Molti considerano Serantini autore romagnolo, ma ci sono due fatti che giocano a sfavore di questa collocazione.
Il suo stile di scrittura. In un’epoca – fine anni Quaranta e primi Cinquanta – in cui dettava legge il neorealismo letterario, Serantini si presentava con uno stile abbastanza inconfondibile, quello dell’epopea minima, della festa popolare. Fu un umanista che restò fedele alle storie vissute, cantore di un’Italia illustre sul piano popolare e garibaldino. Usò uno stile nuovo e antico al contempo, legato al passato ma bagnato nella modernità della sintesi, amante di una narrativa scorciata e dinamica, rapida e sobria, con un senso ironico e smaliziato della vita, fatto di malinconia e di nitidezza classica. Chi lesse Serantini si accorse che era... continua a leggere
tag: letteratura, romagna, serantini
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Da genere appartato, anche confidenziale, negli ultimi dieci anni l’aforisma ha trovato un consistente numero di voci che ne hanno arricchito il panorama editoriale e, come per ogni fenomeno che allarga i propri confini, anche quelli espressivi si sono ampliati, con un panorama sempre più vasto di interpretazione. Ogni autore, insomma, vede l’aforisma a modo suo – e a modo suo lo produce, consapevole che in fondo la schiera dei possibili maestri è assai ampia, in un ventaglio di forme brevi che spazia dal mondo antico al Novecento, da Ippocrate a Longanesi.
L’osservazione trova riscontro in una piccola collezione aforistica di recente pubblicazione. Assemblata da Annalisa Mancino, Al limite... Aforismi! (Urizen Edizioni, 2015) è un minuscolo album in sedicesimo orizzontale con pagine cartonate dello stesso peso della copertina. Già la forma pone il prodotto fuori dalla schiera, consegnandoci un oggetto cartaceo che è anche stampato e legato a ... continua a leggere
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Leggo quel che nel 1765 scrive Lalande, nel suo Voyage d’un français en Italie, e sogno la macchina del tempo per poter tornare indietro ed entrare in un teatro di Napoli ad ascoltare Scarlatti o Cimarosa o Pergolesi: «La Musica è soprattutto il trionfo dei napoletani; sembra che in quel luogo le corde del timpano siano più tese, più armoniche, più sonore che nel resto d’Europa. Il popolo medesimo ha in sé il canto: il gesto, l’inflessione della voce, la prosodia delle sillabe, la stessa conversazione, tutto vi segna e vi respira l’armonia e la Musica; così, Napoli è la sorgente principale della musica italiana, dei grandi compositori e delle opere eccellenti». E il fatto che la Musica sia ... continua a leggere
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C’è un fenomeno che mi preoccupa: le intemperanti censure nei riguardi degli editori a pagamento. Da qualche tempo un biasimo bellicoso affiora dal mondo immateriale di Internet: l’autore – povero credulone – non sarebbe altro che la vittima di scaltri animali da preda, che avrebbero buon gioco su di lui. Mi preoccupa il crescente fronte critico perché sono convinto che la funzione che questi editori svolgono sia invece benefica. Ragion per cui mi dispongo a individuare le ragioni della loro utilità e a stenderne un convinto elogio.
Faccio innanzitutto notare come gli editori a pagamento abbiano considerevolmente ampliato la platea degli scrittori, rendendola più folta di quella dei lettori. Come non elogiarne la pedagogica funzione? Chiediamoci onestamente: è più difficile e istruttivo leggere o scrivere? Ovvio: è più difficile e istruttivo scrivere. Dunque gli editori a pagamento, stimolando la pratica della scrittura (che per sua intima natura m... continua a leggere
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Un ampio canzoniere accolto tra due ali di esiguo peso, ma dall’inequivocabile significato di soglie, una d’ingresso e una di uscita: l’autore ha scelto di collocare la propria collezione poetica in una coppa di massime e aforismi, di adagiarla tra frantumati cristalli di prosa.
In apertura sono Cocci fra terra e cielo, citazioni tratte da molti maestri di morale e utili strumenti per il viaggio. Sono inevitabili, bisogna camminarci sopra prima di entrare, e restarne feriti. Uno per tutti, l’ultimo (il 66, numero che pone più di un quesito), che fa compiere infine, col dolce tocco autoritario della firma di Ceronetti, il lancio nel canzoniere: «La poesia ripara gli errori della Ragione, riempie i vuoti dei sensi, toglie il “velo di Maya” dai nostri occhi. È la vera Conoscenza».
E se all’inizio sono cocci, alla fine ecco alcune schegge firmate dall’autore, il fragile artigiano, che nelle prime compie, sc... continua a leggere
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Nacque il 10 giugno 1897 in Romagna, a Dozza imolese, uno dei più noti geografi italiani, Umberto Toschi, venuto alla luce in una famiglia rurale di nobile ascendenza. La sua biografia è tutta calata nella carriera accademica: si laureò a Bologna nel 1921 con la tesi L’individualità geografica Carpato-Danubiana e la sua influenza in quanto fattore storico. Praticò il giornalismo e per dieci anni insegnò in istituti commerciali di Ancona e Bologna. Partecipò poi a un concorso universitario e fu chiamato nel 1933 alla cattedra di geografia economica all’Università di Catania. Nel 1935 passò a Bari, dove fu anche rettore per alcuni anni; nel 1949 fu chiamato a Ca’ Foscari di Venezia e infine, nel 1951, ebbe sede definitiva all’Ateneo di Bologna, anche qui nella cattedra di geografia economica, disciplina cui si dedicò fin dai lavori giovanili e che, in certo modo, affiancava la corrente di geopolitica fondata in Italia verso la fine degli anni trenta. As... continua a leggere
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I primi decenni del Novecento esplodono in mille scintille, dall’Italia alla Spagna, dalla Francia alla Germania. Sono decenni vitali, creativi, sensuali, laicissimi: uno dei rari momenti dell’evoluzione culturale d’Occidente in cui umorismo e scetticismo, libertà e agnosticismo, si sono fusi in una figura originale, il cui sembiante si mostra in una miriade di “ismi”. Dietro ognuno di essi fermentava un gruppetto di intelligenze, di spiriti infuocati, che nei caffè e negli studioli polverosi davano forma a tutti i rivoli dell’avanguardia. E gli “ismi” con cui l’avanguardia europea s’è manifestata sono davvero tanti, a riprova di come in quel momento storico si sia propriamente manifestato un “pluriverso” (la smagliante differenza dei movimenti, dei tipi, delle personalità).
E in quel pluriverso ci sta anche il “ramónismo”, meteora avanguardistica che in quegli anni solcò il cielo di Madrid e andò ad infiggersi tra i tavolini del... continua a leggere
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Alle origini di ogni studioso, di quel genere di scrittore che pensiamo rediga solo pagine inerti – o peggio, glaciali – stanno sogni e passioni giovanili. Ammiratore di Carducci, la prima passione del ravennate Corrado Ricci (classe 1858) fu la poesia, al punto che aveva anche pensato d’intraprendere la carriera poetica. Scrisse infatti versi, stampandone una raccolta a sedici anni, ma alla laurea in legge, nel 1882, decise di abbandonare quel sogno. Quando molti anni dopo l’Accademia dei Lincei chiese ai propri soci una personale bibliografia, Ricci escluse dalla propria quel libretto di versi e ne ricordò i fatti così: «Il primo mio “stampato” è del 1874, ossia di cinquantasette anni or sono e, come è facile indovinare, data la mia età di allora, contiene versi! I poeti debbono essere poeti, o nulla. E se proprio non possono fare a meno di stender in carta e in rima le proprie debolezze, abbiano almeno il pudore di rimpiattarle o, meglio, la sagge... continua a leggere
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La promulgazione nel 1938 delle leggi razziali colse Angelo Fortunato Formíggini del tutto impreparato, al punto che scelse di mettere in atto, in maniera consapevole, la forma più strepitosa di protesta, il suicidio, gettandosi il 29 novembre 1938 dalla torre Ghirlandina di Modena. Se ci s’interroga sulla ragione di questi fatti sorprendenti in relazione a un intellettuale ebreo, la risposta che sembra ormai assodata è che Formiggini giunse fino al 1938, l’anno fatidico della campagna e della legislazione razzista in Italia, senza sentirsi né ebreo né antifascista. La biografia di Formiggini testimonia di una lucida sagacia: eppure egli non capì. Gli eventi della sua tarda biografia testimoniano qualcosa che, per comune sensibilità, fatichiamo a cogliere: che l’estrazione culturale di molti uomini dell’epoca impediva di captare la pericolosità degli eventi.
In che senso Formiggini non era ebreo? in quello comune a molti ebrei italiani: non pratica... continua a leggere
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Pessimismo e nichilismo vanno a braccetto, ma solo in Albert Caraco raggiungono quella tonalità oscura che impedisce ogni speranza e chiude ogni spiraglio d’illusione. Dalle sue pagine si esce guariti da ogni miraggio sul mondo, preparati per il macello prossimo futuro – e definitivamente redenti da ogni viziosa idea di soavità dell’uomo e della realtà. Rispetto a lui, i grandi pessimisti sono roba dolciastra, profeti zuccherati, voci infiacchite dalla chimera che “l’uomo ce la farà”.
Non altro che questo può succedere con chi ha scelto la strada di una scrittura ossessiva e disperata, un uomo che rifiuta ogni ottimismo delirante – simile secondo lui all’erezione dell’impiccato –, un dandy solitario i cui gesti misurati celano una soffice contiguità col tragico, che egli accetta come segno della libertà («Il rifiuto del tragico è proprio degli schiavi», annotava). Tentare di classificare Caraco lascia sgomenti per i tanti aspetti che ... continua a leggere
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Negli stessi anni dell’esperienza poetica di Pianissimo, Sbarbaro faceva anche quella dei Trucioli, frammenti in prosa che, sebbene pubblicati da Vallecchi nel 1920, furono scritti tra il 1914 e il 1918. Era già in ritardo come frammentista. Un critico liquidò Sbarbaro e i Trucioli con questa immagine: «La vecchietta che a chiesa vuota seguita a borbottar preghiere, senza accorgersi che la funzione (= il frammentismo) è finita». Gli dava insomma dello scrittore in ritardo sui tempi e Sbarbaro se ne vendicò: quando quello stesso critico pubblicò un eccellente vocabolario, Sbarbaro disse
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Tra Camus e Jean-Paul Sartre scoppiò una delle più aspre polemiche del dopoguerra, cui assistette l’intera Europa intellettuale, uno scontro in cui nessun colpo fu risparmiato, dall’argomentazione caustica ai perfidi colpi sotto la cintura. All’origine stava una dissonante visione del mondo, ma la causa scatenante fu la pubblicazione alla fine del 1951 de L’uomo in rivolta di Camus. La dissonanza non era semplicemente quella tra due uomini di sinistra che possono trovare un accordo: era una voragine, che in certo modo segna una delle spaccature storiche all’interno della sinistra europea
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Un neologismo s’impose nell’Italia del 1938: ‘razziale’, eufemismo che stava per ‘razzista’. Tra i due termini si distese la progressione di disprezzo – e forse anche di rancore – per un gruppo culturale rimasto difforme nella compagine di un regime totalitario: la minoranza ebraica. C’era una brace razzista che covava sotto il regime, che s’accese in fiamma quando, il 14 luglio, apparve sul «Giornale d’Italia» l’articolo Il fascismo e i problemi della razza. L’incendio divampò ad agosto, nelle edicole, col primo numero del quindicinale «La difesa della razza», e fece terra bruciata a novembre, sulla Gazzetta Ufficiale, con i Provvedimenti per la difesa della razza italiana: le cosiddette leggi razziali
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Frequente imbattersi in autori che si compiacciono di non scrivere al computer. Si dà la circostanza di chi mestamente rievoca la bellezza delle penne stilografiche, e chi il gioioso ticchettio della Lettera 22, la macchina da scrivere portatile che Olivetti lanciò sul mercato nel secondo dopoguerra. Se per i primi lo scricchiolio del pennino e l’abituale incaglio calligrafico rappresentano motivi di stimolo inventivo, per gli altri è il timbro dei martelletti e la laboriosità di reperire nastri inchiostrati a costituire sprone di scrittura. In ambo i casi è palese il compiacimento di non appartenere alla belluina categoria di coloro che, adoperando un programma di videoscrittura, esprimono il proprio estro mediante la tastiera di un computer
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Montale considerava il Dizionario Moderno, volume che Alfredo Panzini (1863-1939) aveva pubblicato nel 1905 (nuove edizioni arricchite nel 1908, 1918 e 1923), «uno dei suoi lavori più significativi», nel quale l’autore aveva raccolto «una selva di neologismi e di parole di conio quanto mai avventuroso». E davvero si tratta di opera che, sebbene poco nota, reclama attenzione proprio in virtù di quella selva di parole avventurose che ne fa un repertorio di tutto quel che all’epoca suonava inusitato
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Il volume che Matteo Veronesi ha di recente pubblicato, (Il critico come artista, dall’estetismo agli ermetici, Bologna, Azeta Fastpress) indaga la ricezione e diffusione nella cultura letteraria italiana del tardo Ottocento e della prima metà del Novecento dell’ideale del “critico come artista”. Tracce del tema erano già disseminate nella cultura francese e inglese della seconda metà dell’Ottocento, tra estetismo e simbolismo, portate a sintesi fra gli altri da Oscar Wilde nel celebre ed omonimo dialogo. Ma tracce si trovano anche nella cultura tedesca
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Circola nella geografia culturale europea un tipo di scrittore detto “moralista”, creatura di recente origine, soprattutto in relazione al senso da assegnare al suo nome. Torna infatti spontaneo riferirlo genericamente alla “morale”, cioè al complesso di principi che guidano nella condotta della vita. Lungo il Seicento, in quella Francia che è un po’ la terra nativa della figura del moralista, egli è riconosciuto come un autore che scrive e che tratta di morale, il cui compito è quello di guidare nel percorso dell’etica
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Il rasoio nazionale. Breve storia della ghigliottina: questo il titolo dell’ultimo lavoro di Antonio Castronuovo, in uscita presso Stampa Alternativa a metà 2009. Dopo decenni di assenza del tema dall’editoria nazionale, vede la luce un lavoro che oltre a narrare gli eventi storici, ricostruisce la serie di polemiche che si sollevarono su questa terribile macchina di morte. Va corretta l’idea di chi pensa che la macchina fosse ideata dal dottor Joseph-Ignace Guillotin. Così non fu: Guillotin fu soltanto colui che propose di usare un meccanismo semplice per applicare la pena di morte
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Il Novecento è secolo traversato dal fremito dell’incertezza, e le forme letterarie si spezzano, facendosi brevi. Non che sia il secolo che ha inventato la forma breve, tutt’altro, ma è quello che le ha dato impertinenza, causticità, malinconia. È il secolo che ne ha fatto un genere letterario, tanto più solido quanto più concluso nella perfezione di se stesso. E tra le forme brevi troneggia l’aforisma, che alla concisione associa la ricerca di uno stile
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Chi ha trascorso molto tempo sulle poesie di Rebora, sulle lettere, sulla documentazione edita e sulla letteratura critica (che sta diventando immensa, a testimonianza che davvero, come disse una volta Raboni, Clemente Rebora è tra i dieci poeti novecenteschi da salvare) è discretamente accompagnato dalla figura di Lydia Natus, la baccante maddalena, la lucciola rivelazione. Una sensazione attraversa molti di coloro che seguono la vicenda di Rebora: Lydia spicca onorevolmente nella biografia del poeta, non è figura negativa, non è elemento di perdizione o distruzione. È anzi invidiabile, per uno spirito poetico, la relazione con una donna che riesce a farsi levatrice di creatività. È come se con Lydia sia capitata a Rebora l’esperienza dell’Eterno Femminino di goethiana memoria.
Fu la sola donna da lui amata, pur nelle tante e anche intense amicizie femminili: Daria Banfi Malaguzzi, Sibilla Aleramo, Bice Jahn Rusconi. Lydia era una donna colta e sensibi... continua a leggere
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Nel giorno in cui la civiltà europea festeggia l’apparizione della Buona Novella, il giorno dell’esultante Natività, proprio in quel giorno Robert Walser andò invece incontro alla morte. Era il 25 dicembre del 1956 quando
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