che porta seco un qualche risico, ci vuole o l’autorità del principe, o un certo valore nel popolo stesso. L’Italia è parte senza, e parte divisa; e la educazione, che tra noi si dà comunemente a’ fanciulli, tende a rendergli uomini vili e da poco.64»
L’analisi riafferma la presenza necessaria nella società dell’uomo di cultura. A Bologna la prima testimonianza sulla pratica dell’immunizzazione per inoculazione era stata affidata a una paginetta del De Variolo da Cesare Marescotti, lettore di logica, anatomia e medicina pratica allo Studio. Era il 1723 e il docente, che non aveva esperienza diretta, ricordava le origini dalla Turchia e gli esperimenti eseguiti a Londra dal medico Richard Mead su sette condannati a morte, con la tecnica cinese dell’innesto attraverso le narici. Il procedimento sortì il duplice effetto di convincere re Giorgio II a sottoporre le figlie a questa pratica e di sollevare un dibattito confuso sui timori che il vaiolo inoculato potesse risultare mortale o di modesta efficacia. A tanto clamore seguirono lunghi anni di silenzio e si dovette aspettare il resoconto scritto da Vincenzo Menghini nel 1756. In quel frangente, dopo parziali insuccessi, le esperienze avevano cominciato a dare esiti promettenti. Nonostante lo Studio avesse attivato una lettura “De variolarum inoculazione”, le polemiche alimentate da docenti di posizione diversa sortirono l’effetto di rallentare la diffusione delle sperimentazioni, ma non della pestilenza65.
11. Il «lungo noviziato delle verità»
La querelle sull’innesto del vaiolo percorse tutta l’Europa dalla Francia alla Russia, anche perché sotto il profilo scientifico si presentava come un episodio di storia dell’igiene preventiva di una malattia capace d’incidere sulla curva demografica d’intere generazioni. Essa metteva in campo questioni delicatissime: bisognava per prima cosa conciliare il tema dell’immunizzazione con la proposta di un virus esterno, acquisito per contagio, contro tutte le ipotesi della venerata medicina scolastica. In seguito, verificare tempi e modi dell’innesto, vincendo il timore di una propagazione incontrollabile del contagio, che non avrebbe dovuto escludere i bambini. Infine, ci si sarebbe dovuti scontrare con ostacoli di tipo morale e religioso, procurando un piccolo male in vista di un benessere futuro, o ledere normative mediche universali, sostituendo con la quarantena una terapia ospedaliera in grado di restituire al malato una più veloce guarigione.
La mobilitazione ideologica fu immediata e sfruttò anche le risorse retoriche offerte da versi, orazioni, prediche66. James Jurin, segretario della Royal Society, nel 1724 aveva calcolato un tasso di mortalità per vaiolo pari alla proporzione del 72 per mille, capace di estendersi, sulla base di altri computi mitteleuropei citati dall’Encyclopédie, a percentuali assai più temibili. Algarotti, discutendo questi dati, osservava:
«Per il comune degli uomini le verità le meglio dimostrate hanno bisogno di fare un lungo noviziato, prima che sieno da loro ricevute e poste del consorzio delle cose che meritano venerazione e fede. Non ci sono che le anime grandi, a cui la verità si appiglia subito che lor si presenta. Appena ebbe il Jurin pubblicati i suoi giornali e i suoi calcoli sopra l’innesto del vajuolo, operazione che dalla volgare schiera de’ medici è tuttavia tanto combattuta, che il Boerahave la commendò ne’ suoi aforismi, e le diede cittadinanza nella medicina europea.67»
Lo scrittore veneziano,“neutoniano” in fisica, “empirista” in fisiologia, riesce a fissare nel giro di qualche frase la storia di una pestilenza che si è soliti considerare sconfitta solo ai primi dell’Ottocento dall’inglese Edward Jenner. Convinto che la letteratura debba mettersi al servizio della scienza, non si sarebbe potuto certo aspettare di trovare nella versione francese del Neutonianismo per le dame una glossa polemica del traduttore, che considerava «beaucoup d’agrément mais sans preuve» l’invito rivolto dal marchese all’allieva di sottoporsi alla vaiolizzazione, come fanno le signore inglesi, per preservare il loro fascino68.
Algarotti pensava alle Lettres anglaises, apparse nel 1734, dove Voltaire aveva attribuito l’origine della pratica ai Circassi, povere tribù del Caucaso, le cui fanciulle molto belle erano la principale fonte di guadagno per i loro padri, che le vendevano per fornire gli harem del sultano e «di quanti erano abbastanza ricchi da acquistare e mantenere questa preziosa mercanzia». Dunque, concludeva, alle donne «per conservare la vita e la bellezza dei loro bambini non restava che attaccar loro il vaiuolo per tempo.69»
Prima ad acclamare la variolizzazione, la Francia era stata una tra le ultime nazioni ad adottarla. In Inghilterra, grazie alle statistiche elaborate da Jurin, già nel 1746 sorgeva un ospedale finanziato da privati cittadini per bambini poveri colpiti dal vaiolo. Lady Wortley Montagu, moglie dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli e corrispondente di Algarotti, dopo essere stata sfigurata dal vaiolo, era diventata una paladina della nuova profilassi nella Toscana “illuminata” dalla dinastia lorenese, dove il dibattito medico-sanitario era stato avviato con maggiore risoluzione e aveva propiziato le prime prassi inoculatrici per favorire le attività commerciali della comunità britannica residente a Livorno70.
In Italia, senza «l’autorità del principe, o un certo valore nel popolo», sentenzia Algarotti, la sollecitudine ad aggiornarsi era però incapace di affermare il primato delle ragioni sociali sulle secche delle “quaestiones” religiose71. Si pensi alle Réflexions sur les préjugés qui s’opposent au progrès de l’inoculation di Angelo Gatti o alle Lettere odeporiche di Francesco Griselini, che si era spinto nel Banato di Temeswar per osservare le tecniche d’innesto praticate dai Turchi. Antonio Vallisneri dimostrava una vocazione sperimentale più cauta di quella propugnata da Carlo Francesco Cogrossi che, accogliendo le pratiche inoculatorie assai probanti dei medici Emanuel Timoni e Giacomo Pilarino, con la Nuova idea del male contagioso de’ buoi, aveva raggiunto il mondo dell’Accademia e dell’Università dal 171472. Molti colleghi, prodighi d’incoraggiamenti con il Cogrossi, avevano però condiviso l’invito espresso in privato dall’autorevole maestro di Padova a guardarsi bene dal varare esperienze d’immunizzazione che avrebbero potuto causare la morte del paziente: «lasciamo fare l’operazione a’greci, a’turchi, agl’inglesi e a chi si sente volontà di azzardare la vita.73»
Ancora una volta, insomma, era mancata quella «voglia viva di fare» che Algarotti aveva spesso auspicato74.
Note
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