Bibliomanie

Vertigini. Lo sguardo obliquo di Sebald
di , numero 53, giugno 2022, Saggi e Studi, DOI

Vertigini. Lo sguardo obliquo di Sebald
Come citare questo articolo:
Michele Paolo, Vertigini. Lo sguardo obliquo di Sebald, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 53, no. 14, giugno 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.9948

Durante gli anni Ottanta il compositore William Basinski incide su nastro magnetico alcune tracce audio, composte da found sounds tratti da programmi radiofonici e da brevi frammenti strumentali da lui stesso eseguiti col sassofono o il clarinetto. Dimenticate per oltre un ventennio nel silenzio di uno scatolone etichettato The Land That Time Forgot, poche settimane prima dell’attentato al World Trade Center Basinski decide di convertire il suo archivio analogico in formato digitale.

Così ho messo questo loop sul Revox e l’ho acceso, ed era semplicemente così austero, così bello e maestoso. […] Sono andato ad accendere il mio sintetizzatore Voyager, l’ho modificato e mi è venuto questo controcanto dall’arpeggiato casuale, con un suono simile a un corno francese, ho acceso il registratore, impostato i livelli e iniziato a registrare. Sono andato a preparare una tazza di caffè in cucina, sono tornato ad ascoltare, e ho iniziato a notare che qualcosa stava cambiando. Tutt’a un tratto, ho guardato e si vedeva la polvere nel percorso del nastro. […] Mi sono seduto lì, ascoltando questa meravigliosa melodia, decaduta nel corso di un’ora in maniera così affascinante1.

Basinski si trova a essere testimone in prima persona di una musica che sta cadendo a pezzi. In questi loop si realizza un processo che è assieme additivo e sottrattivo: da un lato la polvere che si è depositata nel tempo scorre tra i binari producendo fruscii e crepitii che assieme all’effetto di riverbero alterano sensibilmente la linea melodica principale; dall’altro il logoramento dei nastri crea vuoti acustici irreparabili e sempre più estesi, così che «solo gli elementi più forti e timbricamente più chiari delle voci vengono trattenuti, risultando in una transizione da linee in legato a ‘fitte’ più percussive di materia tonale, e da ultimo scoppi di rumore verso la fine del brano2».
La sera del 12 settembre, salito sul tetto della propria abitazione a Brooklyn, Basinski inizia a filmare la scena della distruzione da una prospettiva sopraelevata e su un piano orizzontale, replicando la lunga inquadratura fissa che Andy Warhol effettuò di fronte all’Empire State Building nel 1964 (Empire)3. Unite in un singolo flusso audiovisivo, la musica e le immagini sulle quali era intervenuto soltanto in maniera marginale sono potenziate l’una dalle altre e divengono un’opera di struggente poesia. Quest’opera non scaturisce direttamente dai suoni e dalle immagini dell’11 settembre, ma è proprio in seguito al crollo delle Twin Towers che ha acquisito il suo significato più profondo, gettando una nuova luce su quanto accaduto.
Per introdurre un autore la cui prosa si compone di accostamenti e corrispondenze, il ricorso all’analogia è un’opzione ovvia. In effetti, le tante divagazioni che innervano le opere di Sebald evocano una air de famille – per citare Wittgenstein, filosofo a lui caro –, quell’affinità che secondo Benjamin ordina in costellazioni gli oggetti tra loro congeniali: «la percezione della somiglianza è legata in ogni caso a un baleno. Essa guizza via, forse si può riguadagnare, ma non si può racchiudere rigidamente […]. Essa si offre all’occhio altrettanto fugacemente quanto una costellazione di stelle4».
Le analogie di Sebald appaiono come felici incroci casuali, l’esito di una continua ricerca della serendipità e del pensiero asistematico. Sull’efficacia degli eventi accidentali si è espresso in più occasioni Carlo Ginzburg5; in Sebald la divagazione si fa cifra stilistica. La storia di una composizione musicale singolare come i Disintegration Loops illustra bene le sue prose letterarie, la cui efficacia narrativa sta proprio nella scelta di un punto di vista obliquo, distaccato, per raccontare le tragedie del Novecento e allo stesso tempo insinuare l’eventualità che quel che è stato non abbia mai smesso di accadere.
In Austerlitz, il narratore messo in scena da Sebald, di cui non verremo mai a sapere il nome, possiede quella capacità che Benjamin, in Berliner Kindheit, ha descritto in questo modo: «Non sapersi orientare in una città non vuol dir molto, ma smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare». È aggirandosi nei pressi della stazione di Anversa che incontra la prima volta Austerlitz. Dopo questo primo incontro ne verranno altri, disseminati sul suolo europeo: in un quartiere operaio alla periferia di Liegi oppure davanti al palazzo di giustizia di Bruxelles. Durante ogni incontro, anche a distanza di mesi, e in nazioni e città diverse dal precedente, Austerlitz, evitando qualsiasi formalità, comincia subito a raccontare come se il colloquio non si fosse mai interrotto.
Incontrandosi casualmente nei luoghi più anonimi delle città europee, i due personaggi del romanzo mettono in scena una sorta di gigantesca flânerie tra edifici che appaiono come rovine delle speranze progressive del XIX secolo – stazioni monumentali arrugginite, casermoni periferici figli della visione di una città operaia ideale, palazzi di giustizia kafkianamente labirintici. Benjamin, in uno degli aforismi contenuti nel Passagen-Werk, ha scritto che la strada conduce il flâneur in un tempo scomparso. Ecco, girovagare e sprofondare gradualmente in un tempo scomparso è esattamente la predilezione della penna di Sebald – non soltanto in Austerlitz: in Die Ringe des Saturn «le giravolte tortuose del pensiero di Sebald compiono una sorta di incantesimo per il lettore che decida di sottomettersi: allora la sensibilità dell’autore lo trasporterà in storie di declino, entropia e distruzione sempre più contorte e tormentate6».
Il vagabondare della prosa favorisce il moltiplicarsi delle libere associazioni, e la continua scoperta di nuovi dettagli stravaganti e inattesi delinea una forma di ricerca non sistematica. Addirittura, ammette Sebald, «Neppure la mia tesi di dottorato è stata fatta sistematicamente. È andata costruendosi a caso, in modo del tutto fortuito7». I critici si sono interrogati sulla definizione da dare alle sue opere, oggetti ibridi che richiamano alla mente il memoir romanzato, il diario di viaggio, il saggio, l’inventario di curiosità naturali o create dall’uomo: Sebald le chiamava ‘prose letterarie’. L’allinearsi di coincidenze più o meno improbabili costituisce sicuramente l’aspetto prominente dei suoi libri: «bisogna prendere materiali eterogenei per costringere il cervello a creare cose che non ha mai fatto prima8». La serendipità è un tema che in Sebald travalica i confini della letteratura: «Penso a tutti i sistemi filosofici, alle credenze, alle nostre strutture, anche quelle tecnologiche, e tutte sono costruite allo stesso modo, nel tentativo di dare un senso, un significato alla nostra vita, che, come sappiamo, non ne ha nessuno9». In coda al suo simposio su Sebald, Arthur Lubow ricorda un aneddoto che svela tutta la sua serena e completa disillusione:

“Mettono un topo in un cilindro pieno d’acqua, e il topo nuota per qualche minuto, poi, quando capisce che non c’è via d’uscita, muore d’infarto” mi dice. Un secondo topo viene posto in un cilindro simile, ma con una scala che consente al topo di fuggire. “Infine, rimetti questo secondo topo nel cilindro senza scala, ed esso continuerà a nuotare fino a morire per sfinimento” mi spiega. “Ti viene dato qualcosa – una vacanza a Tenerife, o l’incontro con una bella persona – e quindi vai avanti, anche se non c’è alcuna speranza. E questo ti dice tutto ciò che c’è da sapere”. Sebald ride. In modo sconsolato, allegro, conviviale, amaro, rassegnato, teatrale, inconsolabile, cupo, triste? Nessuno può dirlo10.

All’inizio di Austerlitz il narratore si trova in un Nocturama, una struttura per animali che sono svegli soltanto di notte. Poco dopo, aggirandosi nella stazione centrale di Anversa, si rende conto di quanto questa sembri una copia perfetta dello zoo. Poi la stazione muta ancora, per assumere i contorni della fortezza di Breendonk: nel passaggio dalla stazione alla fortezza, e dalla fortezza alla prigione fino al manicomio, si allunga l’ombra di un grande sottinteso: il campo di concentramento. Ad aumentare questo senso di inquietudine è l’inserimento di immagini in bianco e nero lungo la narrazione, una consuetudine nelle opere di Sebald. Le immagini infatti svolgono due funzioni: in primo luogo forniscono un maggior senso di veridicità al testo, legittimando in qualche modo la storia che si racconta: «anche le fotografie più implausibili – riporta Sebald parlando di Die Ausgewanderten. Vier lange Erzählungen – sembrano dar ragione a quell’impulso»; in secondo luogo hanno il potere di arrestare il tempo: la narrazione è infatti un processo dinamico che inclina verso una fine; le fotografie invece fermano il flusso, rallentando la lettura. Naturalmente, le immagini scelte da Sebald non accompagnano le parole, non hanno alcuna funzione decorativa, né tantomeno si limitano ad aggiungere qualcosa al testo; più sottilmente, esse hanno molto spesso la capacità di deviarlo, di produrre uno scarto11. Un caso emblematico si trova in Die Ringe des Saturn, in cui seguiamo il narratore nelle sue passeggiate mentre rammenta le bizzarrie del maggiore Le Strange ritiratosi nella sua residenza di campagna dopo la seconda guerra mondiale: all’improvviso, voltando la pagina irrompe un’impressionante fotografia a doppia pagina di un bosco disseminato di cadaveri, che sospende il discorso e in particolare tronca esattamente a metà la parola ‘armistizio’ (un caso limitato all’edizione italiana, ma nondimeno molto efficace). Come se nulla fosse, il narratore prosegue poi nelle sue divagazioni senza fare alcun cenno al contenuto dell’immagine, lasciando al lettore un grande senso di inquietudine.
Altre volte le immagini sono impiegate al fine di un maggior coinvolgimento: ad esempio in Austerlitz, durante la visita alla fortezza di Breendonk, il narratore viene assalito da un senso di claustrofobia talmente forte da nausearlo. In questo caso, la fotografia degli stretti cunicoli che, come tane, attraversano fitti la fortezza, contribuisce a trasportare il lettore all’interno del massiccio per condividere l’epifania che gradualmente prende forma: istintivamente il narratore accosta il senso di nausea ai terrori provati nell’infanzia, e subito dopo passa dalle fobie infantili alle pratiche di tortura della fortezza:

Non posso dire che insieme a quel senso montante di nausea fosse affiorata in me un’idea precisa dei cosiddetti interrogatori di rigore condotti in quel luogo proprio al tempo della mia nascita: fu solo qualche anno più tardi, infatti, che lessi in Jean Améry della spaventosa vicinanza fisica tra vittime e carnefici, della tortura cui egli era stato sottoposto a Breendonk; tortura consistita nel sollevarlo in aria per le mani legate dietro la schiena […]: la pendaison par les mains liées dans le dos jusqu’à évanouissement12.

Questa forma di tortura non può non richiamare alla mente la terribile Bogerschaukel [altalena di Boger], praticata con continuità da Wilhelm Boger, rinomato come ‘La Tigre di Auschwitz’. Non a caso, l’analogia successiva conduce a Gastone Novelli, deportato a Dachau e dopo la liberazione imbarcatosi in Sudamerica, dove ha vissuto con una tribù di indigeni e ha compilato il dizionario della loro lingua fatta esclusivamente di vocali. Ritornato in patria, Novelli si mette a dipingere quadri il cui motivo principale è la lettera A, incisa in serie cumulate dalle forme ondulatorie, «come un grido prolungato»: AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA. L’inquietante riproduzione grafica – estesa per tre righe – dei dipinti di Novelli costituisce una singolare fusione tra immagine e testo, che manifesta la precisa scelta da parte di Sebald di voler dilungarsi in un’ékphrasis senza però allegare una chiara immagine: un’opzione non così rara nelle sue opere, in cui può capitare di leggere di fotografie o dipinti che possiedono magari un certo peso ai fini narrativi e tuttavia non vengono mostrati. Questo testimonia quanto la sua scrittura flaneuristica possieda in effetti un grado di controllo molto elevato. Affrontando l’argomento nel corso di un’intervista, Sebald ammette che il suo rapporto con la scrittura non è mai stato particolarmente piacevole: la fase di ricerca asistematica che precede la stesura dell’opera «è la parte più piacevole del lavoro, scopri cose diverse, e ti sposti da un fatto straordinario a un altro. La scrittura vera e propria, naturalmente, è tutta un’altra storia. È tutto fuorché un’occupazione piacevole13». Non è solo una questione di precisione, o di controllo maniacale: la verità è che scrivere «non è più un gesto naturale per noi», è diventata un’attività sempre più difficile, tanto che la stesura di Austerlitz è risultata estremamente tormentata. Fare lo scrittore “non è come fare il giudice, o il chirurgo: quando hai operato centoventicinque appendiciti, la centoventiseiesima la puoi operare mentre dormi. Nella scrittura succede l’esatto opposto14».
Per quanto tuttavia il processo creativo possa rivelarsi penoso, per Sebald l’esito è sempre stato degno di ammirazione: le sue opere hanno manifestato fin da subito una grande maturità (anche legata al suo tardivo approdo alla scrittura, dopo decenni di docenza universitaria). Una delle prime etichette che gli sono state assegnate è quella di ‘cacciatore di fantasmi’15: in effetti le passeggiate di Sebald si estendono soprattutto lungo le dimensioni temporali. Paul Ricoeur, all’inizio de La mémoire, l’histoire, l’oubli, riflette sul problema della prossimità della memoria all’immaginazione. Secondo Ricoeur, «una lunga tradizione filosofica fa della memoria una provincia dell’immaginazione» (ibidem, p. 15). Perché, di cosa si avrebbe memoria? Di un’immagine. Come l’immaginazione, la memoria sarebbe caratterizzata dalla presentificazione di un’immagine, cioè dal fenomeno della presenza di una cosa assente. In Sebald passato e presente sono sempre simultanei e fuori sincrono: come i viaggiatori spettrali dei suoi romanzi, «egli considera il tempo in modo plastico, irregolare, soggettivo, “un’inquietudine dell’anima”16». Una delle sue prime opere, Nach der Natur. Ein Elementargedicht, è un lungo poema in prosa dedicato al pittore del XVI secolo Matthias Grünewald, di cui non si conosce quasi nulla, se non i dipinti: «E sono state queste lacune, e i pochi fatti noti a spingermi in questo territorio e, dopo un po’, a sentirlo intimo». Il gesto di interessarsi alle vite di persone che non ci sono più comporta un grande impiego di energia, e questo permette di occupare il loro spazio: «Stabilisci una presenza in un’altra vita attraverso un’identificazione emotiva. E non importa quanto ci separi. È una cosa, in qualche modo, immateriale17». Naturalmente, la passione per il passato rivela anche un forte impulso regressivo: «C’è qualcosa che mi affascina incredibilmente nel passato. Il futuro mi interessa poco. Non credo ci riservi molte cose positive. Invece, per quanto riguarda il passato, si possono ancora conservare alcune illusioni18».
Nei suoi romanzi, talvolta l’immersione nelle sabbie del tempo può far spuntare a galla, tra gli scarti, qualcosa che non si sapeva di avere perso:

I frammenti di memorie di cui l’io narrante va alla ricerca si accompagnano ad una fenomenologia del ricordo. Spinti dal loro interlocutore i protagonisti delle sue storie riflettono su come i frammenti del passato siano affiorati alla loro coscienza. Il narratore appare come una sorta di maieuta del ricordo: le sue domande mettono in moto un’emersione dolorosa di fotogrammi, che si rivelano come lacerti temporali, brevi sequenze discontinue, ostinatamente resistenti ad essere inquadrate in una cornice narrativa19.

Austerlitz e il narratore, dopo essersi incrociati in maniera casuale ma continuativamente in vari luoghi lungo il continente, si spostano in Gran Bretagna, dove si frequentano in maniera sporadica fino al 1975. Il loro successivo incontro, ancora una volta casuale, avverrà dopo un’ellissi temporale di più di vent’anni. In quest’occasione Austerlitz rivela che nel tempo intercorso dal loro ultimo incontro è riuscito a venire a capo della sua storia personale: ora ha una storia da raccontare, gli manca solo chi la ascolti. Veniamo così a sapere che Austerlitz, all’età di cinque anni, venne allontanato, insieme ad altri bambini, dalla città in cui era nato – Praga – perché si mettesse in salvo dalle deportazioni naziste; veniamo a sapere che per tutta la vita egli non ha fatto altro che tentare di rimuovere il ricordo di quel trauma. La presenza del trauma non elaborato si traduce per Austerlitz nella continua ricerca di un tempo diverso da quello cronologico. Austerlitz afferma che a volte la sua intera vita gli appare come un punto cieco privo di durata. È questa immobilità temporale in cui identifica la propria esistenza che lo costringe a muoversi continuamente, a cercare per così dire dei luoghi immuni dal corso del tempo. Quell’infanzia negata e repressa ha fatto di lui ciò che è, cioè uno sradicato assoluto, condannato a uno spaesamento e a uno spostamento perpetui20.
L’amnesia di Austerlitz deriva evidentemente dal distacco forzato dalla famiglia originaria. Secondo Halbwachs la memoria individuale ha un carattere socialmente condizionato: la parabola di Austerlitz sembra a tutti gli effetti confermare, da un punto di vista traumatico, che, appunto, «nessuno ricorda da solo». Il concetto di ‘mémoire collective’ fu elaborato da Halbwachs tra gli anni Venti e Trenta, ma si può dire che le sue teorie siano state recepite soltanto a partire dagli anni Settanta21. Secondo Halbwachs, un individuo che crescesse nella solitudine più assoluta non possiederebbe memoria: è soltanto attraverso il processo di socializzazione che la memoria si innesta e cresce nell’uomo: «Le collettività non ‘hanno’ una memoria, è vero, ma esse determinano la memoria dei loro membri22», in modo che i ricordi, anche i più personali, nascerebbero solo attraverso la comunicazione e l’interazione all’interno di un «quadro sociale».
Ma quella di Austerlitz non è soltanto la storia di una singola patologia della memoria, di una rimozione, di un’amnesia individuale, bensì è un’allegoria dello stato della memoria nella contemporaneità. Il passato non sarebbe in grado di conservarsi in essa in quanto tale, ma verrebbe continuamente riorganizzato dai mutevoli quadri di riferimento di un presente sempre avanzante23. Il passato è una funzione del presente, e muta a seconda della prospettiva da cui è interrogato. «Il dimenticare, e direi persino l’errore storico, sono fattori fondamentali per la formazione di una nazione, il che spiega perché il progresso degli studi storici sia sovente un pericolo per la nazionalità24».
In Die Ringe des Saturn assistiamo a una descrizione di Waterloo. Il parco storico a tema, che tutto appiattisce, livella e spettacolarizza, è stato eretto sopra una montagna di morti, rimossi alla vista e alla storia, ma necessari per sorreggere l’attuale impianto. Una riflessione, questa, che potrebbe condurre alla conclusione che la panoramica storica da cui si guarda al passato sia un atto selettivo basato sulla rimozione: in questo caso specifico, di quelle svariate migliaia tra soldati e cavalli che morirono «auf einmal», in un sol colpo. Rispetto al vuoto provato davanti alla commercializzazione del passato, alla letteratura è attribuito il ruolo di conferire un senso. Sebald considera la modernità, e soprattutto la modernità storica, dal punto di vista dell’incremento della capacità annientante.
Secondo Reinhart Koselleck, la modernità illuministica avrebbe prodotto una nuova dimensione della temporalità. Da una struttura atemporale, garantita dall’attesa escatologica (la perenne imminenza del giorno del giudizio), con la Rivoluzione francese si passerebbe al sempre-nuovo di un tempo perennemente in fuga25. La freccia del tempo della modernità, rivolta in avanti, omogenea e progressiva, si arresta però nell’epoca della postmodernità. L’apocalittico Baudrillard, secondo cui oramai non saremmo condannati a nient’altro che alla retrospettiva infinita di tutto ciò che ci ha preceduto, non esita ad attribuire al momento del cambiamento una datazione abbastanza precisa:

In un momento imprecisato degli anni ottanta del XX secolo, la storia ha fatto un’inversione di rotta. Una volta superato il vertice della curva dell’evoluzione […] cominciò la fase discendente degli eventi, il percorso in senso inverso […]. Abbiamo a che fare con un processo paradossale di reversione della modernità che, avendo oramai raggiunto il suo limite speculativo ed estrapolato tutti gli sviluppi virtuali, si disintegra nei suoi elementi semplici secondo un processo catastrofico di ricorrenza e di turbolenza26.

Ormai si avanza con lo sguardo rivolto all’indietro, al passato e alle sue macerie, e l’angelo della storia di Benjamin diventa così una delle ‘figure di pensiero’ più frequentate. La troviamo proprio nelle righe finali di Luftkrieg und Literatur, in cui lo sguardo dell’angelo viene evocato da Sebald per mostrare la sua visione catastrofica della storia – del tutto distante dalla fiducia nel progresso di stampo marxista di Kluge, autore trattato nel corso del saggio. I panorami offerti dalle città tedesche bombardate possono costituire le puntuali illustrazioni di una storia naturale, quella della natura, o meglio di una seconda natura, che cresce sopra le macerie: «in base all’altezza delle piante cresciute sopra le rovine, si poteva dedurre la data del bombardamento27».
Gli effetti dei bombardamenti alleati riportati da Sebald raccontano la storia sotto il profilo di un’irresistibile decadenza, allo stesso modo in cui Benjamin illustrava i rovinosi effetti della secolarizzazione. Tuttavia, quel che allarma Sebald è il silenzio che ha avvolto la letteratura tedesca del dopoguerra circa le rovine su cui poggiano le fondamenta dello Stato: «quando volgiamo gli occhi al passato, in particolare agli anni compresi fra il 1930 e il 1950, il nostro è sempre al tempo stesso un gettare e un distogliere lo sguardo28». La questione è come riuscire a mostrare ciò che finora è rimasto occultato, in che modo cioè la letteratura possa rompere un muro di omertà (che quasi sempre è uno strumento di difesa dall’orrore). Decisiva diventa la scelta del punto di vista da cui si racconta: come suggerisce Julia Hell29, si tratta di comprendere quale dovrebbe essere lo sguardo che lo storico/narratore dovrebbe tenere per riuscire a farci alzare gli occhi sui corpi carbonizzati che quasi nessuno ha avuto il coraggio di guardare fino ad ora.
In Luftkrieg und Literatur lo sguardo di Sebald resta inizialmente freddo e analitico, del tutto funzionale all’imperativo morale che si è imposto, in sintonia con la posizione di Canetti: «In un saggio, dedicato al diario del dottor Hachiya di Hiroshima, Elias Canetti si domanda che cosa significhi sopravvivere a una catastrofe di tali dimensioni, e risponde che lo si può dedurre unicamente da testi, come sono appunto le osservazioni di Hachiya, caratterizzati da precisione e responsabilità30». È necessario che lo sguardo dell’autore, come quello del lettore, venga tenuto a freno, e che l’aspetto estetico resti pienamente sotto controllo:

L’ideale del vero, racchiuso in una sobrietà che per ampi tratti, almeno, è totalmente priva di pretese, si rivela – di fronte alla distruzione totale – come l’unico motivo in grado di legittimare chi continua a dedicarsi all’attività letteraria. Ricavando effetti estetici o pseudoestetici dalle rovine di un mondo devastato, la letteratura contravviene invece alla propria legittimazione31.

Soltanto la letteratura documentaria può assumere un punto di vista che sia artificiale e insieme sinottico, senza il rischio di banalizzare la distruzione, né tantomeno di estetizzarla. Lo spauracchio del voyeurismo attraversa tutta l’opera di Sebald (non soltanto Luftkrieg und Literatur): paradigmatico è il caso delle fotografie di cadaveri disseminati per le strade di Amburgo dopo una tempesta di fuoco, smerciate sottobanco in una libreria negli anni dell’immediato dopoguerra «come in genere accade soltanto con materiale pornografico». Sebald ammette che nemmeno le sue annotazioni possono sfuggire completamente alla china voyeuristica, e infatti nessuna delle foto oggetto del macabro smercio viene allegata al testo.
Questa scelta è, come nota Julia Hell, un interessante caso di fotofobia per un autore la cui cifra stilistica è l’intreccio fra testo e immagine32 – e come si è visto, non si tratta peraltro di un caso sporadico. L’angelo di Benjamin che compare alla fine di Luftkrieg und Literatur è terrorizzato non solamente dalle immagini di morte, ma anche dal voyeurismo che ne consegue, ovvero dalla bellezza della morte rivelata da quelle immagini: l’orrore che trafigge lo sguardo è la reazione alla creazione letteraria dentro cui si annidano la repulsione e insieme il fascino perverso per la storia naturale della distruzione: «This gaze is horrified not because the angel/author/historian realizes that history is but one single catastrophe; it is horrified because it remains fixed in fascination and cannot avert its gaze from an object of aesthetic pleasure33». Quest’apparizione nelle ultime righe modifica in maniera decisiva lo sguardo di Sebald, che da freddo e analitico diventa compassionevole: «Sebald heightens the emotional intensity of Benjamin’s original by transforming the angel’s ‘wide opened eyes’ into eyes that are entsetzensstarr […], frozen in horror34». L’intenzione di Sebald è di prendere parte alla storia che per ragioni anagrafiche non ha potuto vivere, ma che innerva profondamente la sua scrittura: il suo proposito è quello di far parlare i morti come fa Celan attraverso la sua poesia – e, aggiunge Julia Hell, come fa Michelet con la storia della rivoluzione francese. In questo modo la dimensione etica s’impone definitivamente su quella estetica.
Una delle ragioni che spinge a occuparsi del Novecento è il timore per il progressivo venir meno dei testimoni diretti dell’Olocausto e delle atrocità che lo hanno costellato. Sebald, come molti altri intellettuali della sua generazione, temeva che la nuova Germania nata dal crollo del muro avrebbe comportato un’ulteriore repressione del suo passato nazista. Le parole scritte da Primo Levi ne I sommersi e i salvati descrivono alla perfezione lo stato d’animo di un testimone davanti a questo mutamento:

Il trascorrere del tempo sta provocando effetti […] storicamente negativi. La maggior parte dei testimoni, di difesa e di accusa, sono ormai scomparsi, e quelli che rimangono, e che ancora (superando i loro rimorsi, o rispettivamente le loro ferite) acconsentono a testimoniare, dispongono di ricordi sempre più sfuocati e stilizzati; spesso, a loro insaputa, influenzati da notizie che essi hanno appreso più tardi, da letture o da racconti altrui. In alcuni casi, naturalmente, la smemoratezza è simulata, ma i molti anni trascorsi la rendono credibile, anche in giudizio: i “non so” o “non sapevo”, detti oggi da molti tedeschi, non scandalizzano più, mentre scandalizzavano, o avrebbero dovuto scandalizzare, quando i fatti erano recenti35.

La memoria presuppone un legame diretto con persone ed eventi legate a un passato che viene conservato sotto forma di ricordo: è il racconto del testimone, che Le Goff pone alle origini della storia: «La storia ha dunque cominciato con l’essere un racconto, il racconto di colui che può dire “Ho visto, ho sentito”36». La letteratura, al contrario, nasce quando si testimonia qualcosa che non c’è: «La letteratura non è nata il giorno in cui un ragazzino corse via dalla valle di Neanderthal inseguito da un grande lupo grigio, gridando “Al lupo, al lupo”: è nata il giorno in cui un ragazzino, correndo, gridò “Al lupo, al lupo” senza avere nessun lupo alle calcagna37». Sebald sceglie di porsi consapevolmente all’incrocio tra storia e letteratura, costruendo una prosa che è insieme saggio, memoriale e opera di finzione.
Il punto di vista senz’altro prezioso di chi è stato direttamente coinvolto può rivelarsi infatti insufficiente. Traverso avverte: «riservare un’attenzione esclusiva alla memoria delle vittime rischia di mutilare la lettura di un evento38». In Luftkrieg und Literatur, Sebald sostiene chiaramente che la testimonianza diretta possa risultare poco affidabile, come nel caso del dottor Schröder, il cui studio ponderoso sulla guerra comprende un capitolo sulla distruzione di Amburgo:

Uno dei principali problemi dei cosiddetti resoconti basati sull’esperienza diretta è la loro intrinseca inadeguatezza, la loro ben nota inaffidabilità unita a una singolare mancanza di contenuto, il loro indulgere al cliché, alla ripetizione. Le indagini condotte dal dottor Schröder prescindono ampiamente dalla psicologia del ricordo di eventi traumatici39.

La prossimità genera un’identificazione che impedisce di mantenere un punto di vista affidabile; la letteratura invece può aiutare a vedere: fornendo una visione profonda della realtà, essa offre un punto di vista penetrante che permette di comprendere il passato40. Come ricorda Ortega y Gasset,

Se approfondissimo un po’ la nostra comune nozione di realtà, forse scopriremmo che non consideriamo reale ciò che effettivamente accade, ma un certo modo, a noi familiare, in cui le cose accadono. In questo senso, quindi, il reale non è tutto ciò che è visto, quanto ciò che è previsto; non tanto ciò che vediamo quanto ciò che sappiamo41.

Nella prosa di Sebald abbiamo visto come il punto di vista non sia mai diretto, bensì obliquo. In un noto passaggio di Die Ringe des Saturn il narratore riflette sulla Lezione di anatomia dipinta da Rembrandt. Il dottor Nicolaes Tulp teneva la sua lezione ogni anno nel cuore dell’inverno: quella data segnava un avvenimento importante per la società del tempo, tanto da far accorrere personalità di spicco come Descartes.
Un simile spettacolo certo metteva in scena «l’intrepida volontà di ricerca della nuova scienza», ma al tempo stesso sembrava riproporre l’arcaico rituale dello sparagmòs sacrificale: che l’autopsia fosse una cerimonia lo testimonia il dipinto di Rembrandt: «i chirurghi sono in tenuta di gala, e il dottor Tulp ha persino il cappello in testa42». Tuttavia, osservando i personaggi sulla tela, si evince come nessuno stia davvero guardando il cadavere: «gli sguardi dei colleghi del dottor Tulp non sono rivolti a quel corpo in quanto tale, ma sfiorandolo appena si concentrano piuttosto sull’atlante anatomico spalancato», sono interessati non alla carne, bensì al diagramma, allo schema dell’uomo – come insegna Descartes. L’ékphrasis di Sebald giunge alla conclusione che a guardare il cadavere è soltanto Rembrandt, e con lui lo spettatore: «solo lui vede davvero il corpo verdastro, esanime, scorge l’ombra nella bocca semiaperta e sopra l’occhio del morto». Solo il pittore s’identifica con la vittima. Tuttavia, rispetto allo sguardo vicino ma distratto dei chirurghi sulla tela, il suo è uno sguardo empatico ma distanziato: Rembrandt non sta partecipando al rituale di smembramento, ed è proprio questa sua lontananza a favorire la reale comprensione di ciò che sta accadendo – anzi, è accaduto. Nessuno riesce a guardare veramente la realtà nel momento in cui accade, solo lo spettatore distaccato – il narratore – è in grado di farlo.
Sebald è troppo giovane per far parte della generazione del gruppo 47, composto da autori che hanno vissuto la gioventù hitleriana. Secondo Peter Rühmkorf questa generazione gode di un privilegio epistemologico: conservano il ricordo dell’esperienza vissuta senza portarne però il peso della colpa («a kind of knowledge without guilt», riassume Julia Hell), e questo renderebbe la loro produzione superiore a quella delle vittime43. Il gruppo 47 ha incarnato a lungo la coscienza morale e politica del dopoguerra tedesco; tuttavia, secondo Sebald, quando si è trattato di affrontare «ciò che… abbiamo trovato tornando a casa44», ha fallito: «Perfino la tanto acclamata “letteratura delle macerie”, che per programma aveva un intransigente senso della realtà […], finisce per rivelarsi – a chi voglia guardarla più da vicino – uno strumento che ben si accorda con l’amnesia individuale e collettiva45». L’unica opera, nella seconda metà degli anni ’40, in grado di fornire un’immagine almeno approssimativa delle rovine del dopoguerra tedesco è Der Engel schwieg di Böll, pubblicata però soltanto nel 1992.
Sebbene abbia sempre percepito la sua patria come una terra straniera, Sebald avverte il dovere di assumere su di sé il peso delle colpe che non ha vissuto: non può fare a meno di rivolgere lo sguardo a quel passato. La sua condizione è quella espressa da Martin Walser di fronte alle immagini delle stragi naziste: «A Frenchman or an American may acknowledge these pictures in a way that differs from ours. He does not have to think: we humans! He can think: these Germans! Are we able to think: these Nazis? I can’t46». Nell’intervista concessa a Michael Silverblatt per Bookworm un mese prima dell’incidente stradale in cui perderà la vita, emerge tutta la sua consapevolezza sull’urgenza di raccontare il passato, e sulla fragilità di quelle immagini che sono sul punto di disintegrarsi, immagini che mostrano ciò che non può essere visto ma è necessario che lo sia, ciò che non si può rappresentare eppure dev’essere rappresentato, ciò che non si può conoscere ma che si deve comunque esplorare47:

Ho sempre sentito come necessario scrivere la storia della persecuzione, del vilipendio delle minoranze, del tentativo, a cui ci si è avvicinati molto, di eradicare un intero popolo. Ed ero allo stesso tempo consapevole, nel perseguire queste idee, di come sia praticamente impossibile farlo; perché secondo me scrivere dei campi di concentramento è quasi impossibile. Quindi bisogna trovare modi diversi di convincere il lettore che è qualcosa che hai in mente, ma senza necessariamente srotolare l’argomento a ogni pagina. Il lettore deve essere preparato al fatto che il narratore ha una coscienza, che è, e lo è forse stato per molto tempo, impegnato nella questione. È per questo che le scene dell’orrore più importanti non sono mai presentate in modo diretto. Credo sia sufficiente ricordare alle persone, poiché tutti abbiamo visto le immagini, ma queste immagini militano contro la nostra capacità di pensiero discorsivo. E paralizzano, com’è successo, le nostre capacità morali. Quindi l’unico modo per affrontare queste cose è farlo, secondo me, in modo obliquo, tangenzialmente, attraverso dei riferimenti, piuttosto che in un confronto diretto48.

Un mattino di sole, passeggiando per Anversa, Austerlitz si ferma davanti alle acque scintillanti della Schelda e inizia a raccontare di un dipinto del XVI secolo. Dal cielo cupo scende una fitta nevicata, e sul fiume gelato, «che noi adesso a trecento anni di distanza stiamo guardando49», gli abitanti di Anversa si divertono a giocare. In primo piano, sul margine destro del quadro, vestita d’un abito giallo canarino, una donna è scivolata sul ghiaccio. «Se adesso guardo laggiù e penso a quel dipinto e alle sue minuscole figure, ho come la sensazione che il momento raffigurato da Lucas van Valckenborch non sia mai trascorso, che la dama giallo canarino sia caduta o abbia perso i sensi in questo istante». Come se quell’incidente continuasse a ripetersi, all’infinito, come se non smettesse mai di cadere, «e nulla e nessuno potesse porvi rimedio».

Note

  1. Intervista di Lars Gotrich a William Basinski, Divinity From Dust: The Healing Power Of ‘The Disintegration Loops’, NPR, 2012.
  2. E. Stine, Memory, Decay and Activism. William Basinski’s The Disintegration Loops, 2015.
  3. M. Palozzo, William Basinski. The disintegration loops, 2018.
  4. W. Benjamin, Dottrina del somigliante, in A. Cortellessa, Nocturama. Après-Sebald, 2020.
  5. Si vedano in particolare le pagine dedicate ad Auerbach: “Da To the Lighthouse e dalla Recherche Auerbach ha tratto l’idea, del tutto estranea alle storie della letteratura tradizionali, che attraverso un evento accidentale, una vita qualunque, un brano preso a caso si possa giungere a una comprensione più profonda dell’intero”. Cfr. C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano, Feltrinelli 2006, pp. 169 e seguenti.
  6. L.S. Schwartz (a cura di), Il fantasma della memoria. Conversazioni con W.G. Sebald, Roma, Treccani 2019, p. XXIX.
  7. Conversazione con Joseph Cuomo tenuta il 13 marzo 2001 nel corso dei Queens College Evening Readings. È stata pubblicata integralmente in ivi, p. 73.
  8. Ivi, p. 75.
  9. Ivi, p. 77.
  10. A. Lubow, Attraversare i confini, in ivi, p. 153.
  11. D’altronde, come ha mostrato Lyotard, discorso e figura sono al fondo irriducibili: «Nella propria concezione del figurale egli comprende infatti il visibile non soltanto in quanto “immagine riconoscibile” […], bensì anche come fantasma, come allucinazione». (M. Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Milano, Raffaello Cortina 2016, p. 70). Cfr. inoltre J. Lyotard, Discorso, figura, Milano, Mimesis 2008.
  12. W.G. Sebald, Austerlitz, Milano, Adelphi 2002, p. 33.
  13. Una conversazione con Sebald, in L.S. Schwartz (a cura di), Il fantasma della memoria. Conversazioni con W.G. Sebald, Roma, Treccani 2019, p. 75.
  14. Ivi, p. 92.
  15. Intervista con Eleanor Wachtel registrata il 16 ottobre 1997 per la CBC Radio e raccolta poi con titolo Cacciatore di fantasmi in ivi, p. 24.
  16. L.S. Schwartz, ivi, p. XXXI.
  17. Cacciatore di fantasmi, in ivi, p. 24.
  18. Ivi, p. 38.
  19. R. Gilodi, Ritratto di W.G. Sebald, Doppiozero, 2012.
  20. N. Barilli, Il campo di battaglia della memoria. Sulla rappresentazione del passato in Heiner Müller, 2009, pp. 144-5.
  21. Nel 1944, al momento della nomina al Collège de France, Halbwachs venne deportato a Buchenwald, dove morì. Cfr. ivi, p. 49.
  22. J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità nelle grandi civiltà antiche, Torino, Einaudi 1997, p. 11.
  23. Cfr. ivi, p. 17.
  24. Famoso passo di Renan riportato in Cos’è una nazione?, in Homi K. Bhabha (a cura di), Nazione e narrazione, Roma, Meltemi 1997, p. 47. Da questo punto di vista, la storia in quanto disciplina scientifica avrebbe il compito di erodere il cemento su cui poggia il sentimento d’appartenenza a una collettività data.
  25. Cfr. R. Koselleck, «Spazio di esperienza e orizzonte di aspettativa»: due categorie storiche, in Futuro passato. Per una semantica dei temi storici. Genova, Marietti 1996.
  26. J. Baudrillard, L’illusione della fine. Milano, Anabasi 1993, p. 22.
  27. W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione. Milano, Adelphi 2004, p. 48.
  28. Ivi, p. 12.
  29. J. Hell, The angel’s enigmatic eyes, or The Gothic Beauty of Catastrophic History in W. G. Sebald’s “Air War and Literature”, in Criticism, Summer 2004, Vol. 46, No. 3, Special Issue: Extreme and Sentimental History (Summer 2004), Wayne State University Press, p. 365.
  30. W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione, Milano, Adelphi 2004, p. 59.
  31. Ibidem.
  32. Julia Hell mette a paragone la fotofobia di Sebald con il discorso di Benjamin sulla fotografia come uno dei nuovi media materialistici: “If Sebald had written the Hamburg passage and its central image—the image of burned bodies—in the spirit of Benjamin, if he had written the passage entirely from Benjamin’s photographic perspective, he would have left the textual wounds unstitched and the representational seams open, and he would have further distorted the picture in the direction of the symbolic, forcing into the fore ground the picture’s ‘photographic’ constructedness.” Cfr. The angel’s enigmatic eyes, or The Gothic Beauty of Catastrophic History in W. G. Sebald’s “Air War and Literature”, in Criticism, Summer 2004, Vol. 46, No. 3, Special Issue: Extreme and Sentimental History (Summer 2004), Wayne State University Press, p. 372.
  33. Ivi, p. 378.
  34. Ivi, p. 375.
  35. P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi 1986, p. 10.
  36. J. Le Goff, Storia e memoria.,Torino, Einaudi 1988, p. XI.
  37. V. Nabokov, Lezioni di letteratura, Milano, Adelphi 2018, p. 42.
  38. E. Traverso, Postmemoria a uso degli smemorati, Bologna, Il Mulino 2008, p. 430.
  39. W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione, Milano, Adelphi 2004, p. 83.
  40. «Literature should provide a sharp, steady look at reality – a gaze that would allow us to visualize the past». J. Hell: Eyes Wide Shut: German Post-Holocaust Authorship, in New German Critique No. 88, Contemporary German Literature (Winter, 2003), Duke University Press, p. 29.
  41. J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte, Milano, Mimesis 2015, p. 99.
  42. W.G. Sebald, Gli anelli di Saturno, Milano, Adelphi 2010, p. 23.
  43. J. Hell: Eyes Wide Shut: German Post-Holocaust Authorship, in New German Critique No. 88, Contemporary German Literature (Winter, 2003), Duke University Press, p. 16.
  44. H. Böll, Hierzulande. Aufsätze zur Zeit, München, sonderreihe dtv, p. 128.
  45. W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione, Milano, Adelphi 2004, p. 23.
  46. M. Walser, Auschwitz und kein Ende, in M. Walser: Über Deutschland reden. Frankfurt/M, Suhrkamp 1989, p. 25.
  47. Immagini che si possono trovare in Baudelaire, Rimbaud, e certamente anche in Celan, aggiunge Julia Hell. Cfr. J. Hell: Eyes Wide Shut: German Post-Holocaust Authorship, in New German Critique No. 88, Contemporary German Literature (Winter, 2003), Duke University Press, p. 36.
  48. Poema su un soggetto invisibile, in L.S. Schwartz (a cura di), Il fantasma della memoria. Conversazioni con W.G. Sebald. Roma, Treccani 2019, pp. 59-60.
  49. W.G. Sebald, Austerlitz. Milano, Adelphi 2002, p. 20.

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