Sicuramente la nota più appariscente di quest’ultima raccolta di Daniele Mencarelli, Figlio edita da Nottetempo in formato web, è la richiesta di compartecipazione totale al lettore, ancora più evidente che nella precedente raccolta, Bambino Gesù.
Qui l’etica della condivisione con l’altro, nell’esperienza elementare ed universale della paternità, ma anche della maternità e della “figlità”, per così dire, diventa esperienza artistica, prima e talvolta anche al di là dell’alchimia dello lo stile. Questo vuol dire che il racconto scarno e secco della cosa in sé, dei patimenti per Nicolò e per l’altro bambino morto, dello strazio dei genitori, della sofferenza connaturata alla nascita dell’uomo (è questo il succo di tutta la raccolta) è così potente e vero di per sé che non ha bisogno della’artificio della poesia, che passa in secondo ordine.
Non è un caso che le sezioni forse più riuscite siano quella intitolata Parentesi ... continua a leggere
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Di rado, leggendo poesie contemporanee capita di vivere un’esperienza di lettura così intensa e umanamente compiuta come leggendo i versi della raccolta Bambino Gesù di Daniele Mencarelli, raccolta che riassume la fatica di alcuni anni e che si innesta su un’esperienza di vita e di lavoro vissuta dall’autore nell’Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù” di Roma. La realtà, anzi il rispetto per il reale nei suoi lati più drammatici quindi più veri, rendono il libro un unicum nel panorama letterario corrente. Non ci sono manierismi di stile, pur essendo visibile un attento lavoro di calibratura nel lessico di registro medio, variato a tratti da espressioni popolari o termini tecnici, né estremismi nel trattamento di un verso spesso giambico, solenne negli accenti in modo da raccontare “l’epica della realtà quotidiana della morte e di Dio”, che potrebbe essere il sottotitolo del libro
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La letteratura, qualsiasi letteratura, cioè qualsiasi testo di qualsiasi tradizione o di qualsivoglia modernità o contemporaneità, può essere studiata a scuola, naturalmente usando qualche precauzione di metodo, e isolandone l’oggetto della didattica, cioè l’oggetto della conoscenza condivisa in classe; ma la pratica scolastica è una pratica che non è aliena toto corde dalla letteratura; anzi la creazione letteraria stessa la prevede, prevede che si possa dibatterne il significato in una comunità scolastica e se ne possa fare in qualche modo conoscenza. Anche un autore molto critico verso la scolasticità della poesia come Zanzotto (un tempo docente anche lui) scrive che «della poesia, che oggi accompagna ben pochi aldilà dell’infanzia e comunque dell’età scolare, durerà forse un’eco più lunga negli animi, mentre continuerà l’aspro riesame che si sta facendo della sua posizione nella scuola-scuoletta»
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Non c’è vera distinzione fra poesia propria e traduzione. Anzi la traduzione è il massimo impegno per un poeta poiché permette, traducendo, di lavorare in profondità su se stessi: ciò che si chiama stile che cos’è, infatti, se non una perenne ricerca di possibilità espressive nascoste o addirittura inconcepibili? Per questo ogni traduzione ha influenza certa sul proprio stile e sul proprio sviluppo espressivo e probabilmente tematico
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Una qualità ritmica non comune a disciplinare un lessico che si apre all’uso diretto e alla locuzione popolare, ma che stacca dalla convenzionalità e rigenera parole rare, varianti, arcaismi: ecco ciò che subito si mostra al lettore de Il cielo di lardo di Guido Oldani. Poi, proseguendo nella lettura, due sono i fatti che trattengono l’attenzione
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I temi dominanti (e di conseguenza alcune caratteristiche stilistiche) della poesia caproniana nel suo trentennale sviluppo, a partire dalle Stanze della funicolare, contenute nella raccolta Il passaggio d’Enea del 1956, fino a Il conte di Kevenhüller, del 1986, mi paiono i seguenti
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La questione dell’insorgere della poesia è un problema centrale in tutte le epoche in cui se ne è smarrito il senso. Fra i poeti tardo-alessandrini o fra i rimatori petrarchisti del Cinquecento, il problema diventa infatti una questione di analisi critica
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Premettiamo che questa antologia è stata concepita in modo un po’ insolito: più che essere un semplice excursus di miti o immagini religiose dell’oltretomba elaborate dalle varie civiltà succedutesi nella storia, i due curatori hanno pensato
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Affrontando il problema del canone letterario italiano della seconda metà del ’900, Romano Luperini nel suo bel testo Insegnare letteratura oggi propone una quaterna di nomi, che diventa poi una cinquina (Gadda, Calvino, P. Levi, Fenoglio e Bilenchi), motivando la scelta, correttamente, con criteri di natura linguistica e stilistica, e diffidando i docenti che, in base a una classifica “fai da te”, dessero nelle mani degli studenti testi di Carlo Levi, Moravia o (peggio) Brizzi, Nove o Santacroce, dal proporre modelli di lingua opinabili o addirittura scorretti
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Nel panorama moderno delle lettere italiane, desolante come una landa sahariana e arido da togliere ogni speranza, talvolta compare una piccola vena sorgiva autentica e arricchente, che rallegra.
Il piccolo libro di Tiziano Scarpa Groppi d’amore nella scuraglia, edito da Einaudi nel giugno di quest’anno, mi sembra un libro di questa natura. Scritto in una lingua totalmente inventata ma comprensibilissima, costruita su un modello di dialetto meridionale franco, una specie di siciliano popolare da Cielo d’Alcamo di notevole rigore stilistico e linguistico, il testo è un poemetto narrativo, che racconta le disavventure di Scatorchio e il suo amore per la bella Sirocchia, insidiata dal rivale Cicerchio.
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Vorrei, per una volta, parlare di Petrarca e non del petrarchismo, dunque soltanto del poeta e del suo umanesimo cristiano, lasciando per un attimo da parte il petrarchismo della nostra lingua letteraria, sul quale sono tornato varie volte, da Siamo ancora petrarchisti? del ’93 fino a Univocità ed eclettismo del 2004.
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Presso ‘La vita felice’, piccola e benemerita casa editrice milanese che dedica ancora collane ai giovani poeti (con la sapiente supervisione di Milo De Angelis) è uscito nel maggio scorso un libretto di poesie dal titolo Guardia alta di Daniele Mencarelli.
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Uno dei fatti salienti del Novecento poetico europeo, e soprattutto italiano, è stato la costruzione del libro di poesia secondo un piano compositivo prefissato o comunque abbastanza rigido. Questo è un dato intuitivo se, ad esempio, si comparano mentalmente le opere dei poeti dell'Ottocento più conosciuti con quelle di autori novecenteschi: degli uni si ricordano più facilmente singole poesie, ad esempio A Silvia o Il cinque maggio, degli altri i titoli dei libri, come Ossi di seppia o Sentimento del tempo.
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