In una pagina dei Quaderni di Malte Laurids Brigge, Rilke evoca, ammaliato, la figura ‒ così lontana, peraltro, dal baudelairiano choc, dalle epifanie stranianti o salvifiche, luminose o perturbanti, della vorticosa vita metropolitana ‒ di un poeta che non vive a Parigi, ma «in una casa silenziosa sulle montagne»: un poeta che «risuona come una campana nell'aria pura», che vede «pensosamente riflessa», nelle vetrate della sua libreria, «una cara, solitaria lontananza», ed è capace (come poi Gozzano, anche in questo debitore a Jammes, come tanta poesia italiana, da Pascoli a Govoni a Corazzini) di conoscere ed evocare l'amore di fanciulle morte da un secolo, i cui nomi recano in sé «una minima eco del fato, una minima delusione e morte».... continua a leggere
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Il “mistero etrusco” (che, a ben vedere, tale non è, o è solo in parte, o è forse, oramai, un "mistero in piena luce", essendo l'alfabeto etrusco perfettamente decifrabile, ed essendosi via via venuto chiarendo, negli ultimi decenni, attraverso l'indagine etimologica e il ricorso al metodo comparativo e combinatorio — fondato sul ricorrere di determinati contesti ed ambiti logici, semantici e sintattici —, il significato di larga parte dei vocaboli) non ha cessato di esercitare, specie tra Ottocento e Novecento, la propria duratura suggestione su poeti e scrittori: dal "vaso etrusco" di un racconto di Mérimée, scrigno ed emblema dell'enigma, del perturbante, dell'ombra inquietante, al sarcofago etrusco di un'Elegia Duinese di Rilke, nella cui cavità ... continua a leggere
tag: etruschi, linguistica
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Un ampio canzoniere accolto tra due ali di esiguo peso, ma dall’inequivocabile significato di soglie, una d’ingresso e una di uscita: l’autore ha scelto di collocare la propria collezione poetica in una coppa di massime e aforismi, di adagiarla tra frantumati cristalli di prosa.
In apertura sono Cocci fra terra e cielo, citazioni tratte da molti maestri di morale e utili strumenti per il viaggio. Sono inevitabili, bisogna camminarci sopra prima di entrare, e restarne feriti. Uno per tutti, l’ultimo (il 66, numero che pone più di un quesito), che fa compiere infine, col dolce tocco autoritario della firma di Ceronetti, il lancio nel canzoniere: «La poesia ripara gli errori della Ragione, riempie i vuoti dei sensi, toglie il “velo di Maya” dai nostri occhi. È la vera Conoscenza».
E se all’inizio sono cocci, alla fine ecco alcune schegge firmate dall’autore, il fragile artigiano, che nelle prime compie, sc... continua a leggere
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Dall’antichità al Medioevo all’Umanesimo (da Cicerone artifex più che interpres, artista e ricreatore, ben più che mero, passivo traduttore, del testo platonico, a San Girolamo, con la sua idea della traduzione che rende non verbum e verbo, ma sensum e sensu, non la lettera esteriore, per così dire epifenomenica, del testo sacro, ma il suo messaggio recondito, le risonanze e le armoniche di quel mysterium che è insito nello stesso verborum ordo, nella stessa tessitura verbale e grammaticale della voce divina, fino al De interpretatione di Leonardo Bruni, persuaso, come Dante, che il discorso della bellezza e della sapienza fosse cosa «per legame musaico armonizzata», retta da equilibri ed intrecci sottili, necessari, delicatissimi – «verba inter se festive coniuncta, tamquam in pavimento ac emblemate vermiculato» – che il traduttore doveva saper salvaguardare nel momento stesso in cui li trasfigurava nella nuova creazione), l’atto della traduzione ... continua a leggere
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Si potrebbe davvero dire, per citare Dante, assai caro all'autore, che In humanitatem spiritus di Maurizio Malaguti (I Martedì, Bologna 2005) è un libro «al quale ha posto mano e cielo e terra». Queste pagine sembrano fondere l'immediatezza esperienziale di chi vive nell'essere con le alte speculazioni intorno all'Essere supremo, alla superessentialis divinitas come dice l'Areopagita.
In humanitatem spiritus: c'è, in quell'accusativo, tutta la tensione di un andare-verso, di un farsi incontro all'Essere nella misura in cui esso stesso, pur se velato, larvato, absconditum, si fa incontro a noi; non tanto un esser-ci inteso come gettatezza, deiezione, alienazione, differenza ontologica, quanto come possibilità di incontro, di pienezza, di illuminazione, pur nell'abisso del totalmente Altro, del totaliter Aliud.
Chi legga il libro en poète può essere sedotto dall'immagine simbolista del «visible et serein souffle artficiel / De l'inspiration, qui regagne... continua a leggere
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In genere l'Accademia dell'Arcadia viene presentata e studiata come movimento tipicamente, anzi esclusivamente, italiano. In realtà, essa costituì, dopo il petrarchismo (che ebbe nel Camoens lirico un esponente di valore assoluto, di un'essenzialità lirica e concettuale adamantina, forse accostabile, sul piano europeo, solo allo Shakespeare dei sonetti o a Maurice Scève) e sulle orme di esso, e prima del simbolismo e del modernismo, una sorta di grande codice, di comune esperanto, di ponte ideale, transoceanico, fra il mondo culturale italiano e quello lusofono, tanto portoghese, quanto brasiliano (la reale esistenza di un'Arcadia brasiliana, in passato messa in dubbio, è ormai certa; anche se il paesaggio stilizzato e idealizzato del petrarchismo arcadico, se era lontano dalla realtà storica dell'Europa settecentesca, e così pure della stessa Grecia antica, ancor più remoto e straniato appariva rispetto a quello, ancor più impervio, delle Minas Gerais, dove, ... continua a leggere
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Ha scritto Ernst Bloch che «il meglio della religione è la capacità di suscitare eresie». E decisamente eretico è un libello di Paolo Flores d'Arcais Gesù. L'invenzione del Dio cristiano, Add, Torino 2011, pp. 127, euro 5, scritto con l'impegnativo, se non velleitario, intento di contestare, o addirittura demolire, la monografia che Papa Ratzinger ha dedicato alla figura del Cristo.
Forse Flores d'Arcais non ha pienamente compreso, o ha rigettato in partenza, la metodologia adottata dal Pontefice; il quale, nella prefazione, parla della necessità, di fronte al testo sacro, di un «autotrascendimento del metodo» (Selbsttranszendierung der Methode), ovvero di un approccio che muova dalla parola, dal testo, collocati sì nel loro contesto storico, considerati sì come «parola umana, in quanto umana» (das Menschenwort als menschliches), ma anche trascesi in vista di un senso ulteriore, di un valore superiore, assoluto, e considerati nei loro possibili, intri... continua a leggere
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Gozzano e l’humanitas, Gozzano e il mistero, Gozzano mistico senza Dio, Gozzano e l’assenza, Gozzano e il tempo. Questi i motivi principali e coestensivi sondati in Gozzano dopo cent’anni (Nuova Provincia, Imola 2011), un’ ampia antologia – il cui titolo ricalca quello del noto e illuminante saggio montaliano del ’51, Gozzano dopo trent’anni – delle opere di Guido Gozzano che gli autori hanno curato in occasione del centenario dell’uscita dei Colloqui
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Il titolo e il sottotitolo, in apparenza arcani, di questo libro alludono, da un lato, all'idea rinascimentale della coscienza culturale come settimo giorno della creazione, dell'autocoscienza o coscienza riflessa come compimento ideale dell'universo, come vasto silenzio in cui la realtà e il pensiero vedono ed inverano se stessi nello specchio della riflessione; dall'altro, all'antica (ma anche moderna: D'Annunzio «estremo de' bibliomanti») arte della bibliomanzia, della conoscenza profonda, in certo modo profetica, che si ricava, o che ci si illude (ma quanto vitale e salutifera illusione) di ricavare, dallo scrutare e dall'auscultare, senza schemi preconcetti (e anzi concedendo al mistero, all'engima, all'imponderabile, ciò che a sé rivendicano nel percorso della vita, della conoscenza e della creazione), la selva di segni della scrittura e del testo
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Xénos en tôis biblíois, straniero, estraneo fra i libri, eppure curioso e innamorato indagatore, e ápolis, senza patria, ovvero, proprio per questo, cittadino di tutte le patrie: tale, a quanto dice Luciano di Samòsata in Come si deve scrivere la storia, la condizione dello storico. Universalità e straniamento paiono, in effetti, connotare, in linea generale, il ruolo e la situazione esistenziale dello storico
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...la figura, già a suo tempo appartata, ed oggi quasi totalmente obliata, di Arduino Suzzi da Tossignano, erudito del tardo Seicento che – accanto ad interessi magici, ermetici e cabalistici che lo portarono a proporre, fra visionarietà, genialità ed esoterismo, immaginifiche interpretazioni di oggetti altamente suggestivi, e a loro modo numinosi, come la pietra di Bologna (con il celebre enigma Aelia Laelia Crispis) e la Patena di San Pier Grisologo, conservata nella cripta del Duomo di Imola – coltivò anche studi, diremmo oggi, di linguistica comparata, dedicandosi, negli ultimi anni, ad una poderosa opera erudita, Le Origini Hebraiche delle tre lingue, che non ebbe mai l’imprimatur del Santo Uffizio e che giace tuttora, nella forma di un manoscritto in pulito già pronto per la mai avvenuta stampa, presso la Biblioteca Comunale di Imola
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Non esisteva ancora, del Fanciullino, un’edizione filologicamente sorvegliata sul piano testuale, e commentata in modo analitico sul versante sia linguistico e formale, sia delle fonti, degli antecedenti e dei referenti culturali. Invero, per esempio, la pur preziosa edizione Feltrinelli prefata da Agamben appariva orientata più alle implicazioni filosofiche di un’ontologia del linguaggio poetico che non agli aspetti propriamente storico-letterari
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Due recenti lavori di un giovane ed intraprendente italianista inglese, John Butcher, invitano il lettore d'oggi a riprendere in considerazione i versi di Vittoria Aganoor (1855-1910), poetessa di origine armena che, al crocevia fra Ottocento e Novecento, lambendo, e in parte assorbendo, atmosfere ed inquietudini che contraddistinguevano la nascente modernità letteraria italiana, diede corpo ed espressione ad un'esperienza umana e poetica certo umbratile
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Sono tristemente attuali, se riferite all'odierno ambiente scientifico ed accademico, le considerazioni ironiche ed amare di José Ortega y Gasset nella Rebelión de las masas riguardo alla «barbarie del especialismo», alla rigida ed alienante parcellizzazione e frammentazione delle competenze tecniche
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Due libri recenti, Lacchè, fighette e dottorandi di Maurizio Makovec e Candido o del porcile dell’Università italiana. Storia vera di un cervello senza padrino (Limina) di Ernesto Parlachiaro – eloquente pseudonimo, quest’ultimo, dietro cui si cela prudentemente un noto studioso di filosofia
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Missione ideale del traduttore, scriveva Ezra Pound in una lettera a Carlo Izzo, insigne anglista dell’Ateneo bolognese, riferendosi alla versione dell’ipnotica e tenebrosa Night litany che questi avrebbe incluso nella sua antologia della poesia nordamericana, è rendere l’essenza del testo facendola trasparire nella lingua d’arrivo come se il poeta si fosse originariamente e spontaneamente espresso
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Dicevano i fratelli Schlegel che una recensione – intesa quasi come genere letterario, o almeno come forma essenziale del pensiero critico – dovrebbe essere «la perfetta risoluzione di un’equazione critica». Ma è ovvio che non è possibile dare una soluzione univoca a quell’intricatissimo sistema di equazioni, dalle variabili implose e tendenti all’infinito, dai valori quanto mai contraddittori, relativi, controvertibili, che può essere rappresentata dal panorama, vastissimo e assai frammentato, della poesia italiana del secondo Novecento.
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Secondo un aneddoto narrato dallo stesso poeta, Di Giacomo abbandonò gli studi di medicina dopo aver visto, in una piovosa mattina d’autunno, cadere, lungo le scale della morgue, un groviglio osceno ed immondo di «membra umane», «teste mozze», «gambe sanguinanti». Orrori non meno atroci vide, forse, negli anni a venire, compiendo, nella veste di fotografo e cronista di nera, una sorta di catabasi agli inferi metropolitani, di oscura calata nel fondo lurido, promiscuo, e insieme brulicante di una vita ostinata e feroce (nella «scarrafunera», nel nido di scarafaggi, come lo chiama nei sonetti giovanili di ‘O fúnneco verde), del «ventre di Napoli».
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«Mérimée è una maschera». Così scriveva, nel 1870, all’indomani della morte dello scrittore francese, Ivan Turgenev, che proprio a lui, appassionato conoscitore delle lingue e delle letterature slave, doveva per larga parte la sua fortuna in Francia. La geniale metafora critica dell’autore di Padri e figli illumina, certo, uno degli aspetti più rilevanti della personalità di Mérimée, e uno dei motivi di maggior interesse che essa può avere agli occhi del lettore d’oggi.
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