Bibliomanie

La felicità: declinazioni storiche, letterarie, semiotiche
di , numero 55, giugno 2023, Editoriale, DOI

La felicità: declinazioni storiche, letterarie, semiotiche
Come citare questo articolo:
Elena Lamberti, La felicità: declinazioni storiche, letterarie, semiotiche, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 55, giugno 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10842

Se la recente emergenza sanitaria ha costruito narrazioni attorno alla parola “Resilienza”, ormai entrata nell’uso comune con semantiche mobili (a volte persino abusate e irritanti) e adattate ai diversi contesti di adozione (dall’economia alla medicina, dall’organizzazione sociale all’espressione artistica), il periodo post-pandemico sta mettendo in luce le fragilità individuali e collettive che, inevitabilmente, costituiscono l’onda lunga di ogni trauma. La parola “felicità” è diventata così preziosa, anch’essa oggi al centro di nuovi percorsi di indagine tesi a interpretarla come vero e proprio luogo di equilibrio e, dunque, di rinascita. Il rischio è però quello di trasformarla in un contenitore, per così dire, buono per tutte le stagioni, da utilizzarsi come antidoto a storie tristi o apocalittiche. Dopo avere indagato la narrazione della e sulla malattia (n. 53, Malattie, epidemie, dicerie) e dopo avere riflettuto su come letteratura fantascientifica e fantastoria abbiano stimolato il dibattito sugli effetti perturbanti della nostra società complessa (n. 54, Fantascienza, Fantastoria), il numero 55 di Bibliomanie (La Felicità: declinazioni storiche, letterarie, semiotiche) si propone di indagare cosa abbia voluto dire, nel tempo, ricercare la felicità, chiudendo un percorso che, nei suoi tre atti, si configura come una mappa concettuale transdisciplinare utile a cogliere universali e variabili di discorsi oggi più che mai attuali.
L’idea di felicità è stata al centro di molte riflessioni nel mondo classico (“bene comune” a cui tende l’azione politica per Aristotele; “equilibrio interiore” per Orazio; percorso virtuoso per Seneca; la tranquillità del corpo e della mente per Epicuro; la beatitudine, la fede e la conoscenza che porta a Dio per i Padri della Chiesa), ma è solo in epoca moderna, con la dichiarazione di indipendenza americana (1776), che “la ricerca della felicità” diventa un “diritto inalienabile”. In quel testo, già nel paragrafo successivo la parola Felicità è associata alla parola Sicurezza e dà corpo ad un binomio programmatico attorno al quale si costruisce una nuova idea di governo che prenderà forma a seguito della rivoluzione americana, la prima del mondo moderno. Se il concetto di Sicurezza è di facile comprensione e porta, già nel 1791, all’approvazione del famoso secondo emendamento (“Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di possedere e portare armi non potrà essere violato.”), quello di Felicità è più sfumato e si presta, nel tempo, a diverse interpretazioni.
Concetto ideale e idealizzato, quella “ricerca” ha infatti portato a definire la “felicità” soprattutto in termini di sicurezza materiale, innescando modelli e stili di vita che, a partire dalla fine dell’Ottocento e fino ad oggi, hanno trasceso il contesto nordamericano e caratterizzato prima il mondo occidentale, poi la realtà globalizzata. Dagli Stati Uniti al mondo, la letteratura ne ha tenuto traccia: il Martin Eden di Jack London (1909), il Grande Gatsby di Fitzgerald (1925), assurti ormai a classici della nostra contemporaneità, sono romanzi che mettono in crisi il sogno americano e che vanificano l’ideale romantico dell’amore come motore che accende la sfida e che porta, attraverso un percorso di crescita individuale, alla felicità condivisa (l’amore ricambiato, il successo nella vita), di fatto negata in entrambe le opere proprio nel momento in cui i due protagonisti sembrano raggiungerla. Sono romanzi che hanno così inaugurato il ventesimo secolo denunciando la crisi di una società sempre più autoreferenziale e interdipendente, fino all’implosione della “città mondo”, quella che si ritrova, un secolo dopo, nella Cosmopolis di Don DeLillo (2003). Una “città mondo” tradotta iconicamente (e, paradossalmente, anche iconoclasticamente) attraverso l’immagine di una limousine bianca, carapace di un lusso seriale e transnazionale, che protegge schermi su cui va ininterrottamente in scena l’iperrealtà digitale, quella delle vite di scarto di cui ha parlato Bauman,1 che traduce tutto in algoritmi di (e per il) successo. Per il ricco protagonista del romanzo pubblicato dopo l’11/09, ma ambientato nell’anno soglia che lo ha preceduto (“Nell’anno 2000. Un giorno di aprile”), nel nostro secolo la felicità non è ormai nemmeno una meta da ricercare, ma solo una finzione estetica, un artificio da mostrare, una sorta di bulimia dell’anima che porta a volere tutto e ancora di più, apaticamente ma ossessivamente.
La ricerca della felicità è stata così sempre più declinata in termini consumistici più che esistenziali, trasmessa o percepita più come un dovere che come un diritto, fino ad essere oggi inscritta in un vero e proprio “marketing della felicità”. La felicità è diventata sinonimo di successo omologato, una deriva inquietante che porta a pensarla soprattutto come competizione e non come collaborazione, come accumulo e non come condivisione. È un’idea di felicità costruita anche a partire da narrazioni sistemiche e dominanti, che creano nuove dipendenze e nuove alienazioni; soprattutto, è un’idea che limita l’immaginazione, ancora profondamente eurocentrica, occidentale.
“Voi avete investito in banche, noi in relazioni”, ricorda Leanne Betasamosake Simpson, critica, scrittrice e attivista della popolazione Michi Saagiig Nishanaabeg, mettendo così in discussione la scala di valori su cui ancora si fonda il mondo globalizzato.2 È proprio il “perseguire la Felicità” secondo modelli dominanti che viene oggi ripensato dalle nuove narrazioni indigene, che mettono in discussione non tanto i diritti inalienabili delle origini, quanto il loro essere nati in seno ad una idea di società non equa e fondata sulla infelicità di molti. La modernità e l’ambigua bellezza dei paragrafi che aprono la Dichiarazione di Indipendenza sono quindi oggi problematizzati attraverso testi che creano contro-narrazioni capaci di aprire nuovi orizzonti etico-politici e nuove semantiche che portano ad innovare l’idea stessa di Felicità per renderla, infine, patrimonio condiviso e dinamico. In questo nuovo scenario, particolarmente interessanti sono le narrazioni alterNative, quelle scritte dalle nuove generazioni indigene sempre meno nostalgiche di un passato che non può più ritornare, sempre meno “resilienti” (termine non più amato dalle popolazioni indigene poiché legato all’idea di sopravvivenza, dunque di adattamento, al periodo coloniale e di conquista) e sempre più “risorgenti” (termine col quale si indica la volontà di immaginare nuovi futuri, anche artistici). Narrazioni che invitano a ripensare non solo l’idea di “felicità”, ma anche quella di “infelicità”, quello stato d’animo che deriva dalla paura di perdere il “nostro mondo”, ormai al limite e non più sostenibile, indagata da tanti percorsi letterari, storici e semiotici (si pensi all’eco-critica declinata in molti percorsi transdisciplinari). Per le nuove generazioni indigene, così come per autori ed autrici che scrivono da quelli che una volta si definivano come i margini dell’Impero (ma oggi, in una società interconnessa e in rete non ci sono più margini, bensì snodi, punti di interconnessione), la sfida non è persa, è in corso: “Non è mai stata la fine del mondo. Ed è sempre stata la fine del mondo”.3 Ecco, dunque, che una diversa idea di felicità può prendere forma a partire da orizzonti diversi, da una diversa immaginazione. Non è poi così difficile, basta cambiare la prospettiva, definire un’altra idea di benessere e investire non più in denaro ma, come ricorda Simpson, in relazioni. “E non si rida di questo concetto di felicità, perché non è né ingenuo, né illusoriamente utopico; al contrario, è profondamente ecologico, dato che l’ambiente (oikos) è costruito nella nostra ragione a partire dal linguaggio che lo contiene (logos)”.4
E la riflessione sulla felicità proposta in questo numero tematico parte proprio dal linguaggio. La breve nota etimologica di Francesco Benozzo sulla parola “felice” ci aiuta a cogliere la mobilità semantica della radice indoeuropea *fē- che, nel tempo, apre alla lessicalizzazione dominante, come noto legata all’idea di “fertilità”, di “fecondità”. Nota breve ma intensa, poiché inscritta nell’iconomastica che tanto deve alla ricerca di Mario Alinei5 (1926-2018). Ed è proprio grazie alla mediazione di Benozzo che l’Università di Bologna ha accolto un prezioso lascito librario del fondatore dei Quaderni di Semantica); viene così rivelata la funzione sociale e culturale delle specifiche variazioni semantico-lessicali (o ‘riciclaggi’), che registrano e creano un grande archivio di memoria emotiva e cognitiva in seno a diversi costrutti sociali, dimostrando quanto sia prezioso lo studio iconomastico per cogliere appieno il divenire di ogni processo ambientale (inteso in chiave evoluzionista e non determinista, ovvero come il risultato di un adattamento e di negoziazioni incessanti tra più attori).
Indagando l’orazione De felicitate (1495) di Filippo Beroaldo seniore (“il vecchio”), Federico Diamanti persegue due obiettivi importanti: da un lato, viene ricordata la centralità della riflessione umanistica sulla “umana felicità”, indagata nel tempo lungo della tradizione latina fino al 1494; dall’altro, si consolida la fertile tradizione della ricerca bolognese sull’umanista già definito da Andrea Severi “un maestro per l’Europa”, un “classico moderno”.6 Il corso tenuto da Beroaldo all’università di Bologna nel 1494 si rivela così palestra perfetta per la messa a punto di una orazione qui indagata attraverso letture di passi selezionati e argomentati per accompagnare anche il lettore meno esperto attraverso il ragionamento del maestro, ormai consolidatosi come parte integrante del discorso umanistico coevo e, dunque, espressione di una scuola di pensiero capace di riverberare ben al di là della città in cui ebbe origine.
Nel suo contributo, Elisa Ravasio riflette sull’orizzonte eudomonistico in e di Platone, vero e proprio classico (anche) del dibattito sulla felicità, attraverso la lettura che ne ha dato un filosofo britannico, Bernard Williams (1929-2003). In particolare, Williams riflette sull’incertezza che, in alcuni passaggi dell’opera, sembra esserci sulla felicità dei guardiani che, esercitando la loro virtù, dovrebbero essere per natura felici. Concentrandosi sulla consapevolezza del filosofo, Williams vede in Platone colui che postula una necessaria connessione tra le diverse dimensioni della “giustizia” (ideale, etica, politica) e la dimensione comunitaria in cui si esplicano e ricorda come, nella pratica, la giustizia non possa prescindere dalla convinzione individuale che esercitare il bene per sé e per gli altri sia in sé segno di vita morale e ben spesa. È questo un postulato che resta di grande attualità, anche in epoca contemporanea, poiché pone ancora oggi al lettore una sfida etico-sociale che resta al centro dell’idea di cittadinanza attivamente (ovvero consapevolmente) “felice”.
Riprendendo la riflessione sulla “retorica della felicità” propria del Bildungsroman così come postulato da Franco Moretti nel suo Il romanzo di formazione,7 Giordano Ghirelli propone un excursus ragionato su come il tema della ricerca della felicità abbia posto diverse sfide narratologiche in seno a diverse tradizioni letterarie. In particolare, la felicità individuale (che è legata alla piena espressione di ciò “che l’individuo è, o sente di essere”) è spesso ostacolata o non contemplata dal mondo abitato dai giovani protagonisti, che sono così al centro di continue negoziazioni (riflessioni, monologhi, dialoghi) con i formatori (la famiglia, i tutori, la società in senso lato), con equilibri raggiunti a fatica e necessariamente precari, che puntualmente si riflettono sulla dimensione narratologica. Da qui la riflessione sul classico del genere, Anni dell’apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe, analizzato nel suo tentativo di “ripristinare il nesso tra narrazione e felicità” e restituire al romanzo un ruolo educativo “possibile”, se non davvero stabile.
“Ottimismo tragico”, “positività tossica”, sono espressioni al centro della riflessione proposta da Lorena Carbonara, in un saggio che porta il lettore ad indagare i rischi e i limiti della radicalizzazione del “pensiero positivo”. La felicità precaria del romanzo di formazione più tradizionale è così oggi contrapposta al “marketing della felicità”, vera e propria industria che traduce il mito dell’American Dream in una ricerca materiale, omologata e omologante. Il saggio ripercorre le origini del pensiero positivo come ideologia che ha origine nel New Thought americano, a sua volta ispirato dal Trascendentalismo ottocentesco, un movimento, il primo, particolarmente pervasivo per il suo essere, ad un tempo, secolare e spirituale, per arrivare a riflettere sulle connessioni tra felicità tossica e cospirazionismo; connessioni messe in luce da una sorta di semantica della felicità, che una analisi del discorso “conspirituale” rivela, analizza e commenta.
Se i saggi precedenti riflettono su una idea di (ricerca della) felicità inscritta nella tradizione e nella realtà occidentale, eurocentrica e dominante, il saggio di Federico Gabriele Ferretti la contestualizza a partire da quell’immaginario alterNativo sopra ricordato, oggi sempre meno resiliente e sempre più risorgente proprio là dove la felicità tossica è radicata: l’America, intesa come continente e non solo come nazione, ovvero riduzione metonimica. In particolare, il saggio porta il lettore a confrontarsi con i memoirs dell’autrice Ernestine Saankaláxt Hayes (n. 1945), della nazione Tlingit (costa nord occidentale del Pacifico), che postulano una diversa idea di (romanzo) di formazione, di fatto, vera e propria sfida all’idea letteraria dominante: in queste opere, infatti, l’identità del singolo si (ri)costruisce a partire da un dialogo incessante tra individuo e gruppo sociale che porta ad un confronto serrato con memorie traumatiche vissute o ereditate, sempre (ri)elaborate in modo tanto intimo, che collettivo. La ricerca della felicità è così inscritta in una idea di mondo diversa, radicata in una dimensione relazionale per la quale la ricerca della felicità personale ha senso solo se rientra in una dimensione necessariamente corale e condivisa.

Note

  1. Zygmunt Bauman, Vite di scarto, Bari, Laterza, 2007.
  2. Leanne Betasamosake Simpson, This Accident of Being Lost, House of Anansi, Toronto, 2017.
  3. B. Piatote, The Beadworkers Stories, Counterpoint, Berkeley 2019.
  4. Elena Lamberti, “World Literature e le sfide etiche del mondo interconnesso”, in Silvia Abertazzi, a cura di, Introduzione alla World Literature. Percorsi e prospettive, Carocci 2022.
  5. Mario Alinei, “Principi di teoria motivazionale (iconimia) e di lessicologia motivazionale (iconomastica)”, in L. Mucciante, T. Telmon (a cura di), Lessicologia e lessicografia, Atti del xx Convegno della Societa italiana di glottologia, Chieti-Pescara, 12-14 ottobre 1995), Il Calamo, Roma, pp. 9-36.
  6. Andrea Severi, Filippo Beroaldo il Vecchio, un maestro per l’Europa: da commentatore di classici a classico moderno (1481-1550), Bologna, Società editrice il Mulino, 2015.
  7. Franco Moretti, Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 1999.

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